di Sandro Petrucci (1959-2017)
Il Trattato di Tolentino (1797)
1. Le ragioni della Campagna d’Italia
Gli scopi della Campagna d’Italia, iniziata dalla Repubblica Francese — nata dalla Rivoluzione del 1789 — nell’aprile del 1796 e guidata da Napoleone Bonaparte (1769-1821), possono riassumersi così: accaparrare quanto più possibile denaro, opere d’arte, generi alimentari, animali e armi attraverso furti e contribuzioni forzate; occupare territori da scambiare al momento delle trattative con l’Impero asburgico. La cessione all’Austria della Repubblica di Venezia con il Trattato di Campoformio (Udine), del 17 ottobre 1797, costituisce l’esempio più noto di tale intenzione. La Francia del Direttorio si trovava in una drammatica situazione economica e finanziaria. «Il tesoro nazionale era completamente vuoto, non c’era un soldo», scrive nelle sue Mémoires uno dei cinque direttori, Louis Marie de la Revellière-Lépeaux (1753-1824), e in una lettera al commissario del Direttorio presso l’esercito in Italia, Antoine Christophe Saliceti (1757-1809), osserva: «Con le vostre baionette voi trovate più denaro di noi con tutte le nostre leggi finanziarie». La ricca corrispondenza del Direttorio con Bonaparte non lascia dubbi su quanto fosse perentorio l’ordine di rapina: «Le vostre spedizioni verso il sud d’Italia devono essere vive e rapide: le risorse immense che troverete saranno spedite senza ritardo in Francia». Gli storici hanno osservato che finanziariamente gli invii di Bonaparte dall’Italia costituirono un aiuto notevole per le casse pubbliche francesi.
2. L’armistizio di Bologna
La Campagna d’Italia, che si svolge fra il 1796 e il 1797, per la maggior parte nelle regioni settentrionali, contro l’esercito imperiale, conosce due tappe nello Stato pontificio. Da Parigi il Direttorio invita più volte il generale còrso, impegnato in Lombardia, a marciare verso i territori pontifici per ottenere nuove contribuzioni. Le difficoltà a compiere quanto desidera il governo parigino derivano a Napoleone da più fattori: la scarsezza di uomini — entra in Italia con circa 40mila soldati male equipaggiati a cui promette le ricchezze delle città della Penisola —, la precarietà delle vittorie sull’esercito imperiale — non bisogna pensare alla campagna napoleonica come a una marcia trionfale — e le difficoltà a tenere sotto controllo il territorio occupato a causa delle insorgenze, al punto che si teme una nuova Vandea in Italia.
La prima incursione nel territorio pontificio è realizzata con l’inganno: infatti, nonostante le trattative in corso fra il commissario del Direttorio nell’esercito in Italia e l’incaricato del governo pontificio, Bonaparte ordina di marciare su Bologna, che viene presa il 19 giugno 1796. Le autorità pontificie evitano ogni atteggiamento d’ostilità, cercando d’impedire anche la reazione popolare, che però non manca. Il 23 giugno 1796 viene firmato a Bologna l’armistizio fra Napoleone e i rappresentanti del Pontefice: le Legazioni Pontificie di Bologna e di Ferrara passano alla Francia e Ancona è posta sotto il controllo militare dell’esercito oltremontano; al Papa vengono imposte contribuzioni in opere d’arte — cento tavole, busti, vasi e statue, cinquecento manoscritti —, in denaro — ventuno milioni di lire, di cui quindici in lingotti d’oro e d’argento —, in derrate e in animali. Nei giorni successivi si verificano sollevazioni popolari in molte località della Romagna contro le requisizioni e l’atteggiamento anti-religioso dei francesi: il caso più noto è quello di Lugo (Ravenna), del luglio del 1796.
3. I negoziati di Parigi e di Firenze
Nel luglio del 1796 iniziano a Parigi i negoziati fra la Sede Apostolica e la Repubblica Francese per una pace definitiva. Le trattative si presentano subito difficili perché il governo parigino chiede al Papa di revocare e di sconfessare i documenti relativi alla Francia, e in particolare la condanna della Costituzione Civile del Clero, del 12 luglio 1790: richieste inaccettabili per Roma, dal momento che toccavano questioni religiose. Le trattative, rotte dal Direttorio, riprendono a Firenze in settembre, ma lo scoglio rimane. Era opinione diffusa che il Direttorio volesse prendere tempo, sperando in una imminente conquista di Roma a opera di Bonaparte, al fine di ottenere nuovi contributi per continuare la guerra e per costringere il Papa alle condizioni ricordate. Nelle trattative emerge la fermezza di Papa Pio VI (1775-1799) di fronte alle richieste francesi: «nel periodo più tragico» — nota lo storico Giustino Filippone — manifesta «le migliori doti del suo carattere», tanto da apparire «un personaggio nuovo, di rinnovato prestigio».
