Ignazio Cantoni, Cristianità n. 428 (2024)
L’autore
Joseph-Marie de Maistre nasce a Chambéry, in Savoia, allora parte del Regno di Sardegna, il 1° aprile 1753; il padre François-Xavier (1705-1789) è un magistrato, senatore e nobilitato nel 1778, mentre la madre è la nobile Christine Demotz (1722-1774) (1).
Dopo gli studi nella città natale, Joseph si laurea in giurisprudenza a Torino nel 1772; ritornato a Chambéry, inizia la propria carriera nella magistratura; anche in ciò seguendo le orme del padre, nel 1788 diviene membro del Senato di Savoia.
Nel 1786 sposa Françoise-Marguerite de Morand de Saint-Sulpice (1759-1839), con la quale avrà tre figli.
Di idee vagamente illuministiche e contrattualistiche, si iscrive nel 1774 alla loggia massonica di rito inglese dei Trois Mortiers e nel 1778 si sposta in quella di rito scozzese rettificato della Parfaite Sincérité, dove si raccolgono sostenitori di correnti spiritualistiche e occultistiche. Come molti altri in quel periodo, egli ritiene che non tutte le correnti massoniche siano oggetto della condanna della Chiesa — come invece il magistero chiarirà nell’arco del secolo XIX — ed è convinto che ci possa essere una massoneria buona che possa lavorare, fra le altre cose, al servizio dell’unità dei cristiani.
Nel 1789 scoppia la Rivoluzione francese, verso la quale inizialmente nutre atteggiamenti positivi: di lì a poco il suo giudizio cambierà totalmente. Viene coinvolto in prima persona dalle successive vicende politiche: quando la Francia invade la Savoia nel settembre 1792, fedele al proprio re inizia un periodo travagliato di esilio che lo porta, fra gli altri luoghi, in Svizzera e a Venezia, sempre in condizioni economiche precarie.
Fra il 1799 e il 1802 è capo della Cancelleria reale a Cagliari; nel 1802 viene nominato ambasciatore a San Pietroburgo presso lo zar Alessandro I Romanov (1777-1825), carica che lo vede impegnato fino al 1817; tornato in patria viene nominato nel 1818 reggente della Grande Cancelleria. Muore il 26 febbraio 1821, «[…] per andare a ricevere il premio dei buoni nella patria dei beati», secondo il parere di san Giovanni Bosco (1815-1888) (2).
«Pensatore sublime» (3) dotato di «spirito indipendente dai pregiudizî del suo secolo» (4), secondo il beato don Antonio Rosmini (1797-1855), era di carattere amabile e gioviale, dotato di intelligenza e memoria notevoli, lavoratore indefesso e studioso assiduo (5). Padrone di diverse lingue, frequenta i classici del pensiero e della letteratura, approfondendo temi di storia, di filosofia, nonché di teologia e di scienza; pubblicherà poco durante la propria vita, riscuotendo comunque una discreta fama: la gran parte delle sue opere verrà diffusa postuma. Le più notevoli sono: Della sovranità del popolo (6); le Considerazioni sulla Francia (7); l’Esame della filosofia di Bacone; Il Papa (8); le Serate di San Pietroburgo o Intrattenimenti sul governo temporale della Provvidenza (9); nonché il Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane.
L’opera
Di quest’ultima opera il professor Andrea Salvatore — associato di Filosofia Politica presso il Dipartimento di Filosofia di Sapienza-Università di Roma — ha curato nel 2024 una nuova edizione, corredandola con una Presentazione (pp. 7-16), un Profilo biografico di Joseph de Maistre (pp. 83-99) e uno studio dal titolo Giustificare l’ingiustificabile. Maistre e il paradosso della legittimità (pp. 101-127) (10).
