La morte del presunto califfo determinerà finalmente la scomparsa dell’Isis? No, oggi l’importanza del leader è molto diminuita in un cambiamento lento ma inesorabile dello spirito combattente.
di Silvia Scaranari
E’ notizia recentissima, anche se un po’ soffocata dal Festival di Sanremo e dal suo codazzo di polemiche, che il leader dello Stato Islamico, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, è morto. Il fatto è avvenuto durante un’operazione di massima sicurezza – così almeno l’ha definita il Presidente Biden – delle Forze Speciali degli Stati Uniti volta a catturare importanti esponenti dell’Isis. Da quanto spiegato, il raid è parzialmente fallito, perché Abu Ibrahim si è fatto esplodere per evitare la cattura e con lui sono morte altre 13 persone, compresi alcuni bambini, probabilmente membri stretti della sua famiglia.
Abu Ibrahim al-Hachimi al-Qurayshi era ovviamente solo uno pseudonimo costruito ad arte per ricoprire il ruolo di leader, come già aveva fatto il suo predecessore al-Baghdadi. In verità Amir Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi aveva cambiato il suo nome per rientrare nella linea di discendenza del Profeta. Ibrahim fa riferimento alla discendenza da Abramo, il grande Padre della fede monoteista, al-Hachimi riconduce al clan del Profeta, il cui nonno era Abd al-Muṭṭalib al-Hāshimī, e al-Qurayshi alla grande tribù dei Quraysh, a cui il clan degli Hachim apparteneva e che era dominante alla Mecca alla nascita di Maometto.
Al contrario delle millantate discendenze profetiche, Abu Ibrahim era nato a Tal Afar, a 50 km a ovest di Mosul, da una famiglia turkmena. Il padre, un predicatore sunnita, gli aveva garantito una buona formazione culturale universitaria e lui era diventato un acuto conoscitore del Corano e della Sunna. Giovane studente, aderisce al partito Ba’ath ed entra nell’esercito di Saddam Hussein come ufficiale. Caduto il rais, si lega a gruppi di al-Qaeda, in particolare ad al-Zarqawi, facente veci di Bin Laden in Iraq.
Arrestato, finisce nel carcere duro di Camp Bukka, vera “Accademia del Jihad”per il numero di futuri leader islamisti che si formano nelle sue celle, dove conosce al-Baghdadi. Probabilmente qui cresce il suo radicalismo, tanto da portarlo ad aderire allo Stato Islamico dopo la definitiva secessione da al-Qaeda, quando il califfato viene proclamato nel luglio 2014.
Diventato un fedelissimo dell’auto-proclamato califfo, dopo la sua uccisione in un raid americano ne diviene il successore il 31 ottobre 2019. Abu Ibrahim, già indicato dal al-Baghdadi, viene riconosciuto legittimo Califfo dello Stato Islamico dal Consiglio della Shura, una specie di assemblea di saggi. Noto per la sua determinazione e le sue posizioni molto dure verso tutti i “nemici dell’islam”, e nonostante il comunicato stampa della sua nomina abbia invitato tutti i combattenti a giurare fedeltà al nuovo Califfo, «non aveva la statura internazionale del califfo precedente», scrive Niccolò Locatelli su Limes.
L’Isis resiste, ma in un’area molto ridotta tra il nord-ovest dell’Iraq e la Siria, esattamente dove è nato, ed è stato pesantemente decapitato nei suoi vertici dalla vittoria delle forze internazionali. Le popolazioni locali, che forse inizialmente avevano supportato l’esperimento di stato shariatico, oggi sono molto più fredde e moltissimi “mujaheddin” sono in prigionia. Proprio l’assalto al carcere di Ghwayrana al-Hassaka in Siria, dello scorso gennaio, dimostra il bisogno impellente di uomini da parte dell’Isis.
Assai significativo è anche il luogo in cui Abu Ibrahim si nascondeva: la città di Atma (Atmeh) nella regione di Idlib, a pochi chilometri da dove tre anni or sono un’operazione analoga ha portato alla morte il suo predecessore al-Baghdadi. Situata a ridosso del confine turco-siriano, questa regione sarebbe oggi territorio sotto custodia turca e dalla fine del 2021 è una specie di “zona di soggiorno” per migliaia di siriani in fuga, di fatto un enorme campo profughi, ovviamente pagato dalla UE. Ma quello che qui più interessa è che da anni la regione di Idlib è diventata la destinazione finale dei cosiddetti “corridoi umanitari”, attraverso i quali – man mano che le roccaforti dell’Isis cadevano – si permetteva ai miliziani di evacuare con le proprie famiglie sempre opportunamente al seguito. In questo modo l’area è diventata di fatto una riserva per le decine di milizie nate dalla frammentazione dell’ISIS. Alcune di queste negli ultimi mesi hanno cominciato ad attaccare l’esercito turco di frontiera, tanto che non è fantascienza immaginare un contributo informativo della Turchia all’operazione contro Abu-Ibrahim.
Sorge però spontanea una domanda: perché questa terra di nessuno (e quindi di tutti) continua ad esistere? Perché le forze alleate non hanno portato a termine la missione di cancellare questa realtà di violenza, genocidi, abusi, violazione dei più elementari diritti umani?
La forza dell’Isis in Medio Oriente è molto calata, ma un residuo continua a resistere. La speranza di creare uno Stato Islamico permanente nell’area è scemata da tempo, molte aspirazioni si sono spostate in Estremo Oriente – vedi Indonesia – e soprattutto in Africa centro-orientale, dove però il jihadismo ha cambiato pelle, si è innestato sulla criminalità organizzata e sulla corruzione con le grandi multinazionali per il controllo delle risorse energetiche, e ha perso l’ideale della purezza e della sedentarietà territoriale.
L’Isis, con i tanti rami che ne sono derivati, con i nomi più diversi, è diventato più sfuggente, ma non meno pericoloso. I jihadisti che continuano a formarsi in Medio Oriente, in Africa, in Asia, e molto spesso in Europa continuano ad essere pericolosi, anche se forse non hanno più la forza per ampie manovre di attacco. Hanno la pericolosità degli uomini che non vogliono accettare la sconfitta di un progetto e che sono ricchi di slogan che non sanno più ricondurre ad un contenuto profondo.
Sabato, 5 febbraio 2022