di Daniele Fazio
Il 10 dicembre è morto il filosofo tedesco Robert Spaemann, nato a Berlino il 5 maggio 1927 in una famiglia convertita dalluteranesimo al cattolicesimo. Spaemann rimase immune dall’ubriacatura nazionalsocialista principalmente per tre motivi: l’educazione ricevuta in famiglia, il catechismo e la letteratura tedesca. Si formò alla scuola del filosofo tedesco Joachim Ritter(1903-1974), che ha cercato di elaborare una interpretazione originale della Modernità e della sua crisi giocata sulla dialettica tra “scissione” e “conciliazione”, diversa e per certi versi opposta alla visione tipica della Scuola di Francoforte, elaborata a partire dalla riflessione sulla dialettica dell’Illuminismo.
Spaemann ha insegnato nelle più importanti università tedesche, succedendo, per esempio, a Heidelberg al filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer (1900-2002). È stato altresì invitato a tenere lezioni nella Sorbona di Parigi, in Francia, nell’Università di Rio de Janerio, in Brasile, e in quella di Salisburgo, in Austria.
I suoi studi storiografici si sono concentrati sul pensatore contro-rivoluzionario francese Louis De Bonald (1754-1840), sul filosofo e pedagogo illuminista svizzero Jean Jacques Rousseau (1712-1788), nonché sul teologo e pedagogo francese mons. François de Salignac de La Mothe-Fénelon, 1651-1715, universalmente noto semplicemente come Fénelon, e si è confrontato con le utopie politiche del secolo XX. Da un punto di vista strettamente teoretico, Spaemann si è impegnato ad analizzare la Modernità come luogo filosofico dell’inversione del telos (fine) in mera conservazione: un procedimento, questo, che sta alla base del funzionalismo moderno, ovvero dell’atteggiamento teorico secondo cui tutto è definito attraverso il suo valore di scambio e non per ciò che è. In tale ottica, il pensiero umano si chiude a una prospettiva trascendente e metafisica per prendere in considerazione soltanto un orizzonte meccanicistico e materiale.Di contro, il filosofo cattolico, amico di Joseph Ratzinger, si è mosso nell’ottica della compensazione di ciò che manca alla Modernità per raggiungere quei propositi che pur aveva annunciato. Questa prospettiva lo conduce quindi a riconoscere la presenza nel reale di un Incondizionato, non ulteriormente funzionalizzabile, che struttura un pensiero metafisico da cui scaturiscono l’etica e l’antropologia. Nascono così i suoi testi più originali: Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico (1981; 2005), Felicità e benevolenza (1989) e Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” (1996; 1998).
Al compimento degli ottant’anni la stampa tedesca lo ha salutato come il “difensore della dignità umana”. Non è un caso, infatti, che Spaemann sia stato per lungo tempo anche membro della Pontifica Accademia per la vita. Davanti a un mondo che tende ad assolutizzare i propri desideri, il filosofo tedesco ha opposto la genuinità del buon senso. Opporsi alla Modernità, considerata in senso ideologico, ha significato concepire l’esercizio filosoficocome una ingenuità istituzionalizzata, che non ha paura di gridare – come la fanciulla della nota fiaba dello scrittore e poeta danese Hans Christian Andersen (1805-1875) – che il re è nudo. Grazie alla rinnovata fiducia nella ragione, facoltà non assoluta, ma capace di cogliere la verità, Spaemann ha riabilitato l’importanza del diritto naturale proponendolo come ermeneutica dei progetti etici e politici. In una intervista rilasciatami l’11 dicembre 2009 e pubblicata successivamente, a tal proposito, ebbe a dire: «vi sono delle regole comuni che sono in relazione con la natura dell’uomo. Tutti gli uomini hanno una natura umana, essa è ciò che permette di stabilire principi etici da cui derivano le regole elementari di coesistenza. La natura, dunque, non può essere ignorata, essa ha un carattere normativo: non possiamo pensare che fare una cosa di innaturale è privo di conseguenze e dire non fa niente. Senza una natura normativa l’atto del cannibale di Rotenburg – che ha ucciso atrocemente e mangiato un’altra persona con il suo consenso – non susciterebbe obiezioni morali, ancor prima che provvedimenti legali. I credenti scorgono nella natura una volontà divina e quindi è più facile coglierne l’orientamento normativo, un’etica senza fondamento metafisico sarebbe impensabile. Ha ragione Dostojevski quando dice: “se Dio non esiste, tutto è permesso”».
Ha, infine, argomentato sulla ragionevolezza dell’esistenza di Dio, sia in dialogo con le ipotesi evoluzioniste, sia attraverso una meditazione sulla grammatica e sul futurum exactum (futuro anteriore).
Una delle sue lezioni maggiori, che egli consegna alla storia, è sicuramente la dimostrazione che si possa essere filosofi, tra i più autorevoli, proprio in ragione del fatto – e non in opposizione – di essere buoni credenti. La sintesi tra la ragione e la fede si è per lui realizzata in una “vita riuscita” in senso aristotelico.
Il suoi ricordo più bello lo scrivono le sue stesse parole, pronunciate quando gli fu chiesto di spiegare il rapporto tra il suo essere filosofo e il suo essere credente: «Io mi sento piuttosto semplicemente uno che a volte si trova a dire pubblicamente quel che di “cristiano” crede debba essere detto. Lei mi chiede se lo faccio nella mia qualità di filosofo o di cristiano credente. Quando rifletto ad alta voce sul cristianesimo, naturalmente lo faccio nella mia qualità di cristiano. Non potrebbe essere altrimenti. Il mio modo di essere cristiano, però, è sicuramente contrassegnato dalle mie idee filosofiche, e probabilmente vale anche il contrario» (Sullo stato attuale del Cristianesimo. Un colloquio con Robert Spaemann dell’Aprile 1998, in R. Spaemann, La diceria Immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, a cura di Lorenzo Cappelletti e Silvia Kritzenberg, Cantagalli, Siena 2008, p. 189).