Francesco Pappalardo, Cristianità n. 366 (2012)
1. Il 17 marzo 1861 viene proclamato a Torino il Regno d’Italia. Le modalità dell’unificazione, e soprattutto quelle della conquista e dell’annessione del Regno delle Due Sicilie, colpiscono negativamente gli osservatori stranieri, cui non sfugge la precarietà del nuovo Stato. Anche in Gran Bretagna, Paese distintosi per la “regìa interessata” (1) della spedizione effettuata da Giuseppe Garibaldi (1807-1882) in Sicilia, non mancano voci perplesse o critiche.
Ne sono prova i dibattiti svoltisi a più riprese nel Parlamento britannico sugli “affari napoletani”. In particolare, nella seduta del 4 marzo 1861 il deputato conservatore e cattolico irlandese John Pope Hennessy (1834-1891), futuro governatore di Hong Kong, accusa il governo di aver sostenuto con mezzi finanziari, diplomatici e militari il partito rivoluzionario nel Mezzogiorno d’Italia, contraddicendo nei fatti la dottrina del non intervento, allo scopo di favorire la “[…] conquista piemontese della Penisola ispirata dai poco nobili motivi di risolvere la grave crisi finanziaria che attanagliava il regno di Vittorio Emanuele [di Savoia (1820-1878)] con l’acquisizione delle risorse degli altri Stati italiani che si trovavano tutti in una più florida situazione economica”(2).
L’anno seguente l’economista e uomo politico napoletano barone Giacomo Savarese (1808-1884) — già consigliere di Stato, ministro dei Lavori pubblici e direttore generale delle Bonifiche —, pubblica un’opera polemica ma ben documentata in cui compie un breve ma significativo raffronto fra le finanze dello Stato sardo, fortemente indebitato, e quelle del più virtuoso Regno delle Due Sicilie (3).
Le considerazioni di Savarese sono state riprese succintamente, in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, dal maggior quotidiano economico nazionale. L’articolista, commentando le cifre dell’indebitamento del Regno di Sardegna nel 1861, osserva che “[…] è stato il Regno dei Savoia a portare nella nascente Italia la cultura del debito facile, della finanza allegra” (4). E poi aggiunge: “Si può trarre la conclusione che per il Regno di Sardegna la creazione di un’Italia unita fosse anche un modo per aggiustare i conti” (5) a danno del reame più ricco, quello borbonico. Alla data dell’unificazione, infatti, il Regno di Sardegna aveva un debito pubblico pari al 67 per cento del Prodotto Interno Lordo, per di più dilatatosi del 565 per cento fra il 1847 e il 1859 a causa dei preparativi bellici e nonostante l’imposizione di nuovi balzelli, la vendita dei beni demaniali e l’acquisizione forzata delle proprietà ecclesiastiche. Opposta la situazione del Regno delle Due Sicilie con un debito pari al 29,6 per cento del PIL e un bilancio rigoroso.
Inoltre, secondo uno studio di Stéphanie Collet, ricercatrice di storia economica e finanziaria presso l’Università Libre de Bruxelles, lo spread, cioè la differenza di rendimento fra i titoli del debito pubblico degli Stati preunitari, premiava i titoli del Regno delle Due Sicilie, che pagavano un tasso d’interesse più basso: 4,3 per cento annuo rispetto al 5,7 per cento di quelli del regno sardo (6). Va detto, per inciso, che dopo l’Unità i costi di rifinanziamento del debito passano da un valore medio nazionale del 5,3 per cento del 1860 a quasi il 7 per cento nel dicembre 1862 e salgono addirittura — nonostante l’emissione congiunta dei titoli di debito degli antichi Stati — al 14 per cento nel 1866, a riprova del fatto che i mercati continuavano a non credere nella tenuta del nuovo regno. Solamente con l’annessione del Veneto nel 1866 e dello Stato Pontificio nel 1870 i rendimenti dei buoni del tesoro italiani si assestano al 7,5 per cento nel 1871, però sempre rimanendo su valori superiori alla media del 1860 (7). Collet individua, infine, delle analogie fra l’unificazione del debito sovrano degli Stati italiani preunitari e il tentativo d’integrare le politiche economiche e fiscali, e dunque anche i debiti sovrani, dei Paesi oggi appartenenti all’area dell’euro.
