“La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica.” (T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale del 1917)
di Daniela Bovolenta
Chi è woke? Woke significa qualcosa come “risvegliato”. Risvegliati dal peso delle convenzioni, delle tradizioni, del passato. Basta con gli stereotipi, con i luoghi comuni, con tutte le storture e le ingiustizie. Woke sono coloro che si propongono di cancellare la cultura, in particolare quella occidentale, per far riemergere finalmente l’umanità nel suo stato più puro e privo di sovrastrutture.
Il movimento si occupa di tutto, chiavi in mano: radere al suolo monumenti, censurare professori universitari e artisti, cancellare musicisti dalle sale da concerto, mettere all’indice opere teatrali, silenziare dissidenti, riscrivere il linguaggio, stracciare libri di storia e biologia.
Un esempio di oggi: l’Università Milano Bicocca pensa di cancellare il corso di Paolo Nori su Dostoevskij per evitare polemiche, vista la guerra tra Russia e Ucraina. Un modo di pensare indegno di un’istituzione accademica, un inno al pensiero superficiale, da social media. Si protesta accendendo una candela, si mostra supporto con un like o una bandierina sulla foto di profilo, si censura all’ingrosso tutto ciò che non sia completamente neutro, inodore, insapore, incolore.
Certo l’idea non è nuova, e in un certo senso è un paradosso: volendo azzerare il passato, non ci si accorge quanto l’idea sia vecchia, stiracchiata, e purtroppo quanto si sia già mostrata fallimentare. Tuttavia, una nuova baldanzosa generazione di spocchiosi permalosi non lo sa, dunque avanti tutta.
Moltissimi, in molti campi, hanno accolto l’idea che sia necessario un colpo di spugna, un campanello d’allarme, al punto che alcuni hanno salutato una tragedia come l’epidemia di Covid-19 come un’opportunità per ripensare molte cose e “uscirne migliori”.
Ora, che tutto prima stesse andando per il meglio, mi permetto di dubitarlo. Tuttavia, c’è un noioso dettaglio di cui pochi hanno tenuto conto: la cultura richiede secoli, a volte millenni di sforzi continui. Per arrivare al Partenone ci vogliono secoli di costruttori, ci vuole abilità tecnica, ma anche una comunità che ritenga importante un progetto non direttamente volto a procurarsi cibo o calore. Ci vogliono valori condivisi.
Per costruire una cattedrale medievale ci vuole un popolo che destini un poco del superfluo (e a volte anche del necessario) a un’opera che solo le generazioni future vedranno finita. Questo popolo lo fa non per amore dell’urbanistica, ma solitamente per rendere onore a Dio.
Per comporre un brano di Bach o di Mozart, ci vogliono secoli di evoluzione musicale, di tecnica nel costruire organi o clavicembali, di mecenati che possano permettere ai più dotati di sollevarsi dalle impellenze della vita quotidiana almeno quel tanto che basta per poter comporre spartiti invece che zappare campi.
Per creare un fenomeno come la moda e l’arredamento made in Italy ci vogliono generazioni di artigiani, miriadi di piccole migliorie tecniche, senso del gusto, etica del lavoro, delle classi sociali con quel tanto di benessere da poterne destinare una parte al superfluo, alla costruzione di ambienti.
Persino un articolo di legge per essere formulato richiede secoli di tradizione giuridica, filosofia del diritto, principi condivisi. Certo, ad ogni generazione è dato il compito di verificare il canone ricevuto, ridefinirlo, attualizzarlo. Ma che accade se pretende di azzerarlo?
Arrivano i lupi, gli schiavi, i sacrifici umani. Letteralmente.
Perché viene meno la civiltà che faceva da baluardo. Arrivano i tempi del più forte che spazza via il più debole, senza barriera e contraddittorio. Esseri umani prodotti come merce, distrutti come merce. Si può dire con parole meno crude: interruzione di gravidanza, gestazione per altri, fecondazione artificiale, eutanasia, transizione ecologica (che è altra cosa dalla vera ecologia e che presto chiederà sacrifici umani, ci sono già tutte le avvisaglie). Ma la sostanza rimane. Senza civiltà, senza legami che vanno oltre quelli commerciali e momentanei, non siamo tutti più liberi. Siamo tutti più indifesi, soli, senza famiglia, né comunità, né consuetudini che ci proteggano.
Ogni civiltà è una freccia, lanciata verso il cielo. Richiede occhi che mirano in alto, secoli di tensione e fatica, pietra su pietra, verso su verso, preghiera su preghiera. Disegna archi perfetti, poi inizia la curva discendente. Basta la forza di gravità a farla ricadere a terra. A distruggere nell’incuria il frutto del lavoro di generazioni, nell’aridità secoli di liturgia, nella dimenticanza, persino nella vergogna, tutti i monumenti costruiti con la forza dello spirito.
Distruggere non chiede tensione né attenzione, basta qualche gesto goffo, se ci va: la freccia cade da sé.
Chi è woke di fatto ha un ruolo molto meno attivo di chi viveva nell’epoca dell’incanto del mondo. Gli incantati, unwoke per eccellenza, vedevano nel mondo i segni del divino e attribuivano allo spirito il compito di sollevare l’uomo nella dimensione del mistero e, come conseguenza, forgiavano il mondo attorno a sé con una forza creativa.
È questa la cifra dell’ora presente: tutto precipita. Tutti gli uomini, le istituzioni, che dovevano difenderci, precipitano con noi. Noi stessi manchiamo delle doti morali e intellettuali, della forza di volontà, per resistere alla caduta.
Il solo baluardo è costituito dalla vita dello spirito, ma bisogna saperla mantenere mentre tutto crolla, e non è facile.
Da anni parliamo di piccoli resti e minoranze creative, ma all’improvviso pare di vedere che la freccia ha continuato la sua traiettoria verso il basso e anche queste minoranze si sono in larga parte disciolte.
La civiltà è una freccia. La guardo rapita, come fosse una ripresa al rallentatore. Ancora pochi fotogrammi e toccherà terra.
Da lì in poi, saranno giorni per arcieri.
Venerdì, 4 marzo 2022