Il tema è solo apparentemente poco attuale. Legato alla sua epoca — il periodo della Rivoluzione francese e della dominazione napoleonica — il testo affronta problemi fondativi di fisiologia sociale: come nasce un’istituzione? Come cresce? A quali condizioni prospera? Che rapporto vi è fra i singoli e le istituzioni? Che rapporto intercorre fra le tradizioni e le riforme? Che cosa fa sì che una legge sia buona?
Durante la Rivoluzione francese il mondo aveva assistito a qualcosa che, a memoria d’uomo, non era mai accaduto: un’assemblea di rappresentanti di un’intera nazione aveva cercato non di riformare le istituzioni del proprio Paese, ma di rifondare il mondo sulla base dei propri decreti. Di tale volontà prometeica sono espressione non solo l’abolizione dei vincoli feudali e della monarchia, la secolarizzazione dei beni della Chiesa, ma anche — forse soprattutto — due eventi: la creazione del calendario repubblicano, che prevedeva la rinumerazione degli anni dal primo della Repubblica, l’abolizione delle settimane in favore delle decadi e una nuova denominazione dei mesi; e il culto della Ragione.
Tale disegno era stato anticipato dal rivoluzionario Jean-Paul Rabaut Saint-Étienne (1743-1793), che affermava: «dobbiamo rinnovare questo popolo, per ringiovanirlo, cambiare le sue forme per cambiare le sue idee, cambiare le sue leggi per cambiare i suoi costumi, e tutto distruggere, sì, tutto distruggere, poiché tutto deve essere ricreato» (11). E questa «distruzione creatrice» doveva avvenire perché tutto era male: «[…] l’Assemblea Nazionale, […] colpita dalla moltitudine di abusi contro i quali ognuno di noi aveva ascoltato, durante tutta la sua vita, lunghe e inutili lamentele, […] ha pensato che fosse essenziale tagliarli alla radice; che, non essendosi mai verificata una circostanza del genere nella storia della Francia, in tutta la storia dell’Universo, bisognava approfittarne; che sarebbe stato un crimine limitarsi a palliativi avendo il male raggiunto tutte le parti dello Stato; […] era necessario rinnovare questo popolo, cambiare le persone, cambiare le cose, cambiare le parole, e riportarlo ai veri principi, da cui si era allontanato completamente» (12).
Contro tale progetto — che documenta quanto profonde siano le radici dell’odierna ideologia woke — si erge de Maistre, il quale porta riflessioni atte a confutare alcune convinzioni dominanti. In primis, che gli uomini hanno la capacità di decidere come la società debba essere costituita e la forza di metterlo in pratica; quindi, che le leggi hanno maggiore forza per il fatto di essere scritte.
Questi giudizi sono erronei e, come tali, creano danni; ma sono ancora più pericolosi perché si fondano entrambi su un terzo assunto, più grave dei precedenti, secondo cui gli uomini sono legge a loro stessi: come singoli e come comunità, non hanno origine da un Dio, ma, essendo frutto del caso, possono decidere da soli le proprie regole di comportamento.
«Gli uomini hanno la capacità di decidere come la società debba essere costituita e la forza di metterlo in pratica»
La storia propria di ciascuna nazione è un percorso dove il tempo, che è «il primo ministro di Dio al dicastero di questo mondo» (cfr. p. 52), e le circostanze sono fuori dalla portata degli uomini, i quali possono certamente intervenire tramite la propria libertà, ma sempre all’interno di dati di fatto: storici, economici, geografici, e così via.
Le società sono dotate di dinamiche proprie, tuttavia analoghe alle leggi del mondo fisico: «Poiché agisce, l’uomo crede di agire solo, e dal momento che possiede la coscienza della sua libertà dimentica la sua dipendenza. Nell’ordine fisico egli intende ragione: sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., egli è nondimeno in grado di convenire che non è lui a creare querce, poiché vede l’albero crescere e perfezionarsi senza il concorso del potere dell’uomo, e poiché del resto non è stato lui a creare la ghianda. Ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo tramite: è, in certo senso, la cazzuola che si crede architetto» (pp. 36-37).