4. Il Trattato di Tolentino
La rottura delle trattative, il mancato rispetto dell’armistizio di Bologna, i sospetti di una prossima conquista delle terre pontificie, inducono il governo romano, fra la fine del 1796 e l’inizio del 1797, a dar vita a un esercito di difesa. Bonaparte, impegnato nell’assedio di Mantova, difesa dall’esercito imperiale, può dedicarsi a nuove iniziative belliche nell’Italia Centrale solo dopo la caduta di quella città, il 1° febbraio 1797. Il giorno successivo le truppe francesi e cisalpine sconfiggono quelle pontificie nella battaglia del fiume Senio, nei pressi di Faenza (Ravenna). Sul comportamento dei pontifici lo stesso Filippone osserva che «si rise […] per molto tempo sulla resistenza dell’esercito pontificio e forse troppo, e con non molta ragione». Rapidamente i francesi occupano le principali città costiere delle Marche, arrivando fino al territorio di Fermo: Bonaparte desiderava raggiungere un fruttuoso accordo e realizzare rapine e requisizioni che gli garantissero denaro, armi, vettovaglie per proseguire a nord lo scontro con l’esercito imperiale.
Domenica 19 febbraio 1797 a Tolentino, presso Macerata, viene firmato l’omonimo trattato da Bonaparte, comandante dell’armata francese in Italia, e da François Cacault (1742-1805), ambasciatore francese a Roma, per la Francia, e da mons. Alessandro Mattei, arcivescovo di Ferrara (1744-1820), da mons. Lorenzo Caleppi (1741-1817), dal nipote del Papa duca Luigi Braschi Onesti (1745-1816) e dal marchese Camillo Massimo (1730-1801), plenipotenziari del Pontefice Pio VI (1775-1799). Il trattato è composto di venticinque articoli: i primi cinque riguardano i rapporti fra Roma e Parigi, per cui la prima non doveva sostenere le potenze europee in guerra contro la Francia, doveva aprire i porti dello Stato alle navi francesi e doveva sciogliere l’esercito. Gli articoli dal 6 al 9 stabiliscono la perdita da parte del Papa dei territori di Avignone, in Francia, e delle Legazioni di Bologna, di Ferrara e della Romagna, già occupate dai francesi nel giugno del 1796. Gli articoli dal 10 al 13 riguardano invece le contribuzioni dovute dal governo pontificio alla Francia: quindici milioni di lire tornesi — dieci in contanti, cinque in diamanti — per estinguere quanto il Papa doveva in base all’armistizio di Bologna; a essi si aggiungevano altri quindici milioni della stessa moneta da versare entro l’aprile del 1797; ottocento cavalli da guerra e ottocento da tiro, buoi, bufali e oggetti non precisati; infine, si conferma l’articolo 8 dell’armistizio di Bologna relativo ai manoscritti e agli oggetti d’arte. Gli altri articoli fissano sia i tempi dell’evacuazione dei francesi dalle Marche in relazione ai pagamenti stabiliti, sia altri aspetti particolari dei rapporti tra Francia e Stato pontificio. L’importanza del trattato di Tolentino consiste soprattutto nel costituire il modello per le requisizioni artistiche imposte nelle successive conquiste.
5. I limiti del Trattato
Nel trattato non si fa riferimento a questioni religiose. Sarebbe improprio dedurne un atteggiamento meno ideologico da parte di Bonaparte rispetto a quello del Direttorio, il quale più volte invita il generale a conquistare Roma. Ecco un saggio delle lettere che al generale provenivano da Parigi: «[…] nel portare attenzione su tutti gli ostacoli che si oppongono all’affermazione della Costituzione francese, il Direttorio ha compreso che il culto romano è quello di cui i nemici della libertà possono fare fra qualche tempo l’uso più dannoso […] la religione romana sarà sempre la nemica inconciliabile della Repubblica»; quindi, per affermare la repubblica, era necessario «distruggere […], se è possibile, il centro di unità della Chiesa romana; ed è a voi, che avete saputo riunire fino a oggi le qualità più distinte del generale e quelle del politico preclaro, realizzare questo voto, se lo giudicate attuabile»: o ponendo Roma sotto un’altra potenza o, preferibilmente, stabilendo un nuovo governo e costringendo il Papa all’esilio. Bonaparte però sa di non avere uomini sufficienti per l’impresa, teme le insorgenze, che infatti si verificano in febbraio nelle Marche, ritiene possibile una riconquista imperiale di Mantova. Per questo il trattato doveva essere firmato rapidamente, senza le lunghe discussioni che le questioni religiose, inaccettabili per il Papa, potevano suscitare. Come spiega al governo parigino, Bonaparte riesce a ottenere il massimo possibile e soprattutto a indebolire Roma — privata di Bologna, di Ferrara, delle Romagne e di Ancona e depauperata dalle richieste del Trattato —, in modo tale che sarebbe stato possibile in seguito la conquista.
