di Domenico Airoma
1. Definizione
“Complesso di piccole associazioni clandestine (cosche), rette dalla legge dell’omertà e del silenzio, che esercitano il controllo di alcune attività economiche e del sottogoverno nella Regione Siciliana”: così, alla voce mafia, recita un dizionario della lingua italiana, il Devoto-Oli; e l’etimologia più seguita della parola la fa derivare dall’arabo mahias, “smargiasso”, “sfacciato”, e con tale significato essa compare per la prima volta nel 1658.
2. Le origini
“La mafia – scrive lo storico Paolo Pezzino – è una forma di criminalità organizzata che non solo è attiva in molteplici campi illegali, ma tende anche ad esercitare funzioni di sovranità, normalmente riservate alle istituzioni statali, su un determinato territorio […]. Si tratta quindi di una forma di criminalità che presuppone alcune condizioni: l’esistenza di uno Stato di tipo moderno, che rivendichi a sé il monopolio legittimo della violenza, un’economia libera da vincoli feudali […], l’esistenza di violenti in grado di poter operare in proprio, imponendo anche alle classi dirigenti la propria mediazione violenta”.
La definizione riportata descrive con buona completezza il fenomeno sulla base dell’osservazione delle condizioni nelle quali viene a trovarsi la Sicilia all’indomani dell’abolizione del sistema feudale, proclamata dal parlamento siciliano nel 1812. Il progressivo inurbamento dell’aristocrazia, l’alienazione delle terre da parte dei nobili ai capeddi o gabelloti, ai quali era in precedenza affidata l’amministrazione del latifondo, e quindi il rapporto con i mezzadri in assenza degli aristocratici, l’usurpazione delle proprietà comunali e l’acquisto delle terre ecclesiastiche espropriate, resi possibili dal venir meno dei vincoli feudali e dall’eversione degli usi civici, determinano il trasferimento di gran parte della proprietà terriera nella disponibilità di questa emergente “borghesia”. Il venir meno del tradizionale sistema repressivo, demandato soprattutto all’aristocrazia, e il nascente accentramento amministrativo, perseguito dai governi ispirati dal cosiddetto assolutismo illuminato, inducono i nuovi proprietari a ricorrere a milizie private, “bande” o “squadre”, strumento indispensabile per la realizzazione del controllo territoriale. Compiti di queste “unioni o fratellanze”, “piccoli Governi nel Governo” – come le definisce il Procuratore Generale del Re Pietro Calà Ulloa (1802-1879) nel rapporto al ministro di Grazia e Giustizia del 1838 – erano: la gestione del traffico dell’abigeato, l’offerta di “mediazione” fra ladri e derubati e, più in generale, fra i braccianti, i contadini e i nuovi proprietari, la composizione delle liti, la protezione degli affiliati e la corruzione dei funzionari pubblici. Inoltre, il progressivo affermarsi delle “cosche” come “istituzioni di soccorso”, radicate nelle comunità locali, era dovuto al ricorso metodico alla violenza, alla capacità di superare con successo ogni conflitto con gli organi statali, all'”omertà” dei “mafiusi”, ossia all'”essere uomini”, e in particolare “uomini d’onore” – cioè coraggiosi e astuti, capaci di crimini efferati e, al contempo, “rispettosi” della morale tradizionale, soprattutto familiare.
Il periodo seguente l’Unità d’Italia, cioè a partire dal 1860, registra il compimento del processo di “istituzionalizzazione” della mafia e i primi esperimenti di coordinamento fra cosche. La sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del governo centrale, restìo ad avviare un’efficace azione repressiva, l’accordo fra politici e mafiosi in sede locale, in virtù del quale i primi si assicuravano il consenso elettorale delle popolazioni, mentre i secondi ottenevano in cambio la gestione della riscossione dei tributi, la possibilità di incidere sulle finanze dei comuni e sulle forze di polizia condizionandone l’attività investigativa, il ricorso alle cosche per sconfiggere il Brigantaggio, consentono la penetrazione della mafia nelle istituzioni legali, contribuendo a legittimare ulteriormente il potere mafioso agli occhi dei siciliani.