Questi vincoli richiamano la Provvidenza divina, che interagisce con le azioni umane ma ultimamente le armonizza e le conduce ai suoi obiettivi: «L’uomo è intelligente, libero, sublime, senza dubbio; ma è comunque uno “strumento di Dio”, secondo la felice espressione di Plutarco» (p. 37).
Esempio lampante di tale verità è l’Inghilterra, la cui «[…] Costituzione è l’opera delle circostanze e il numero di queste circostanze è infinito. Le leggi romane, le leggi ecclesiastiche, le leggi feudali; i costumi sassoni, normanni e danesi; i privilegi, i pregiudizi e le pretese di tutti gli ordini; le guerre, le rivolte, le rivoluzioni, la conquista, le crociate; tutte le virtù, tutti i vizi, tutte le conoscenze, tutti gli errori, tutte le passioni; tutti questi elementi, insomma, agendo insieme e formando con la loro commistione e la loro azione reciproca combinazioni moltiplicate per miriadi di milioni, hanno prodotto infine, dopo molti secoli, l’unità più complicata e il più bell’equilibrio di forze politiche che si sia mai visto nel mondo» (p. 38). E ciò è avvenuto senza che nessuno degli inglesi «[…] abbia mai saputo ciò che faceva in rapporto al tutto né previsto ciò che doveva accadere» (pp. 38-39). Ma chi poteva definire e scrivere anticipatamente un percorso del genere? «La più grande follia, forse, del secolo delle follie fu credere che delle leggi fondamentali potessero essere scritte a priori, mentre sono evidentemente l’opera di una forza superiore all’uomo, e la scrittura stessa, di molto successiva, è per esse il più grande segno di nullità» (p. 39).
Il richiamo al tempo, alle circostanze, all’arte di coltivare qualcosa che ha un principio vitale proprio, che va rispettato e non fondato, è l’occasione per riflettere su un’altra importante verità sociale: «“Nulla di grande ha grandi inizi”. Non si troverà nella storia di tutti i secoli una sola eccezione a questa legge. Crescit occulto velut arbor evo [cresce di nascosto, nel tempo, come un albero]: è il motto eterno di ogni grande istituzione; dal che consegue che ogni istituzione falsa scrive molto, perché sente la sua debolezza e cerca di sostenersi» (pp. 47-48). Come gli uomini, le istituzioni durature nascono e crescono, ed è errato cercare un’«istituzione che nasca adulta», come cercare «in un bambino in fasce le vere dimensioni dell’uomo fatto» (p. 48).
Non solo la creazione di istituzioni durevoli è impossibile all’uomo, ma anche il solo miglioramento delle medesime è precluso, se ciò non avviene nel rispetto dell’ordine voluto da Dio. «Non soltanto la creazione non appartiene affatto all’uomo, ma non sembra neanche che la nostra potenza, non assistita, giunga fino a cambiare in meglio le istituzioni instaurate. Se vi è qualcosa di evidente per l’uomo, è l’esistenza di due forze opposte che si combattono senza tregua nell’universo. Non vi è nessun bene che il male non sporchi e non alteri, come non vi è nessun male che il bene non comprima e non attacchi, spingendo incessantemente verso uno stato più perfetto. […] Il potere umano non giunge forse che a togliere o a combattere il male per liberarne il bene e restituirgli il potere di germogliare secondo la sua natura» (pp. 60-61).
«Le leggi hanno maggiore forza per il fatto di essere scritte»
Il pensiero di de Maistre, relativamente alla scrittura, si può probabilmente riassumere in questa immagine: «il bambino viene prima dell’anagrafe». Scrive per esempio: «Una legge costituzionale non è e non può essere altro che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto» (p. 36). La società esiste prima di qualsiasi presunta fondazione di sé stessa sulla base di accordi, convenzioni, o altro; come sintetizza Andrea Salvatore, «quando una nazione si riunisce per darsi una Costituzione, […] delle due l’una: o fino al momento dell’approvazione della Costituzione tale consesso non poteva esistere, e dunque non è chiaro come e in nome di cosa esso possa aver agito; oppure è necessario supporre un qualche legame e vincolo pre-costituzionale» (p. 118).