6. La «veloce ed opulenta rapina»
Commentando il trattato di Tolentino lo scrittore lombardo, di formazione illuministica, Alessandro Verri (1741-1816) — fratello del più noto fratello Pietro (1728-1797) —, scrive che esso diede il via a una «veloce ed opulenta rapina». Alla fine di luglio del 1796 i commissari francesi incaricati di selezionare le opere d’arte e i manoscritti in base all’armistizio di Bologna giungono a Roma; la commissione era presieduta dal matematico Gaspar Monge (1746-1818). Interrotte le operazioni a partire dal settembre del 1796, i commissari tornano nella capitale della cristianità all’indomani del trattato di Tolentino. A capo della cleptocrazia rivoluzionaria era la compagnia dell’ex banchiere svizzero Rudolf Emmanuel von Haller (1747-1833) — zio del famoso studioso e polemista contro-rivoluzionario Karl Ludwig (1768-1854) — incaricata dei finanziamenti dell’armata d’Italia, intorno alla quale si dà vita a una notevole speculazione. Non mancano azioni di protesta e di resistenza all’attività dei commissari francesi a Roma di selezione e di invio in Francia delle opere d’arte. Alcuni intellettuali, pur contrari al governo pontificio, realizzano una missione a Parigi in difesa del patrimonio artistico italiano; ben cinquanta artisti francesi scrivono una petizione al Direttorio contro la spoliazione di Roma e dell’Italia. Anche la popolazione manifesta irritazione per l’asportazione di opere d’arte unanimemente amate e ammirate, come l’Apollo del Belvedere, che viene sostituito dalla statua Meditazione da Antonio Canova (1757-1822), ribattezzata dai romani Consolazione. L’ambasciatore francese a Roma Cacault così rappresentava al ministro degli Esteri Charles Delacroix (1741-1805) il sentimento dei romani a motivo della partenza delle opere d’arte: «[…] porterà grande angustia nei cuori del popolo di Roma, e di tutta l’Italia, dove ognuno è grandemente attaccato a questi monumenti». Lo stesso governo pontificio, che collabora con i commissari, li deve difendere da attentati da parte di elementi del popolo. Si ricordano manifestazioni anche aggressive contro i francesi da parte di popolani trasteverini a causa delle requisizioni artistiche. Importanti codici rimangono a Roma grazie al nascondimento da parte di archivisti. L’ultimo convoglio carico di opere d’arte e di manoscritti parte da Roma per Parigi il 4 luglio 1797. Fra i motivi delle insorgenze italiane — le sollevazioni popolari contro l’occupazione francese e le repubbliche giacobine che imponevano modelli politici estranei alla tradizionale vita civile e religiosa dei popoli della penisola — non va trascurata la difesa del patrimonio artistico preda dei rivoluzionari invasori. Il 15 febbraio 1798 l’esercito francese, comandato da Louis Alexandre Berthier (1753-1815), che era fra l’altro tesoriere della spedizione d’Inghilterra, occupa Roma e vi proclama la Repubblica; il Papa lascia la città il 20 febbraio e muore esule a Valence in Francia il 29 agosto 1799. A un anno dal trattato di Tolentino i progetti di conquista del Direttorio si realizzano: il drenaggio finanziario coinvolge tutte le terre dello Stato pontificio trasformato in Repubblica Romana. Numerosi carri carichi di opere d’arte ricominciano ad affluire a Parigi da Roma nel 1798.
Sandro Petrucci (1959-2017)
23 ottobre 2018
Per approfondire: Marco Albera. «Napoleone e la nascita del Louvre», in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 11-14; Giustino Filippone, Le relazioni tra lo Stato pontificio e la Francia rivoluzionaria. Storia diplomatica del trattato di Tolentino, 2 voll., Giuffrè, Milano 1961-1967; Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, SICO, Macerata 1996; Idem, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il Bicentenario del trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), a cura del comune di Tolentino, Pollenza (Macerata), nn. 1-3, 1995-1997; e Paul Wescher (1896-1974), I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, trad. it., Einaudi, Torino 1988.