Anche l’economista di fama internazionale Vito Tanzi ritiene che la costruzione dell’unità europea stia incontrando difficoltà simili a quelle affrontate centocinquant’anni fa nella Penisola italiana, dove gli Stati preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi repentinamente in uno Stato unitario (8).
2. Tanzi, di origini pugliesi, classe 1935, pochi anni dopo la nascita si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, dove si laurea in economia presso la George Washington University, nella capitale federale, e consegue il dottorato, pure in economia, all’Università di Harvard a Cambridge, nel Massachusetts. Dal 1967 al 1976 insegna discipline economiche all’American University, pure a Washington, del cui Dipartimento di Economia è direttore dal 1970 al 1973; entrato nel 1974 nel Fondo Monetario Internazionale, ne dirige il Dipartimento di Finanza pubblica dal 1981 al 2000. Senatore in Italia dal 2001 al 2006, è sottosegretario di Stato all’Economia e alle Finanze dal 2001 al 2003 nel secondo governo Berlusconi. Consulente della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite, della Banca Centrale Europea e del californiano Stanford Research Institute, è autore di numerose pubblicazioni di natura economica. Fra le sue opere in italiano — oltre a contributi a volumi collettivi —, Globalizzazione e sistemi fiscali (Banca Popolare di Etruria, Arezzo 2002) e Questione di tasse. La lezione dell’Argentina (con Prefazione di Francesco Giavazzi, EGEA, Milano 2007), nonché, con Ludger Schuknecht, La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale (trad. it, Firenze University Press, Firenze 2007), nella quale si dimostra che, quando la spesa pubblica supera il 30 per cento del prodotto interno lordo, ogni somma in più nel passivo dello Stato finisce per avere rendimenti decrescenti.
Invitato a partecipare a un’opera sugli aspetti economici dell’unificazione italiana, Tanzi, studioso dell’Unione Europea e soprattutto del processo di armonizzazione fiscale avviato dai Paesi membri, ha ampliato il suo saggio, ritenendo che “l’Unificazione italiana poteva offrire una specie di specchio storico per comprendere il processo di integrazione europea” (p. 4). Il suo obbiettivo, dunque, è quello di osservare gli avvenimenti risorgimentali sotto il profilo dei costi e dei benefici, con l’avvertenza che il problema non era l’unificazione in sé, ma alcune delle decisioni prese nei momenti cruciali da persone che avevano una limitata conoscenza del Paese o che erano animate da pregiudizi di natura ideologica. “Ci sarà resistenza — osserva — a quest’uso della metodologia economica da parte di persone che credono che ci sono obbiettivi che sono così importanti e sacri che non possono e non devono essere sottoposti a questo criterio quasi contabile. Bisogna riconoscere che quest’attitudine è in essenza quella del fondamentalismo, che può essere religioso o d’altro genere. Il fondamentalismo assume e richiede che alcuni obbiettivi devono essere inseguiti senza considerazione dei costi, in vite umane od in moneta” (p. 120).
L’opera parte da alcune premesse: a) nel secolo XIX “[…] sarebbe stato difficile identificare molte caratteristiche comuni o legami sentimentali e patriottici” (p. 14) fra gli Stati italiani: “a parte il fattore geografico, l’elemento comune più importante era che tutta la penisola italiana aveva fatto parte del nucleo centrale dell’impero romano” (ibidem); b) a quella data la Penisola comprendeva sette Stati con leggi diverse, con differenze linguistiche significative e con pochi contatti fra la maggior parte delle popolazioni, e le differenti regioni erano caratterizzate da tradizioni e da storie molto diverse; c) Casa Savoia coltivava più l’ambizione di espandere il Regno di Sardegna verso la Pianura Padana che quella di unificare la Penisola; d) il Risorgimento era stato un movimento principalmente di élite e, specialmente nel Mezzogiorno, l’appoggio popolare era stato molto ridotto; e) il Regno delle Due Sicilie non era governato da stranieri e l’invasione di uno Stato riconosciuto diplomaticamente da tutti i Paesi, incluso il Regno di Sardegna, non aveva alcuna legittimazione giuridica.
“[…] bisogna chiedersi — osserva Tanzi — se, il modo in cui l’Italia fu unita era il solo modo possibile di farlo; e se non c’erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che fu pagato” (p. 151).