In forza di ciò, se il legislatore vuole scrivere, deve sapere che, più ci si avvicina al fondamento della società, meno esso è definibile: «Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo senza pericolo per lo Stato» (p. 36). Infatti, «non si è mai scritto né mai si scriverà a priori la raccolta delle leggi fondamentali che devono costituire una società civile o religiosa. Semplicemente, allorché la società si trova già costituita, senza che possa dirsi come, è possibile far dichiarare o spiegare per iscritto certi articoli particolari; ma quasi sempre queste dichiarazioni sono l’effetto o la causa di mali assai grandi e sempre costano ai popoli più di quanto valgono» (p. 52).
Ancora una volta, la scrittura può fissare in modo unilaterale, parziale, limitato, l’unità, gli equilibri e i doveri di una società; e ciò, in alcuni casi, può essere anche necessario, sembra talvolta ammettere de Maistre; ma si correrà sempre il rischio di scambiare una possibile descrizione con la realtà descritta, una definizione con l’essenza. In una parola: la carta d’identità con la persona.
Ciò accade perché non vi è descrizione che possa esaurire la realtà descritta, così come non vi è lettera che possa conservare in modo assoluto lo spirito, che in una società è definito in ultima istanza dalla sovranità.
«Queste idee non sono affatto estranee (prese nella loro generalità) ai filosofi dell’antichità: costoro hanno ben sentito la debolezza, quasi direi il nulla, della scrittura nelle grandi istituzioni; ma nessuno questa verità ha visto meglio né meglio espresso di Platone [427-347 a.C.], che si incontra sempre per primo sulla strada di tutte le grandi verità. Secondo lui, in primo luogo, l’uomo che deve alla scrittura tutta la sua istruzione non avrà mai altro che l’apparenza della saggezza. Aggiunge poi che la parola sta alla scrittura come un uomo al suo ritratto. Le produzioni della scrittura si presentano ai nostri occhi come viventi, ma se le si interroga osservano un dignitoso silenzio. Vale lo stesso per la scrittura, che non sa ciò che bisogna dire a un uomo né ciò che bisogna nascondere a un altro. Se la si attacca o insulta senza ragione, essa non può difendersi, in quanto suo padre non è mai là a sostenerla. Di modo che chi immagina di poter stabilire tramite la sola scrittura una dottrina chiara e durevole, È UN GRANDE STOLTO» (pp. 44-45).
«Gli uomini sono legge a loro stessi»
I due giudizi sopra esposti si appoggiano su un assunto metafisico, che è il vero obiettivo polemico del conte savoiardo; senza questo fondamento, gli altri due potrebbero essere ricondotti a pura ignoranza, certo dannosa — molto dannosa —, ma risolvibile con uno sforzo di mero apprendimento. Invece, questo fondamento è l’idea che per l’uomo non esistano vincoli naturali o religiosi da rispettare, cioè che egli sia legge a sé stesso, che la sua onnipotenza gli permetta di fare e disfare il mondo a suo piacimento.
