Enzo Peserico, Cristianità n. 232-233 (1994)
Ján Chryzostom Korec S.J., cardinale vescovo di Nitra, La notte dei barbari, con una Presentazione di Vittorio Messori, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993, pp. 304, L. 30.000
«Quella notte fu unica in mille anni di cristianesimo in Slovacchia e in Boemia. Quella notte in cui la nostra stessa gente, sfidando la storia e la sua evoluzione morale, commise un atto che non era balenato in mente né ai Tartari, né alla autorità turca, né ad alcun invasore nel lungo corso della storia del nostro paese. Quella notte, che ricorderemo in molti come la più oscura e barbara della nostra vita, non solo per l’inaudito atto contro migliaia di suore, ma per la violenza usata contro la cultura e la spiritualità della nostra nazione, fu la notte che segnò la nostra vita»: questa immagine apre l’autobiografia di S. Em. il card. Ján Chryzostom Korec S.J., vescovo di Nitra, in Slovacchia, e ne costituisce significativamente il titolo, La notte dei barbari (p. 11). Il lettore forse richiamerà alla mente le distruzioni serbo-comuniste in Croazia, la pulizia etnica in Bosnia, o immaginerà la distruzione di Bratislava, la capitale della Slovacchia, e potrà rimanere stupito di fronte all’immediato svelamento della barbarie: «La notte – prosegue Ján Chryzostom Korec – in cui tutti gli ordini religiosi maschili vennero soppressi» (ibidem).
Nato in Slovacchia nel 1924, Ján Chryzostom Korec sperimenta la brutalità del regime marxista-leninista sulla sua pelle a partire da quella notte. Novizio gesuita, ventiseienne, comincia da quel momento la sua avventura nell’«universo concentrazionario» del totalitarismo socialcomunista, che lo vedrà consacrato clandestinamente sacerdote il 1° ottobre 1950 e vescovo della «Chiesa del silenzio» il 24 agosto 1951, a soli 27 anni. Nella vita civile è manovale, bibliotecario, guardiano notturno, fino all’arresto nel 1960 e alla condanna a dodici anni di carcere duro. Poi la cosiddetta «primavera di Praga», nel 1968, l’uscita dal carcere e le prime libertà; infine il crollo del regime socialcomunista, la nomina nel 1990 a vescovo di Nitra e la porpora cardinalizia nel 1991.
Avanzando nella lettura si comprende che quella violenza, avvenuta nella notte fra il 13 e il 14 aprile 1950, è stata più profonda e più perversa per la nazione slovacca delle altre violenze, contro la vita e la dignità dell’uomo, che innumerevoli hanno costellato i decenni dell’oppressione socialcomunista in Slovacchia, in Boemia e in tutte le nazioni occupate dell’Europa Orientale.
L’autore ne spiega i motivi nel capitolo VI, ricordando che la millenaria presenza della Chiesa nei territori boemi e slovacchi porta il sigillo degli ordini religiosi: «Il nostro paese fu per secoli, grazie ai suoi ordini religiosi, una nazione colta e cristiana. Lo spirito stesso della nazione, il senso della grandezza della vita, l’approfondimento della cultura, della sapienza e dell’arte, insieme a molti altri valori – tutto questo la Chiesa aveva capillarmente diffuso nella nostra terra, con la collaborazione dei fratelli della diocesi […].
«Inevitabilmente, il nuovo regime avrebbe dovuto confrontarsi con tutto questo, o distruggere tutto. Né l’una né l’altra alternativa poteva facilmente essere attuata. Lo scioglimento degli ordini religiosi e la confisca delle loro cose religiose e dei loro monasteri non si sarebbe potuta realizzare se non a costo di inaudite sofferenze e mietendo vittime, poiché questa non era soltanto una lotta contro la Chiesa, ma contro ogni forma di spiritualità e di cultura che essa rappresentava. La Chiesa aveva radici troppo profonde nella nazione slovacca, per poterla soffocare con l’avvento di un nuovo regime. Eppure si optò per la sua totale soppressione» (p. 33).
Cominciando da «quella notte», i 53 brevi capitoli dell’autobiografia si snodano veloci a rappresentare il dramma, a partire dai primi mesi trascorsi nei «conventi di concentramento» (p. 7), come efficacemente Vittorio Messori, nella Presentazione (pp. 5-1o), definisce la deportazione dei religiosi arrestati in tutta la Repubblica Cecoslovacca nel corso del 14 aprile 1950: era l’ultimo atto di quel piano di distruzione della Chiesa cattolica ideata e realizzata dai socialcomunisti fin dal 1945 in nome, naturalmente, della libertà religiosa, come ebbe a dichiarare Gustav Husak sulla Pravda nel 1946: «Lo abbiamo detto chiaro e tondo: noi siamo per la libertà di religione. Il ministro dell’interno comunista ha permesso la stampa religiosa, e ribadisce il suo intento di insegnare la materia religiosa nelle scuole… Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio. Così abbiamo detto. Nulla vieta al cittadino credente di soddisfare i suoi bisogni politici, sociali e nazionalistici attraverso il nostro partito» (p.35).
