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La Chiesa araba vista da vicino

12 Ottobre 2018 - Autore: Silvia Scaranari

di Silvia Scaranari

La Penisola arabica è un territorio enorme, quasi 3 milioni di km2 (10 volte l’Italia), abitato da popolazioni a maggioranza assoluta di religione islamica, ma con una significativa presenza di cristiani. La vastità del territorio ha obbligato Roma a dividere la comunità dei fedeli in due vicariati: uno, con sede ad Abu Dhabi (quello meridionale), comprende Yemen, Oman ed Emirati Arabi Uniti; l’altro, con sede in Bahrain, comprende l’Arabia Saudita, il Bahrain, il Qatar e il Kuwait.

In totale i fedeli cattolici sono circa 3.500.000, di cui 2.450.000 nell’Arabia del Nord guidati dal comboniano mons. Camillo Ballin.

Qualche giorno fa è stato in Italia il vicario dell’Arabia del Sud, il cappuccino mons. Paul Hinder, svizzero tedesco. A sentirlo parlare sembra di sentire Papa Benedetto XVI: un italiano perfetto, ma con un accento inconfondibile. Anche nell’aspetto ricorda Papa Ratzinger: viso sorridente e bonario oltre cui s’intuisce però una tempra forte e una tenacia invidiabile nello svolgere il proprio difficile compito. Dal 2003 guida la comunità cattolica, ricca di circa un milione di anime, come Vicario apostolico: una realtà molto composita, i cui membri provengono per lo più dalle Filippine, dal Bangladesh, dallo Sri Lanka e dall’India per cercare lavoro. Molto variegate sono anche le lingue, le abitudini e le tradizioni, formando uno spaccato della cattolicità (universalità) della Chiesa di Roma.

Mons. Hinter ha cura di una realtà composta da parrocchie che di solito coincidono con l’unico edificio-chiesa esistente: 8 già esistenti negli Emirati e una in costruzione, 4 nell’Oman e 4 nello Yemen. In verità nello Yemen, come pure in Arabia Saudita, non si tratta di vere chiese (eccetto ad Aden), ma di case private che sono adibite a luogo di culto. Le autorità lo sanno, ma tollerano se i cattolici si comportano con discrezione e se i sacerdoti girano da un gruppo all’altro senza farsi troppo notare. Nello Yemen, peraltro, non vi sono nemmeno sacerdoti residenti e dopo lo scoppio della guerra con l’Arabia, e l’inasprirsi della situazione, sono rimaste solo alcune suore di santa Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) nella capitale, Sana’a.

In Oman e negli Emirati le chiese sono ampie, il numero di fedeli è molto elevato, ma non ci possono essere campanili o non si può mostrare la croce sulle pareti esterne degli edifici.

Mons. Hinter presenta in modo sereno la situazione concreta in cui opera: «Con me ci sono 65 collaboratori, in maggioranza cappuccini. Nei momenti liturgici forti celebriamo fino a 25 messe per weekend in ogni chiesa. Prima di Natale i Filippini celebrano per 9 giorni e in Dubai lo fanno nel campo di calcio perché sono presenti sempre tra i 25 e i 30mila fedeli. Le suore appartengono a varie congregazioni e gestiscono scuole con circa 25.000 studenti, molto apprezzate e frequentate anche dai musulmani. In Yemen, le suore di Madre Teresa si occupano invece delle persone più disagiate e gestiscono una casa di accoglienza per handicappati fisici e mentali. Questo accudire l’altro tipico dei cristiani stupisce molto. I musulmani si chiedono infatti come sia possibile che un non musulmano sia buono e si dedichi a chi invece la società scarta».

La Chiesa araba è «una Chiesa di migranti per i migranti», precisa ancora il presule, perché è assolutamente vietato accettare conversioni dai musulmani. La pastorale può essere rivolta solo a cristiani o a fedeli di altre realtà religiose quali indù e buddisti. Talora la stessa opera di assistenza verso le persone malate o portatrici di handicap può essere vista come un tentativo di proselitismo e per questo «si deve agire con molta discrezione e cautela». Allo stesso tempo «è una Chiesa ricca di bambini: circa 30mila frequentano il catechismo organizzato da più di 1400 volontari» e questo fa ben sperare per il futuro.

La realtà araba permette di «incontrare le fedi», nulla di più. Parlare di dialogo è quasi un azzardo. La comunità cattolica cerca di mantenere un buon rapporto con le altre comunità cristiane, ma con l’islam i contatti sono sporadici. Le autorità civili e religiose islamiche sono sempre presenti nelle situazioni ufficiali come all’inaugurazione della nuova chiesa di Abu Dhabi. Il popolo arabo è per tradizione molto attento al protocollo e quindi il vescovo, autorità nella Chiesa, è rispettato come tale. In altri contesti invece il cristiano è trattato come un soggetto inferiore e il cattolico non è mai messo sullo stesso piano del musulmano.

Nel mondo islamico il non musulmano è limitato da quanto impone la shari’a, ma, in questo momento, c’è una grande stima verso Papa Francesco e, come gesto di grande apertura, è stato istituito il “ministero della Tolleranza”, termine che può certamente far sorridere un Occidente abituato a non fare differenze, a non dire mai “no” a nessuno, a considerare che sia lecito fare quello che un vuole. Le forze dell’ordine sottopongono tutti al controllo più stretto, i cattolici più degli altri perché cattolici e perché stranieri.

Come detto, nella maggioranza i cattolici sono migranti che svolgono attività lavorative abbastanza umili, ma fondamentali. I loro diritti sono limitati. Tutto quello che un migrante fa – cattolico o no –, lo può fare solo per concessione, che tra l’altro è sempre a rischio di revoca.

Salvo casi sporadici, non si può parlare però di persecuzione, bensì di “limitazione della libertà personale” con una serie di grandi contraddizioni: è lecito tenere in vista sulla propria auto un rosario o una croce, ma non esporre la croce davanti auna chiesa; è vietato ogni atto liturgico fuori dai locali prestabiliti, ma poi le autorità danno il permesso di celebrare la Messa nello stadio; la suora che si prende cura dell’handicappato cacciato di casa è molto ammirata, ma anche accusata di fare proselitismo; il vescovo è riverito come un’autorità, ma periodicamente deve sottoporsi a procedure burocratiche per poter ottenere il permesso di soggiornare sul suolo arabo e ultimamente c’è stata la battaglia per evitare che le libere offerte dei fedeli fossero tassate al 10% in Paesi in cui le tasse sono quasi sconosciute.

 

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