Infatti, dopo l’Unità viene creata una realtà unitaria molto centralizzata, con regolamenti uniformi per tutti i disomogenei territori del regno e con una struttura amministrativa molto gravosa, che provoca difficoltà e forti reazioni. Fra queste, viene annoverato il brigantaggio, una resistenza armata a quelle che molti consideravano forze di occupazione. “L’occupazione delle forze garibaldine, seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò immediatamente l’unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio l’attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele [II di Savoia (1820-1878)] dimostrò verso i napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono, senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno”(p. 122). La lotta al brigantaggio è stata una specie di guerra civile che ha provocato decine di migliaia di vittime e che ha aggravato le precarie condizioni delle finanze pubbliche.
Tanzi opera un parallelismo fra la guerra di conquista condotta dal Regno di Sardegna nei confronti degli Stati preunitari e la Guerra Civile nordamericana (1861-1865), iniziata proprio nel 1861, l’anno della nascita del Regno d’Italia (9), perché negli Stati Uniti d’America “le politiche che furono seguite dai vincitori del Nord, dopo la sconfitta del Sud, contribuirono anche a condannare il Sud ad un secolo di sottosviluppo e di povertà relativa. Per un lungo periodo, il Sud diventò il Mezzogiorno degli Stati Uniti” (p. 119).
Quando nasce lo Stato unitario, vi sono poche differenze fra le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno d’Italia, che lo studioso chiama convenzionalmente Sud, e quelle del resto della Penisola, “il Nord” (10). “Se c’erano differenze, erano sicuramente molto più modeste che negli anni successivi all’unificazione” (p. 97). Anche sotto il profilo culturale il Sud si presentava non come un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto come una società dotata di una forte personalità storica e di un’inconfondibile fisionomia: “Non c’era mancanza di cultura, ma differenza culturale dalle regioni che avevano abbracciato la rivoluzione industriale, l’illuminismo e le lezioni politiche che erano state introdotte dalla rivoluzione francese” (p. 220). La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco di arretratezza economica e morale ha genesi e natura ideologiche ed è legata ai pregiudizi e all’ignoranza che spesso caratterizzavano gl’intellettuali e i politici di altre parti d’Italia o d’Europa. “Era un universo parallelo e non necessariamente inferiore, in vari aspetti, a quello del Nord. […] È un comune errore confondere l’analfabetismo con la mancanza di cultura per le società tradizionali” (p. 221).
3. L’economista Tanzi si sofferma soprattutto sugli aspetti finanziari dell’unificazione. Dopo il 1861 vengono scaricati sul Regno d’Italia gli enormi debiti contratti dal Regno di Sardegna per le “guerre d’indipendenza” e per lo sviluppo delle proprie province, esclusa però la Sardegna, “[…] che derivava pochi progressi dalla modernizzazione del regno che portava il suo nome” (pp. 186-187). Il presidente del consiglio, Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), pur incrementando notevolmente le entrate, aveva contratto forti debiti con banche straniere, soprattutto con la Casa Rothschild, e con ambienti finanziari di Francia e di Gran Bretagna. “Questi vincoli crearono o rafforzarono interessi economici, o almeno finanziari, da parte di questi due importanti paesi […]. In un certo senso i creditori diventarono soci nell’impresa e sostenitori indiretti delle attività politiche di Cavour e degli obbiettivi del Risorgimento. I creditori continueranno a fare grandi guadagni in Italia negli anni futuri, finanziando le grosse spese dei governi dell’Italia Unita” (pp. 190-191).
Il nuovo Stato unitario nasce con uno smisurato debito pubblico e con un disavanzo perenne nei conti pubblici, che creano grandi difficoltà e condizionano le scelte economiche dei governi italiani. Fra il 1862 e il 1900 l’Italia, in media, spende per gl’interessi sul debito il 42 per cento delle proprie entrate tributarie, nonostante l’incremento di queste ultime. “Le tasse erano aumentate molto di più della spesa pubblica che sarebbe stata utile alla gente ed all’economia del Sud” (p. 190). Nel 1866 servono 245 milioni di lire per gl’interessi e la Banca Nazionale presta al governo 141 milioni di lire privi di copertura aurea; di conseguenza in quell’anno viene introdotto il corso forzoso della moneta, che non è più convertibile in oro, e il deficit statale viene finanziato emettendo moneta in misura superiore alle riserve di metallo prezioso possedute dall’istituto bancario. Il corso forzoso ha un impatto negativo sul costo del debito, sulle importazioni e sulle attività economiche in genere; diventa più difficile per le imprese private pagare in lire oppure ottenere garanzie di credito ed è necessario ricorrere a pagamenti anticipati; il tasso d’interesse effettivo triplica nel giro di pochi anni, riducendo le risorse finanziarie a disposizione del governo. “È facile vedere in quest’esperienza quello che successe alla Grecia nel 2011 ed in Spagna nel 2012” (p. 193).