3. Nel ventennio fascista e nel secondo dopoguerra
La campagna repressiva contro la mafia, voluta da Benito Mussolini (1883-1945) dopo un viaggio in Sicilia nel maggio del 1925 e affidata al prefetto Cesare Mori (1872-1942), si articola su un piano sia repressivo che sociale; sotto il primo profilo, si registra il massiccio ricorso a misure di polizia che, come il confino e la confisca dei patrimoni, si proponevano lo scopo di sradicare i mafiosi dai territori controllati e di attaccarne il prestigio presso le comunità; dal punto di vista sociale, l’azione è rivolta a neutralizzare il peso del ceto intermedio dei gabelloti e dei campieri, affidando i compiti di mediazione e di rappresentanza a organi burocratici, abolendo le elezioni politiche e amministrative, riservando allo Stato le funzioni di protezione e di regolamentazione economica. “Entro breve tempo – constata il sociologo tedesco Henner Hesse – con queste misure si riuscì a spezzare il potere dei mafiosi, da un lato perseguitandoli, dall’altro rendendoli superflui”. Dal canto suo, la giornalista statunitense Claire Sterling (1918-1995) conclude: “Mussolini ha strangolato il mostro nel suo covo, commentò il Times di Londra […]. Con la caduta di Mussolini, alla fine della seconda guerra mondiale, la mafia riapparve come per magia. Gli uomini d’onore, tutti antifascisti convinti, passarono direttamente dal carcere alle cariche pubbliche”. In realtà, gran parte dei mafiosi erano sfuggiti alla repressione fascista rifugiandosi negli Stati Uniti d’America, dove danno vita all’Unione siciliana, che più tardi assumerà il nome di Cosa nostra.
Pur essendo discussa l’esistenza di patti d’impunità per i mafiosi che collaborarono per il felice esito dello sbarco alleato in Sicilia, è, comunque, dimostrata la riemersione del potere mafioso negli anni del dopoguerra, rimanendo invariate struttura e funzione, proprio per la perdurante assenza nel tessuto sociale di organismi di mediazione e di rappresentanza. Ora alleandosi al fronte separatista, ora sostenendo la proprietà agraria, ora schierandosi con il movimento contadino, Cosa Nostra si conferma compagine multifunzionale e interclassista, inscindibilmente legata a un determinato ambito territoriale, pur se la parentesi americana l’aveva munita di una preziosa rete di collegamenti internazionali.
4. Dal controllo degli appalti al traffico degli stupefacenti
Con l’espansione dell’intervento dello Stato nell’economia – mediante la creazione di enti come la Cassa per il Mezzogiorno e l’Ente Nazionale Idrocarburi, e l’avvio di imponenti programmi di lavori pubblici -, decisa, negli anni 1950, dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, con il sostegno del maggior partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano, la mafia da “rurale” diventa “urbana”, attirata da nuove fonti di profitto: l’edilizia, i mercati generali e gli appalti. In questi settori, essa si presenta dapprima nelle vesti tradizionali di protettrice, imponendo tangenti agli imprenditori, finendo poi per gestire in proprio l’iniziativa imprenditoriale, che può contare su efficaci metodi di “scoraggiamento” della concorrenza e sull’accaparramento dei finanziamenti pubblici. Sono questi gli anni in cui diviene particolarmente intenso il rapporto fra cosche mafiose e partiti politici, per i quali la mafia non mostra alcun interesse “ideologico”, limitandosi a indirizzare il consenso verso lo schieramento in grado di fornire le maggiori garanzie di conservazione del proprio potere, anche economico. “La mafia era il segreto colpevole di tutti i partiti – nota la Sterling -, anche se per alcuni era più colpevole che per altri. Persino i comunisti avevano i loro peccatucci”. Lo stesso ingresso di alcuni mafiosi in associazioni massoniche è dettato dall’opportunità di ampliare la rete di contatti, soprattutto agli ambienti finanziari e giudiziari.
Dopo aver superato, senza subire danni strutturali, i primi processi – svoltisi a Catanzaro e a Bari alla fine degli anni 1960 -, la mafia, durante tutto il decennio successivo, anche approfittando dell’impegno dello Stato sul fronte del terrorismo, svolge un’opera d’imponente rafforzamento del proprio tessuto organizzativo allo scopo di renderlo adeguato ai mutati scenari criminali. E infatti, in quegli anni, prima il contrabbando di tabacchi lavorati esteri e poi il traffico degli stupefacenti, comportando un massiccio afflusso di liquidità, impongono alle cosche mafiose la necessità di un raccordo operativo, indispensabile per evitare “conflitti di competenza”. Le singole “famiglie” – governate da un “rappresentante” – vengono raggruppate secondo un criterio di contiguità territoriale e affidate al controllo di “capi-mandamento”, a loro volta facenti parte di un organismo collegiale sovraordinato, la “Commissione” o “Cupola”. La rigida struttura verticistica, il severo codice comportamentale e gli ingenti profitti rendono indefettibile l’intervento “sanzionatorio” tutte le volte in cui – dall’interno o dall’esterno – si attenti all’integrità dell’organizzazione mafiosa. Lo stesso rapporto con le istituzioni, pur obbedendo al criterio della “coabitazione” utilitaristica, incomincia a farsi più conflittuale, prevedendo, come unica alternativa alla corruzione dei rappresentanti dei poteri statali, la cruenta eliminazione degli stessi, con metodologie di tipo terroristico e con lo scopo di rendere sempre più palese l’incontrollabilità del territorio da parte dello Stato.
