Paolo VI, Cristianità n. 390 (2018)
Udienza generale del 23-4-1969. Il titolo, redazionale, è tratto dal testo
La «consecratio mundi»
Diletti Figli e Figlie!
Parliamo ancora del Concilio. Ne dovremo parlare ancora per lungo tempo. La nostra età è segnata da questo avvenimento. Non vi torni a noia questo Nostro frequente ricorso ad esso, che informa di sé la vita della Chiesa. Non foss’altro per il linguaggio nuovo ch’esso ha messo in onore nell’insegnamento della dottrina cristiana. Nuove locuzioni, anche se anteriori al Concilio e reperibili nella letteratura tradizionale, sono diventate d’uso corrente, e hanno assunto significati caratteristici, importanti sia per il pensiero teologico, sia per l’ordinaria conversazione fra noi credenti.
La «consecratio mundi»
Una di queste locuzioni suona così: «consecratio mundi», la consacrazione del mondo. Questa espressione ha radici lontane, ma si deve al Papa Pio XII di venerata memoria il merito d’averla resa particolarmente espressiva in ordine all’apostolato dei laici. La troviamo nel discorso che quel grande Papa pronunciò in occasione del secondo Congresso mondiale dell’apostolato dei laici (vedi: Discorsi, XIX, p. 459, e A.A.S. 1957, p. 427); ma egli vi aveva fatto riferimento anche in altre occasioni (cfr. Discorsi, III, p. 460; XIII, 295; XV, 590, etc.); più esplicitamente allora, il 5 ottobre 1957, affermava che la «consecratio mundi», per quanto riguarda l’essenziale, è l’opera dei laici… «che si sono intimamente inseriti nella vita economica e sociale». Noi stessi usammo di tale locuzione nella Nostra pastorale del 1962, all’arcidiocesi di Milano (cfr. Rivista Dioc. 1962, p. 263). E l’espressione passò (nuova prova della coerente continuità dell’insegnamento ecclesiastico) nei documenti del Concilio: «[…] i Laici, dice la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, consacrano a Dio il mondo stesso» (Lumen Gentium, n. 34; e cfr. anche 31, 35, 36; Apost. Actuos., n. 7; etc.).
Per valutare questa espressione dovremmo analizzare il significato di tre termini: consacrazione, mondo, laici; termini che sono densi di contenuto, e non sono sempre usati in senso univoco. Qui a Noi basti ricordare che per consacrazione intendiamo, non già una separazione d’una cosa da ciò ch’è profano per riservarla esclusivamente, o particolarmente alla Divinità, ma, in senso più largo, il ristabilimento d’una relazione a Dio d’una cosa secondo l’ordine suo proprio, secondo l’esigenza della natura della cosa stessa, nel disegno voluto da Dio (cfr. Lazzati, in Studium, 1959, pp. 791-805; Congar, Jésus Christ, p. 215 ss.). E per mondo intendiamo il complesso dei valori naturali, positivi, che sono nell’ordine temporale, o, come dice in questo senso il Concilio (Gaudium et Spes, n. 2): «l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà, entro le quali essa vive». E col termine «Laici» che cosa intendiamo? Si è fatta grande discussione per precisare il significato ecclesiale di questa parola, per giungere a questa definizione descrittiva: laico è un fedele, appartenente al Popolo di Dio, distinto dalla Gerarchia, la quale è separata dalle attività temporali (cfr. Act. 6, 4) e presiede alla comunità dispensandole i «misteri di Dio» (cfr. 1 Cor. 4, 1; 2 Cor. 6, 4), e che invece ha un rapporto determinato e temporale col mondo profano (cfr. E. Schillebeeckx, La Chiesa del Vat. II, p. 960, ss.).
Dalla semplice considerazione di questi termini sembra sorgere una difficoltà: come si può oggi pensare ad una «consecratio mundi» quando la Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dell’ordine temporale, cioè il mondo come a sé stante, avente fini suoi propri, sue proprie leggi, suoi propri mezzi (cfr. Apost. act., n. 7; Gaudium et Spes, n. 42; etc.)? È ormai a tutti nota la posizione nuova assunta dalla Chiesa rispetto alle realtà terrestri; esse hanno una natura che fruisce d’un ordine, avente, nel quadro della creazione, ragione di fine, anche se subordinato a quello del quadro della redenzione; il mondo è per sé profano, staccato dalla concezione unitaria della cristianità medioevale; è sovrano nel campo suo proprio, campo che copre tutto il «mondo umano». Come si può pensare a una sua consacrazione? non si ritorna così ad una concezione sacrale, clericale del mondo?