Contro tale pretesa, de Maistre ricorda che la legge naturale — come tale voluta da Dio, autore della natura — è inalienabile, e che non basta scrivere qualcosa sulla carta per cambiare la realtà. «L’essenza di una legge fondamentale consiste nel fatto che nessuno abbia il diritto di abolirla: ora, come potrà una legge essere al di sopra di tutti, se qualcuno l’ha fatta? L’accordo del popolo è impossibile; e quand’anche non lo fosse, un accordo non è affatto una legge e non obbliga alcuno, a meno che non vi sia un’autorità superiore che se ne faccia garante» (p. 30). Argomentando ciò il conte si appoggia al teologo francese Nicolas-Sylvestre Bergier (1718-1790), secondo cui «“nel sistema di Hobbes [Thomas (1588-1679)][…] la forza delle leggi civili non poggia che su una convenzione; ma a cosa servono le leggi che si è fatto se non vi è legge naturale che ordini di eseguirle? Le promesse, gli impegni, i giuramenti non sono che delle parole: è tanto facile rompere questo legame superficiale quanto formarlo. Senza il dogma di un Dio legislatore, qualunque obbligazione morale è una chimera”» (pp. 30-31).
Il fondamento di una società è divino in quanto è frutto dell’azione della Provvidenza, ma anche e soprattutto perché rispetta le leggi naturali, cioè, in altre parole, i Dieci Comandamenti. «Ma poiché qualunque Costituzione è divina nel suo principio, ne segue che l’uomo non può niente in questo campo a meno che non si appoggi su Dio, di cui diviene allora lo strumento» (p. 53); è per questo che la storia, «politica sperimentale» (ibidem), ci fa vedere «costantemente la culla delle nazioni circondata di preti e la divinità sempre chiamata in soccorso della debolezza umana» (ibidem).
«Mai le nazioni sono state civilizzate se non dalle religioni» (p. 55); de Maistre porta a esempio, fra gli altri, i popoli del Nuovo Mondo, polemizzando con i loro conquistatori, i quali vengono contrapposti ai missionari: «Da tre secoli siamo là con le nostre leggi, le nostre arti, le nostre scienze, la nostra civiltà, il nostro commercio e il nostro lusso. Cosa abbiamo guadagnato sullo stato selvaggio? Niente. Distruggiamo quegli infelici con il ferro e con l’acquavite, li respingiamo a poco a poco all’interno dei deserti, finché infine scompaiono interamente, vittime dei nostri vizi quanto della nostra crudele superiorità» (p. 55).
E si permette anche un poco di graffiante ironia: «Qualche filosofo ha mai immaginato di lasciare la sua patria e i suoi piaceri per andarsene nelle foreste dell’America a caccia di selvaggi, far loro disgustare tutti i vizi della barbarie e dar loro una morale?» (ibidem). No: «Siamo in attesa che si decidano una buona volta a iniziare» (p. 55n). E prosegue: «[…] sono stati i missionari a operare tale meraviglia, tanto superiore alle forze e finanche alla volontà umana. Loro soli hanno percorso da un’estremità all’altra il vasto continente americano per crearvi degli uomini. Loro soli hanno fatto ciò che la politica non aveva neanche soltanto osato immaginare» (p. 56).
Conclusione
Per de Maistre sia l’esperienza sia la ragione confermano che «l’uomo, in rapporto al suo Creatore, è sublime e la sua azione creatrice: al contrario, non appena si separa da Dio e agisce solo, non cessa di essere potente, poiché questo è un privilegio della sua natura; ma la sua azione è negativa e non ha altro esito che la distruzione» (pp. 65-66); «non vi è nella storia di tutti i secoli un solo fatto che contraddica queste massime. Nessuna istituzione umana può durare se non è sostenuta dalla mano che tutto sostiene; vale a dire, se essa non le è specialmente consacrata nella sua origine. Più questa sarà penetrata dal principio divino e più sarà durevole. Inquietante accecamento degli uomini del nostro secolo! Si vantano dei loro lumi e ignorano tutto, poiché ignorano loro stessi. Non sanno né ciò che sono né ciò che possono. Un orgoglio indomabile li induce incessantemente a rovesciare tutto ciò che non hanno fatto; e per produrre nuove creazioni si separano dal principio di ogni esistenza» (p. 66).