Le conseguenze negative dell’unificazione colpiscono soprattutto il Mezzogiorno per una serie di motivi concomitanti: a) l’appropriazione dell’oro del Regno delle Due Sicilie; b) il forte aumento delle tasse nel Sud per equipararle al livello di quelle imposte nel Regno di Sardegna; c) la rapida applicazione al Paese dei bassi dazi doganali del regno sardo, con danni irreparabili all’industria del Sud, fino ad allora protetta da dazi elevati; d) la soppressione di ogni ente morale ecclesiastico e l’incameramento dei relativi beni, che distrugge la rete di welfare creata dalla Chiesa a sostegno dei più deboli; e) la nascita del fenomeno emigratorio, sia verso il Nord sia verso l’estero e specialmente nelle Americhe, che all’inizio coinvolge principalmente le maestranze più qualificate; l’adozione di programmi economici “[…] fatti su misura, da politici e burocrati, che risiedevano a Roma e che volevano industrializzare il Mezzogiorno con sussidi pubblici e con piani di sviluppo, immaginati a tavolino da gente che conosceva poco l’economia e molto la politica” (p. 253); e) il declino economico e culturale di Napoli, una delle più grandi città d’Europa, insieme a Londra e Parigi, che avrebbe meritato invece di essere la capitale della nuova Italia. “[…]l’opposizione contro gli “stranieri”, che aveva contribuito anche al brigantaggio, fu seguita da un fatalismo che in anni futuri convincerà molti cittadini del Sud ad abbandonare l’Italia. Quelli che restarono si rassegnarono alle nuove condizioni e cominciarono a guardare al governo per la soluzione dei loro problemi economici.
“[…] Si passò presto dal problema di come unificare l’Italia politicamente e liberarsi dalle occupazioni straniere, a come integrare il Mezzogiorno economicamente e socialmente con il resto del paese e come fare gli italiani” (pp. 200-201).
4. Nel 1861 il governo opta per un sistema politico e per un’amministrazione molto centralizzati, sul modello di quelli esistenti nel Regno di Sardegna; una scelta molto diversa da quella compiuta da Paesi nati dall’unificazione di territori con tradizioni differenti, come gli Stati Uniti d’America, l’Impero Germanico, la Confederazione Svizzera e i Paesi Bassi, dove le responsabilità affidate inizialmente al governo centrale erano molto ridotte. Tanzi ritiene che la creazione di una confederazione di Stati, che avesse trasferito gradualmente il potere a un governo federale, avrebbe risparmiato al Paese molti costi, economici e in vite umane. “Ovviamente — precisa —, questo è uno scenario da “what if”; è impossibile sapere cosa sarebbe accaduto nella realtà, se questo scenario alternativo fosse stato seguito. Ma sappiamo i costi dell’alternativa che fu scelta” (p. 121).
Il centralismo viene adottato per motivi ideologici — l’influenza della cultura rivoluzionaria nel Regno di Sardegna — e per motivi pratici, cioè per la precarietà della nuova creazione statale, per la resistenza in atto nelle province meridionali e per la necessità di condividere il debito pubblico sardo con le altre parti d’Italia. “La scelta dell’organizzazione statale fatta all’inizio — sostiene l’economista — è stata possibilmente una delle cause e forse uno degli errori più importanti, che ha reso l’unità d’Italia un’impresa in parte incompiuta” (p. 36).
Poiché il centralismo politico-amministrativo di tipo francese aveva poche possibilità di riuscire bene in Italia, come la storia ha mostrato in centocinquant’anni, “la scelta iniziale di un governo federale, o anche di uno confederale, di uno Stati Uniti d’Italia, avrebbe ridotto i costi, anche se il risultato finale, di un’Italia veramente unita, sarebbe stato probabilmente raggiunto più tardi, in un periodo più lungo. Le politiche adottate dopo l’unificazione sicuramente non erano adatte a creare l’Italia che molti patrioti risorgimentali avevano sognato. Crearono invece un’Italia che geograficamente e politicamente era unita ma economicamente, e forse anche socialmente, era disunita” (p. 257).
