Ippocrate, nell’isola di Cos, nel V secolo a.C., compila un giuramento: davanti alle divinità che hanno attinenza con la salute e la cura (“Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni”), si impegna a tenere un comportamento che sia giusto, efficiente, indirizzato al bene del paziente. Reputa questo impegno così importante e decisivo, per il proprio onore e per il bene comune, da invocare successo e gloria se rispettato, tanto quanto disdoro e danno se tradito (“E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro”).
Indica alcuni punti fermi, si potrebbe dire non negoziabili, che costituiscono l’ethos dell’esercizio professionale dell’arte medica: l’etica dunque nelle due accezioni, sia quella della consuetudine (così fanno tutti) che quella dell’obbligo morale (così devono fare tutti). C’è l’impegno al segreto, all’aggiornamento, all’umiltà di ricorrere ai consulti con i colleghi. C’è la consapevolezza della vita come bene supremo e come radice dell’attività medica: se non per curare, per che cos’altro fare il medico? “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”. È ciò che ha permesso di fondare il rifiuto del medico a partecipare a mutilazioni, torture, esecuzioni; e fino a qualche tempo fa anche a praticare aborti. Si chiama “favor vitae”, era un prerequisito, ancora prima dei test di ingresso, per interessarsi di medicina.
C’è una novità strabiliante, che dice dell’uguaglianza tra liberi e schiavi, con una delicata attenzione al femminile: “mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”. Consapevolezza implicita dei diritti dell’uomo, che dovrà attendere la Dichiarazione universale del 10 dicembre 1948 per essere codificata.
E poi c’è una frase-impegno che solo in epoca recente è stata additata come la causa di tutti i mali, primo tra tutti il paventato e orribile “paternalismo medico”: “Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa”.
Oggi, inteso proprio come 21 aprile 2017, il Parlamento italiano ha dichiarato il Giuramento di Ippocrate fuorilegge. Non obsoleto, retrogrado, superabile. Proprio illegale. Oggi la base del rapporto tra il curante e il dolente è un modulo, in cui il bene, la salute, la cura non hanno alcun valore: ciò che conta, che libera persino dalla responsabilità medica, è una firma: la liberatoria che uno farà la volontà dell’altro. Che il più debole tra i due soggetti – quello che si è posto davanti all’altro perché bisognoso – avrà la ‘sua’ legge da far rispettare. La chiamano autodeterminazione, autonomia, libertà; si scrive consenso informato, vuol dire arbitrio soggettivo. Purtroppo anche solitudine individuale.
Nell’epoca della fine del paternalismo, abbiamo molto bisogno di una paternità medica, di qualcuno che si faccia carico del bisogno, che curi anche chi non può guarire, che ad-sista chi è fuggito da tutti.
Altrimenti, siamo schietti, a che cosa serve essere medici?
Chiara Mantovani