L’unico inconveniente consisteva nel fatto che «quel che è di Dio» avrebbe dovuto deciderlo il Partito attraverso i suoi zelanti funzionari, non di rado reclutati tra le file ecclesiastiche, al fine – nota ancora Vittorio Messori nella Presentazione – di sradicare l’idea stessa di Dio dal cuore degli uomini.
Per fare questo occorreva abbattere e avvilire l’autorità ecclesiastica, fabbricando processi basati su atti di accusa che, se non avessero condotto a inaudite sofferenze, sarebbero davvero esilaranti, come questa «perizia tecnica d’ufficio»: «La perizia dei rappresentanti della Cattedra del materialismo dialettico e storico, in collaborazione con la facoltà d i filosofia dell’Università Komensky di Bratislava, riunitasi il giorno 4-6-1960, riguardo a questo materiale ha potuto constatare che l’autore, sotto il pretesto di insegnare una religione “pulita”, ha incitato il popolo in modo premeditato e astuto a sostenere il Papa e il Vaticano nella lotta contro la classe operaia, contro il socialismo e contro tutte le avanguardie» (p. 157).
L’autore è Ján Chryzostom Korec, il materiale di propaganda sovversivo, che conduce all’accusa di alto tradimento, è costituito da alcuni fogli di appunti di meditazione per esercizi spirituali.
Senza dimenticare, sostiene un altro atto di accusa nel processo contro il vescovo Ján Vojtaššák, che il mandante è più in alto: vengono infatti ricordati «i pieni poteri del papa nell’edificare una dottrina spirituale illegale» (p. 155).
Non mancavano peraltro lucide analisi sulla pericolosità del vescovo Ján Chryzostom Korec: «Come vescovo segreto, negli anni 1953-54 ha consacrato segretamente a Bratislava alcuni religiosi e sacerdoti, affinché la regola dei gesuiti continuasse in Slovacchia con la sua azione illegale. Si preparava alla sovversione contro l’istituzione della democrazia popolare, e fino al suo arresto continuò ad indottrinare membri dell’ordine dei gesuiti, tramite riunioni segrete o prestabilite per la rivolta contro l’istituzione democratico-popolare, tramite studi segreti di filosofia e di teologia; distribuiva letteratura sovversiva e manteneva i giovani fedeli alle regole dell’ordine, in contrasto con l’istituzione della Repubblica Cecoslovacca, e tutto questo al solo scopo di poter meglio estendere la rete del Vaticano in Slovacchia per fomentare azioni sovversive intese a contrastare l’edificazione della repubblica socialista e della società comunista, contro l’ideologia materialistica e contro l’insegnamento del marx-leninismo» (p. 156). Una pagella per il Paradiso.
Ai processi-farsa seguono le condanne al carcere duro, i lavori forzati nelle miniere e nelle officine delle carceri, come racconta l’autore: «Il lavoro alle vetrerie era decisamente duro. Smerigliavamo il vetro per lampadari. Ogni gruppo lavorava un certo tipo di vetro. Noi tagliavamo le testine, dette “kopny ” dall’espressione tedesca in lingua ceca. C’erano vari tipi di testine, del diametro da 20 a 60 mm. Ogni testina aveva 31 piccole facce che andavano levigate. Le norme lavorative prescrivevano di usare entrambe le mani contemporaneamente; tenevamo una testina in ciascuna mano e la posavamo sul cerchio di pietra che girava, trainato da una cinghia raffreddata ad acqua. Durante il lavoro il sangue ci gocciolava letteralmente dalle dita, poiché anche facendo la massima attenzione i polpastrelli sfioravano sempre la piastra e si spellavano, specialmente l’indice e il pollice. Tutti dovevano cimentarsi in questo lavoro finché non raggiungevano una certa pratica. Di notte, aggiustandomi la coperta, mi pungevo le dita sulla lana ruvida e spesso mi svegliavo per il dolore. Le dita poi si infiammavano, perché durante il lavoro si bagnavano con l’acqua che scendeva sullo smerigliatore che proveniva dal canale della fogna da dove veniva continuamente pompata e riutilizzata. I miei amici all’inizio mi dicevano che se ne andava soltanto la carne in eccesso… L’umorismo ci aiutava ad andare avanti, ma a volte veniva proprio da piangere» (p. 215).
