di Domenico Airoma
L’indignazione mediatica cresce, e non potrebbe essere diversamente: un barelliere catanese, pare, sarebbe stato solito praticare iniezioni letali a malati terminali per poi offrirsi ai parenti per fare da mediatore con le pompe funebri. Condanna certa, dunque. Certa? Chissà.
Un bravo difensore, infatti, potrebbe far rilevare che se fosse stata già in vigore la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), nessuna censura sarebbe stato possibile muovere al sanitario siculo; in fin dei conti, egli non avrebbe fatto altro che anticipare gli effetti di una conquista di civiltà ancora ostacolata da pochi ottusi difensori di vite non dignitose. E quel bravo difensore potrebbe anche prendere esempio dai propri colleghi milanesi e, magari, far proiettare nell’aula di udienza i filmati che ritraggono quei malati raccogliere le ultime forze per chiedere di farla finita. Insomma, il nostro barelliere “in-cappato” nei rigori della legge, potrebbe, invocare la disumanità di quella stessa legge, sotto accusa nella vicenda del dj Fabo.
D’altronde, vi è già chi predica la necessità, dopo le Dat, di muovere subito un passo ulteriore, indispensabile per eliminare le sofferenze conseguenti alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali: scriminare, cioè, anche la sedazione terminale. Ovvero proprio quello che viene addebitato oggi al succitato barelliere catanese.
Infine, detto bravo difensore dovrà superare un ultimo ostacolo: non vorrà – gli si obietterà – mettere sullo stesso piano chi ha combattuto la battaglia per il riconoscimento del diritto al suicidio per “nobili” ragioni ideologiche con chi, pur assecondando una presumibile volontà suicidiaria, si è mosso per vili ragioni di profitto? Pe rispondere, ancora una volta il pensiero del nostro avvocato potrebbe correre al palazzo di giustizia milanese. Potrebbe, cioè, ricordare che, ai tempi di “tangentopoli”, chi rubava veniva condannato; non importa se lo aveva fatto per sé o per il partito: perché rubare era ed è una cosa brutta. Ma se uccidere il presunto consenziente non è più un reato, se anzi è un atto di umanità, che peso potrebbero avere le motivazioni di chi non è altro che un mero esecutore di un diritto al suicidio? Forse quel bravo avvocato vincerà la causa.
Ma una sentenza non potrà, a Milano come a Catania, cancellare la verità di un principio elementare di civiltà: il suicidio, anche se di Stato, non è una conquista; è solo una sconfitta. Nonostante le ipocrisie terminali di una “civiltà” che muore.