I doveri del laico cristiano
Ecco la risposta; ed ecco la novità concettuale e sommamente importante nel campo pratico: la Chiesa accetta di riconoscere il mondo come tale, libero cioè, autonomo, sovrano, in un certo senso, autosufficiente; non cerca di farne strumento per i suoi fini religiosi e tanto meno per una sua potenza d’ordine temporale; la Chiesa ammette anche per i suoi fedeli del laicato cattolico, quando agiscono nel terreno della realtà temporale, una certa emancipazione, attribuisce loro una libertà d’azione e una loro propria responsabilità, accorda loro fiducia. Pio XII ha anche parlato d’una «legittima laicità dello Stato» (A.A.S., 1958, p. 220). Il Concilio raccomanderà ai Pastori di riconoscere e promuovere «la dignità e la responsabilità dei Laici» (Lumen Gentium, n. 37), ma aggiungerà, proprio parlando dei laici e ai laici che «la vocazione cristiana è per natura sua una vocazione all’apostolato» (Apost. actuos., n. 2) e mentre loro concede, anzi raccomanda di agire nel mondo profano con perfetta osservanza dei doveri a quello inerenti, li incarica di portarvi dentro tre cose (parliamo molto empiricamente); e cioè: l’ordine corrispondente ai valori naturali, propri del mondo profano (valori culturali, professionali, tecnici, politici, ecc.), l’onestà e la bravura, potremmo dire, la competenza e la dedizione, l’arte di sviluppare debitamente e realizzare quegli stessi valori. Il laico cattolico dovrebbe essere, anche a questo solo riguardo, un perfetto cittadino del mondo, un elemento positivo e costruttore, un uomo meritevole di stima e di fiducia, una persona amorosa della società e del suo Paese. Noi confidiamo che di lui si possa sempre pensare così; e auguriamo ch’egli non ceda al conformismo di tanti movimenti perturbatori, che oggi attraversano, in vario modo, il mondo moderno. La I Lettera dell’apostolo Pietro, e certe pagine di quelle di san Paolo (p. es. Rom. 13) meriterebbero da parte di molti, che si professano attivi in virtù del loro laicato cattolico, una seria meditazione.
Una vocazione di santità
L’altro influsso che la Chiesa, e non solo il laicato, può esercitare nel mondo profano, lasciandolo tale e nello stesso tempo onorandolo d’una «consecratio», quale il Concilio c’insegna è l’animazione (Apost. actuos., n. 7; Gaudium et Spes, n. 42) dei princìpi cristiani, i quali, se sono nel loro significato verticale, cioè riferito al termine supremo e ultimo dell’umanità, religiosi e soprannaturali, nella loro efficienza, che oggi si dice orizzontale, cioè terrena, sono sommamente umani; sono l’interpretazione, la inesauribile vitalità, la sublimazione della vita umana in quanto tale. Il Concilio parla, a questo proposito, di «compenetrazione della città terrena e della città celeste… (per) contribuire a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (Gaudium et spes, n. 40); e ricorda ai laici «che devono attivamente partecipare alla vita totale della Chiesa, non solo sono tenuti a impregnare il mondo di spirito cristiano, ma sono altresì chiamati ad essere testimoni di Cristo in ogni circostanza, in mezzo alla società umana» (Gaudium et spes, n. 43; Apost. actuos., n. 2).
Ed è in questo senso che la Chiesa, e specialmente i Laici cattolici, conferiscono al mondo un nuovo grado di consacrazione, non apportandovi segni specificamente sacri e religiosi (che in certe forme e circostanze vi stanno pur bene), ma coordinandolo, «nell’esercizio dell’apostolato nella fede, nella speranza e nella carità» (Apost. actuos., n. 3), al regno di Dio. «Qui sic ministrat, Christo ministrat, chi così serve il prossimo, serve Cristo», dice in una sua bella pagina sant’Agostino (In Io. tract. 51, n. 12; PL 35, 1768). È la santità, che s’irradia sul mondo e nel mondo. È, anzi sia, questa la vocazione del tempo nostro. Di noi tutti, Figli carissimi, con la Nostra Benedizione Apostolica.
Paolo VI