Nel contempo, Cosa Nostra stringe rapporti con organizzazioni criminali straniere, fra le quali spiccano la “mafia” russa, di origine prevalentemente politica, quella turca, le triadi cinesi e la yakuza giapponese, nei confronti delle quali la mafia siciliana, pur non alterando la propria natura di organizzazione a base territoriale, si pone come paradigma organizzativo aprendo – l’osservazione è del magistrato Giovanni Falcone (1939-1992) – la “pericolosissima prospettiva di una omologazione dei modelli di organizzazione criminale”. Dinanzi a tale estensione quantitativa e qualitativa del fenomeno mafioso, il potere esecutivo e quello legislativo ispirano il proprio intervento alla “logica del funerale”, intervenendo con misure emergenziali, finalizzate più a calmare la “piazza”, a seguito di clamorosi eccidi di magistrati e di rappresentanti delle forze dell’ordine, che ad affrontare radicalmente la questione. Consistenti successi giudiziari si registreranno solo con il ricorso sistematico ai cosiddetti “pentiti”, i quali consentiranno agli investigatori di penetrare all’interno dell’organizzazione di Cosa Nostra. Le prime sconfitte giudiziarie della mafia e l'”implosione” del sistema partitico indurranno Cosa Nostra a cercare nuovi referenti politici, apparendo quelli fino ad allora utilizzati non più in grado di assicurare l'”aggiustamento” dei processi e l’erogazione di finanziamenti pubblici.
5. Qualche considerazione critica
La storia del fenomeno mafioso mostra la fallacia di ogni interpretazione “riduzionista”: poiché si tratta di un “sistema sociale extralegale” – la definizione è del sociologo Leopoldo Franchetti (1847-1917) -, la mafia non tollera approcci unilaterali, tendenti a identificarne l’essenza nella violenza dei mezzi, nel fine di accumulazione di capitali o nel sottosviluppo delle comunità; né risponde al vero – nota Falcone – presentarla come “un cancro proliferato per caso su un tessuto sano”. La mafia costituisce risposta – organizzata, non necessariamente violenta, tendenzialmente completa e perciò alternativa all’apparato statale – alla domanda di “protezione” di uomini “spogliati” degli abiti di aggregazione sociale, tipici di una determinata area; il suo effetto è un legame inscindibile e assorbente, il cui unico fine è il vantaggio dell’organizzazione stessa.
Aggiornamento (agosto 2007)
Dalla strategia stragista all’ “inabissamento”.
La seconda metà degli anni Novanta registra l’abbandono della strategia stragista ed il ritorno alla mediazione silenziosa.
“Siamo alla riscoperta di vecchie condotte – avverte il magistrato Piero Grasso, Procuratore Nazionale Antimafia –, vecchie strategie, vecchi modi di essere dei boss: infiltrarsi e convivere, piuttosto che contrapporsi frontalmente allo Stato e alla società”.
Non si tratta, tuttavia, di una nuova mafia, contrapposta alla vecchia mafia.
Dal punto di vista dell’organizzazione, infatti, “Cosa Nostra – nota ancora Grasso – resta un’organizzazione verticistica e unitaria. Si è adattata alla repressione dello Stato cercando di rendersi invisibile attraverso l’attuale strategia dell’immersione. Cosa Nostra ha capito che stragi, delitti e uccisioni di bambini provocano inevitabilmente una risposta delle istituzioni. Ha capito che viene meno il consenso della gente. Adeguandosi al nuovo clima, Cosa Nostra si è pian piano rafforzata. Ha ricostruito i suoi quadri dirigenziali. È tornata alla regola di una impenetrabile segretezza come argine alle collaborazioni di giustizia. Cerca, con le dovute cautele, di riallacciare rapporti con tutte quelle categorie che sono funzionali al suo sistema di potere”.
Se di novità si tratta, essa, dunque, attiene soprattutto al sistema delle relazioni riconducibile a Cosa Nostra, molto più articolato e diffusivo rispetto al passato: una sorta di misto di arcaicità e postmodernità. Se, per un verso, gli ordini scorrono la scala gerarchica impressi su bigliettini (i cosiddetti pizzini) affidati a una rete di silenziosi postini, per altro, i manager di Cosa Nostra fanno ormai affari su Internet.
Per approfondire: vedi il quadro storico, in Paolo Pezzino, Mafia: industria della violenza, La Nuova Italia, Firenze 1995; e in Henner Hesse, Mafia. Le origini e la struttura, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1993; elementi documentali, in Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 1991; e in Commissione Parlamentare Antimafia, Mafia e Politica, Laterza, Roma-Bari 1993; elementi di cronaca, in Claire Sterling, Cosa non solo nostra, Mondadori, Milano 1990. Per la situazione attuale: Saverio Lodato e Piero Grasso, La mafia invisibile, La nuova strategia di Cosa Nostra, Mondadori, Milano 2001; Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Voglia di mafia, Carocci, Roma 2004.