Vogliamo lasciare sprovvisto di cittadinanza un bambino che nasce o che cresce in Italia, se pure da genitori non italiani? Siamo così crudeli e discriminatori? In tante altre Nazioni lo jus soli è legge da decenni, perché dobbiamo essere gli ultimi? La riforma della cittadinanza ha nodi gravi, che meritano una trattazione approfondita e articolata, ben oltre i limiti di questa rubrica e di chi la cura: è facile prevedere che, se approvate, le nuove norme determineranno caos negli uffici e confusione sui requisiti per la concessione. Questo senza negare che sia necessario adeguare le norme in vigore dal 1992: la legge di 25 anni fa provoca tempi lunghi di trattazione ed esige troppi adempimenti, più di forma che di sostanza; quel che serve è un restyling che permetta di affrontare con efficacia l’attuale moltiplicazione delle domande, snellisca le procedure, verifichi l’effettiva e non formalistica meritorietà di un riconoscimento così importante. Quel che va evitato è – come si evince da interviste pure di autorevoli prelati – descrivere la cittadinanza come se fosse il pane, sì che la sua mancanza farebbe morire di fame, o peggio evocare l’estensione della cittadinanza quale strumento per compensare il calo demografico. Quel che va evitato è quanto accade dentro e fuori il Senato: da un lato slogan pietistici, dall’altro gli slogan urlati in opposizione. Contenuti zero. E se il cambio di passo fosse dare cittadinanza ai contenuti e alle riflessioni di merito?
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