Breve disanima del documento delle conferenze episcopali del continente, che prende posizione contro i diktat del “politicamente corretto” e della Unione Europea
di Antonio Casciano
Lo scorso 22 febbraio, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea indirizzava una lettera al Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, nella quale venivano puntualmente elencate le molteplici e notevoli perplessità generate dalla pubblicazione della Risoluzione del Parlamento europeo sul divieto di fatto del diritto all’aborto in Polonia (26 novembre 2020). Prima di entrare nel merito delle osservazioni, intrise di amarezza e delusione, che i vescovi d’Europa hanno formulato in ordine ai contenuti di detta Risoluzione, è bene offrire una rapidissima sintesi dei contenuti dispositivi della legge polacca in tema di aborto oggi in vigore. Tutto nasce da una sentenza della Corte Costituzionale polacca del 22 ottobre scorso, nella quale veniva sancita la incostituzionalità del cosiddetto «aborto eugenetico», ovvero, dell’aborto praticato «quando test prenatali o altre ragioni mediche indicano un’elevata probabilità di serio e irreversibile deterioramento del feto o un’incurabile malattia pericolosa per la vita». La sentenza faceva letteralmente la storia del diritto alla vita in Polonia, giacché cancellava per sempre una delle tre eccezioni – le altre due erano riferite ai casi di stupro o incesto e a quello di pericolo per la vita della madre – in base alle quali l’aborto era stato ammesso, entro la dodicesima settimana, da una legge del 1993.
In occasione del pronunciamento, peraltro, la presidente dell’Alta Corte Julia Przylebska sottolineava come la legge del 1993, violando, in alcune sue parti, diritti umani costituzionalmente protetti – quelli del nascituro, nel caso in specie – risultasse de facto incompatibile con la Costituzione e con l’ordinamento polacco. Nell’udienza di mercoledì 28 ottobre 2020, poi, Papa Francesco, a commento delle manifestazioni di protesta in atto in Polonia a causa di tale sentenza, dichiarava: «Il 22 ottobre scorso abbiamo celebrato la memoria liturgica di san Giovanni Paolo II, in questo anno centenario della sua nascita. Egli ha sempre esortato a un amore privilegiato per gli ultimi e gli indifesi e per la tutela di ogni essere umano, dal concepimento fino alla morte naturale. Per intercessione di Maria Santissima e del Santo Pontefice polacco, chiedo a Dio di suscitare nei cuori di tutti il rispetto per la vita dei nostri fratelli, specialmente dei più fragili e indifesi, e di dare forza a coloro che la accolgono e se ne prendono cura, anche quando ciò richiede un amore eroico».
Tornando ora ai contenuti della Lettera, i Vescovi ricordano in primis come la Chiesa cattolica sia stata da sempre, e ad ogni latitudine, impegnata a «sostenere le donne in situazioni di vita derivanti da gravidanze difficili o indesiderate», invitando incessantemente, mediante la voce del Magistero e l’esercizio della carità apostolica sul campo (consultori, centri di ascolto e di aiuto alla vita, ospedali, Caritas), «alla protezione e alla cura di tutta la vita nascente». A ciò fa seguito il richiamo agli standard legali internazionali, sanciti tanto nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’infanzia, che contempla «una speciale salvaguardia e cura del bambino, prima e dopo la nascita», quanto nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea, ivi obbligata, in forza del principio di attribuzione, ad agire «esclusivamente nei limiti delle competenze a lei conferite dagli Stati membri nei trattati, per raggiungere gli obiettivi in essi stabiliti (articolo 5.2 del Trattato sull’Unione europea)». Ebbene, concludono i vescovi, «né la legislazione dell’Unione Europea, né la Convenzione Europea dei Diritti Umani prevedono un diritto all’aborto. La questione è di competenza dei sistemi giuridici degli Stati membri», i quali possono dunque, in forza del diritto comunitario, vantare un margine di discrezionalità ampio quanto alla disciplina da riservare a tali materie. Il principio della salvaguardia dello stato di diritto, il cui rispetto è continuamente invocato nella Risoluzione del Parlamento europeo, sembra sia stato inteso come applicabile al solo governo polacco, laddove, protestano i vescovi, «lo Stato di diritto richiede anche il rispetto delle pertinenze degli Stati membri e delle scelte da essi operate nell’esercizio delle loro esclusive competenze». A parziale corredo di quanto opportunamente segnalato dai presuli, vale la pena ricordare che la stessa Corte di Strasburgo, nella sentenza della Grande Camera del 27 agosto 2015, relativa al caso Parrillo c. Italia, dichiarava, pronunciandosi sulla liceità del divieto di ricerca sugli embrioni crioconservati esistente in Italia, che «ciascuno Stato gode di un margine di discrezionalità nella regolamentazione di quelle materie che involvono la vita privata dei singoli».
Oltre a ciò, nella Lettera si manifesta la bruciante preoccupazione per il fatto che «la risoluzione sembri contestare il diritto fondamentale all’obiezione di coscienza, che deriva dalla libertà di coscienza», la cui tutela è espressamente prevista nell’articolo 10.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ma è il caso di far notare che la natura di diritto fondamentale univocamente riconosciuto nell’ordinamento internazionale all’obiezione di coscienza, è altresì desumibile tanto dall’art. 18 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (che così statuisce: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo […]»), quanto da una solenne Risoluzione sull’obiezione di coscienza negli stati membri della Comunità che lo stesso Parlamento europeo ha adottato nel 1994, ivi qualificando l’obiezione come «un vero e proprio diritto soggettivo, riconosciuto dalla risoluzione 89/59 della Commissione per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite e intimamente connesso all’esercizio delle libertà individuali». Da qui l’accorato appello dei vescovi affinché, deposto il livore ideologico che pare aver ispirato in molte parti il documento del Parlamento UE, si prenda a considerare «i diritti fondamentali – come la libertà di pensiero, di coscienza e di religione – alla luce della loro universalità, inviolabilità, inalienabilità, indivisibilità e interdipendenza» e l’obiezione di coscienza in particolare alla luce della Carta dell’Unione europea, come diritto implicante «la necessità di rispettare le tradizioni costituzionali nazionali e lo sviluppo delle legislazioni nazionali in materia».
Insomma, sempre più spesso accade di doversi scontrare con linee di azione politica dell’Unione Europea scaturenti dalla missione, che essa si è nel tempo auto-attribuita, di promuovere e tutelare a livello globale i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto, con ciò plasmando continuamente e discrezionalmente il novero di tali diritti, fino ad includervi quelli che le mode del pensiero unico di massa acriticamente impongono – come nel caso del diritto all’aborto, ancorché ricompreso artatamente nei diritti alla salute riproduttiva della donna – e soprattutto operando politicamente per ottenere il rispetto di tali diritti. Il tutto, ovviamente, agendo al di sopra e al di là tanto della legge comunitaria, che, contenuta nei Trattati istitutivi della UE, dovrebbe invero segnare la linea di demarcazione per continuare a distinguere tra ciò che è legale e ciò che non lo è nell’operato degli organi UE, quanto della legge internazionale, che continua tutt’oggi ad annoverare il principio del rispetto della sovranità statuale, specie nel caso di ordinamenti pienamente legittimi e di governi democraticamente eletti come nel caso della Polonia, perché è uno dei pochi baluardi del diritto internazionale pubblico generale, quindi, pienamente vigente e cogente.
Martedì, 2 marzo 2021