Chi non reggeva il ritmo produttivo, subiva le correzioni particolari: «A quei tempi alcuni sacerdoti soffrirono pene inaudite. Non c’è bisogno di frustare un uomo o di bruciarlo per torturarlo con efficacia. Coloro ai quali il lavoro non riusciva a perfezione dovevano lavorare come nelle camere di tortura. Poi andavano per punizione sotto terra per dieci giorni e mangiavano ogni tre… Inoltre il sottotenente non permetteva che lavorassero insieme e dovevano imparare a fare almeno un tipo di testine, Alcuni erano in correzione mese dopo mese…» (p. 216).
Costoro si sarebbero consumati lentamente lavorando, cioè edificando l’uomo nuovo socialista, fino a «rieducazione» compiuta, 0 fino alla morte.
La Chiesa cattolica si trasferisce nelle carceri e nella clandestinità, diventa «Chiesa del silenzio», viene vivificata da folle di umili e splendidi confessori e martiri.
Mentre i sacerdoti e i vescovi clandestini sono costretti a svolgere i lavori più duri per sopravvivere, continuamente spiati dalla polizia segreta fino all’inevitabile arresto, il regime socialcomunista tenta di costruire una Chiesa Nazionale, attraverso l’ufficio ecclesiastico, reclutando «cattolici d’avanguardia» e preti «per la pace».
Il testo riporta un significativo florilegio tratto da Katolické noviny, il «Giornale cattolico» ufficiale: come quando, nel novembre del 1950, viene processato il vescovo Stanislav Zéla e il giornale pubblica un commento di un influente sacerdote, che scrive: «Il tribunale di Stato a Praga ha emanato una severa condanna, e ha concesso all’imputato di pentirsi di tutte le colpe da lui commesse contro il nostro popolo» (p. 63); oppure quando suggerisce: «Ridete di quelli che amano il martirio sportivo…» (ibidem) mentre a Bratislava si condannano due vescovi al carcere a vita e un altro a ventiquattro anni di reclusione. A questi zelanti cappellani dei persecutori non sarebbe peraltro stata riservata una grande ricompensa.
Jozef Straka nel 1952 scriveva sullo stesso giornale: «Di quante cose dobbiamo ringraziare il nostro padre Stalin! Rimane anche per noi cristiani-cattolici… un esempio per il suo carattere e le sue doti eccezionali» (p. 67); quando più tardi lo colpì una grave malattia «chiese allo stato di essere assistito dalle suore, ma la richiesta gli fu negata» (p. 34).
Anche il responsabile nazionale degli affari ecclesiastici, un comunista convinto, autore di molte persecuzioni contro la Chiesa, finì la sua carriera nelle miniere di uranio dopo essere stato duramente percosso durante gli interrogatori.
Molti altri spunti troverà il lettore ne La notte dei barbari: per esempio, la fede e il coraggio delle donne slovacche, come la madre di Karol Durcek, un amico di Ján Chryzostom Korec, che subito dopo l’arresto del figlio teneva soprattutto a che «[…] rimanesse fedele, sincero, e che si attenesse alla sua coscienza, che non dicesse quello che non doveva dire, per non causare danni ad un piano divino o a qualsiasi persona…» (p. 108); oppure la letizia di sacerdoti e di laici nel portare la croce della persecuzione, subendo la menzogna dei processi o l’isolamento del carcere, come ricorda l’autore: «Io passavo ogni giorno dei bellissimi momenti fuori dalla prigione nei posti più svariati della Slovacchia, ma sempre vicino a Dio. Che dono meraviglioso è per l’uomo la sua anima, la sua mente, il suo spirito che non si lega alle quattro mura di una qualsiasi prigione, ma che può spaziare ovunque fino ai confini delle galassie, fino all’ineffabile spiritualità di Dio! La compagnia aveva fatto di me un uomo» (p. 142).
Ma l’autobiografia di Ján Chryzostom Korec non è propriamente una cronaca degli orrori e delle persecuzioni comuniste in Slovacchia: scritta su disposizione del vescovo di Nitra, predecessore dell’autore, «affinché se ne possano trarre insegnamenti per il futuro» (p. 285), è piuttosto la descrizione di un itinerario di resistenza contro la menzogna organizzata del potere. Resistenza che ha richiesto dosi straordinarie della virtù della fortezza e che è stata realizzata da chi «sperando contro ogni speranza […] non vacillò nella fede» (Rom. 4, 18-19).
Una straordinaria limpidezza e forza d’animo accompagnano il racconto di Ján Chryzostom Korec, unitamente alla profonda consapevolezza della portata storica degli avvenimenti: «Era una grande lotta di tutta la nazione e di tutta la Chiesa per la fede, per il vangelo, per i valori del cristianesimo e per il cuore di noi tutti – per il nostro futuro di cristiani» (p. 31), che consegna un prezioso «insegnamento per il futuro»: ogni totalitarismo, palese o subdolo, si sconfigge facendosi liberi con la commovente semplicità della verità.
Enzo Peserico