Nulla di diverso, pare, venne detto in occasione del crollo di un’altra ideologia, di cui la Rivoluzione francese è stata la madre, ossia il social-comunismo: «Il crollo del comunismo mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista, e mostra coi fatti, oltre che in linea di principio, che non è possibile disgiungere la causa di Dio dalla causa dell’uomo» (13).
Dopo oltre due secoli di bagni di sangue espressamente perpetrati per «distruggere tutto al fine di ricostruire tutto», sempre senza Dio quando non contro Dio, de Maistre merita ben più ascolto di quanto, pur con lodevoli eccezioni, abbia finora ottenuto: «Il progressista trionfa sempre e il reazionario ha sempre ragione.
«Avere ragione in politica non vuol dire occupare il palcoscenico, bensì annunciare già dal primo atto i cadaveri del quinto» (14).
Ignazio Cantoni
Note:
1) Cfr. Henri de Maistre (1957-1996), Joseph de Maistre, Perrin, Paris 1990.
2) San Giovanni Bosco, La storia d’Italia raccontata alla gioventù. Dai suoi primi abitatori sino ai nostri giorni. Con analoga carta geografica, 10a ed. accr., Tipografia e Libreria dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino 1874, p. 449.
3) Beato Antonio Rosmini Serbati, Filosofia della politica, a cura di Mario D’Addio (1923-2017), vol. 33 di Idem, Opere edite ed inedite, edizione nazionale promossa da Enrico Castelli (1900-1977), edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca (1908-1975), a cura dell’Istituto di Studi Filosofici di Roma e del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, Città Nuova, Roma 1997, p. 117.
4) Idem, Logica. Libri tre, a cura di Vincenzo Sala, vol. 8 di Idem, Opere edite ed inedite, cit., Roma 1984, p. 34, n. 22.
5) Cfr. Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869), Joseph de Maistre, trad. it., a cura di Alessandro Settimo, Nino Aragno Editore, Torino 2023, passim ma soprattutto pp. 3-13, p. 79 e p. 132.
6) Cfr. Joseph de Maistre, Studio sulla Sovranità, trad. it., in Idem, Scritti politici. Saggio su il principio generatore delle Costituzioni politiche. Studio sulla sovranità, a cura di Lamberto Crociani O.S.M. (1951-2022) e Simonetta Moretti, con una Presentazione di don Luigi Negri (1941-2021) e una Introduzione di Franco Cardini, Cantagalli, Siena 2000, pp. 107-334.
7) Cfr. Idem, Considerazioni sulla Francia, trad. it., Prefazione e traduzione dall’originale di Guido Vignelli, Editoriale Il Giglio, Napoli 2010.
8) Cfr. Idem, Il Papa, trad. it., Introduzione di Carlo Bo (1911-2001), note a cura di Jacques Lovie (1908-1987) e Joannès Chetail (1909-2002), 2a ed., Rizzoli, Milano 1995.
9) Cfr. Idem, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, edizione italiana a cura di Alfredo Cattabiani (1937-2003), con in appendice il trattato di Plutarco (50 ca.-120 ca.) Perché la giustizia divina punisce tardi nella versione e con il commento di J. de Maistre, con una prefazione di Armando Torno, Luni Editrice, Milano 2023.
10) Cfr. Idem, Saggio sul principio generatore delle Costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, trad. it., a cura di Andrea Salvatore, Quodlibet, Macerata 2024; è la 13a ed. italiana. Tutte le citazioni seguenti con l’indicazione di pagina fra parentesi fanno riferimento a questa edizione.
11) Jean-Paul Rabaut Saint-Étienne, Réflexions sur la division nouvelle du Royaume, s.i.e., Parigi 1790, p. 6.
12) Ibid., p. 5.
13) Sinodo dei Vescovi. Assemblea speciale per l’Europa, Dichiarazione «Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato», 14-12-1991, n. 1.
14) Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), Escolios a un texto implícito, trad. it., a cura di Loris Pasinato, vol. I, Gog Edizioni, s.i.l. 2017, p. 172.