Buona parte della spesa pubblica — più alta della media europea, allora come oggi — viene assorbita per anni dagl’interessi sul debito e dunque sacrificata per fini improduttivi. Inoltre, osserva Tanzi, poiché le decisioni importanti vengono prese nella capitale o comunque da strutture accentrate, i politici di livello locale non si sentono responsabili di quel che succede nei loro territori. Si abituano ad addossarne la colpa al governo centrale e ad attendere che esso risolva i loro problemi. “Una struttura federalista avrebbe anche convinto i cittadini delle diverse regioni che quello che succede localmente è anche in buona parte la responsabilità dei leader e dei cittadini a livello locale, e che non può essere completamente attribuito ai politici che operano a livello nazionale. La scelta unitaria diede una buona scusa ai politici locali di attribuire i problemi delle loro province al governo nazionale e non alle loro politiche” (p. 172).
“Un’Italia confederale, o forse anche federale — prosegue —, avrebbe potuto permettere il mantenimento di tariffe che potevano essere differenti da regione a regione, almeno per un periodo di transizione di qualche anno, usando le dogane che esistevano tra gli stati italiani pre-unitari. La scelta unitaria impedì questa possibilità” (p. 252). Anche il trasferimento del debito sarebbe stato impossibile in un sistema confederale e molto difficile in uno Stato federale. Ma al momento dell’Unità il regno sabaudo rischiava di fallire. Dovendo scegliere fra un’unificazione centralistica e il fallimento, i conquistatori non ebbero dubbi e, come si legge nella quarta pagina di copertina, “il Regno di Sardegna fu salvato dal fallimento grazie all’unificazione, che trasferì i suoi debiti sull’Italia”.
Note:
(1) Emanuele Pagano, L’Italia e i suoi Stati nell’età moderna. Profilo di storia (secoli XVI-XIX), La Scuola, Brescia 2010, p. 353; cfr. la mia recensione in Cristianità, Piacenza gennaio-marzo 2012, n. 363, pp. 75-80.
(2) Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee. 1830-1861, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2012, p. 193, che rinvia per il testo completo del discorso alla raccolta Hansard’s Parliamentary Debates, Woodfall and Son, Third Series, Londra 1861, vol. CLXI, coll. 1332-1440, disponibile anche all’indirizzo Internet: <http:// hansard.millbanksystems.com/ commons/ 1861/ mar/04/ observations-first-night> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-12-2012).
(3) Cfr. Giacomo Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, con Introduzione di Aldo Servidio e Cenni biografici di Silvio Vitale (1928-2005), Controcorrente, Napoli 2003.
(4) Morya Longo, Nord “padre” del debito pubblico, in Il Sole-24 Ore, Milano 17-3-2011.
(5) Ibidem.
(6) Cfr. Stéphanie Collet, L’Italia unita? Debito sovrano e lo scetticismo degli investitori, trad. it., p. 16, disponibile all’indirizzo Internet: <http:// www.ilmioliceo.org/ sito/media/2012/ documenti>.
(7) Cfr. ibid., pp. 15-16.
(8) Cfr. Vito Tanzi, Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia, Grantorino libri, Torino 2012. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera. Non si può non segnalare la metodica e completa assenza di editing del testo, che risente della lunghissima permanenza dell’autore negli Stati Uniti.
(9) Analogo parallelismo viene compiuto dall’americanista e storico militare Raimondo Luraghi (1921-2012): “L’effetto della guerra fu la riduzione del Sud a colonia, qualcosa di simile a quello che secondo le denunce dei nostri meridionalisti accadde in Italia dopo il Risorgimento”(Storia della guerra civile americana, Rizzoli, Milano 2009, p. 1282).
(10) Cfr. Stefano Fenoaltea, I due fallimenti della storia economica: il periodo post-unitario, in Rivista di politica economica, vol. 97, n. III-IV, Roma marzo-aprile 2007, pp. 341-358; e Vittorio Daniele e Paolo Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2011, secondo cui “prima dell’Unità esistevano differenze fra aree all’interno della nuova nazione, ma non c’era un vero divario economico fra Sud e Nord” (p. 7) e l’industrializzazione postunitaria è stata “la causa immediata delle ineguaglianze di sviluppo”(p. 8).