di Domenico Airoma
Nel 1991, in occasione di un seminario internazionale dell’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la delegazione russa descriveva la delinquenza organizzata operante in quel paese come costituita da «[…] comunità criminali stabili, che commettono crimini a catena organizzandosi per sfuggire a ogni controllo sociale e che esistono soprattutto grazie a protettori corrotti». Dal 1992, il termine mafiya fa il suo ingresso nei documenti ufficiali della Federazione Russa per designare una criminalità organizzata in clan — secondo il modello della «progenitrice» siciliana — e fondata sui «comuni interessi di politici, uomini d’affari e gangster», come si esprime il sociologo Leonid Fituni, dell’Accademia delle Scienze russa.
Le origini della «mafiya»
«[…] la mafia russa risale agli anni Sessanta del secolo scorso, gli stessi anni in cui nasceva la mafia italiana. Come Giuseppe Garibaldi […] utilizzava giovani banditi siciliani per combattere contro i re Borboni, così i primi rivoluzionari russi si valevano dell’opera di malviventi per combattere lo zar.
«Tutto incominciò quando un personaggio della rivoluzione bolscevica […], Nicholas Ishutin, inventò l’“Organizzazione” […]. Il suo braccio segreto, chiamato “Inferno”, si dedicava a fomentare il disordine pubblico per mezzo di assassini, ricatti, rapine a mano armata e così via, realizzando per la prima volta l’associazione fra terrorismo e criminalità comune». In questi termini la giornalista statunitense Claire Sterling (1918-1995) descrive le origini della mafia russa, ponendone in risalto il tratto più caratteristico e duraturo, ovvero il forte legame — che evolverà in un rapporto di vera e propria identificazione, secondo il giudizio del giornalista russo Arkadij Vaksberg — intercorrente fra struttura criminale e sistema politico comunista, del quale la prima costituisce, almeno inizialmente, strumento non secondario nella strategia di aggressione della proprietà privata. Tale originaria specificità di interessi criminali, unita alla necessità — avvertita soprattutto durante l’epoca di stabilizzazione del regime comunista a opera di Josif Visarionovic’ Dz’ugas’vili detto Stalin (1879-1953) — di dotarsi di un’organizzazione in grado di proteggere i propri membri e di trattare con i vertici politici, contribuisce, da un lato, a far etichettare i criminali russi con l’appellativo di «ladri» e, dall’altro, a strutturare l’organizzazione — Organizatsja — secondo un rigido assetto verticistico e un severo codice di comportamento, scandito da pratiche rituali ed espresso con modalità simboliche. Michail Djomin (pseudonimo di Georgii Evgenevic’ Trifonov, 1926-1984), poeta ed ex «ladro», parla della «vorovskoj mir», la «comunità dei ladri», come di «una seria corporazione di istituzioni clandestine […] che abbracciavano l’intero complesso dello stato sovietico, sotto l’egida di un solo codice generale di comportamento valido dalla baia della Finlandia alle sponde del mar del Giappone». La fedeltà all’«Organizzazione», il rispetto delle regole e della gerarchia, messo alla prova da delitti efferati e da lunghi periodi di carcerazione, determinano l’ascesa del criminale comune dalle «brigate» — comandate dal «gruppo di riserva» — al rango di vory v zakone, «ladri in legge», cioè ladri che riconoscono un sistema di norme, élite di ogni clan, chiamata a gestire i rapporti con le istituzioni legali e con gli altri gruppi criminali nonché ad amministrare l’obshak, la cassa comune.
L’istituzionalizzazione della «mafiya» nel secondo dopoguerra
Il rapporto con il regime comunista — che, durante il periodo staliniano, tollerava lo sfruttamento di talune attività illegali come gioco d’azzardo, prostituzione e furti da parte dei ladri in cambio della loro collaborazione alla persecuzione degli oppositori politici — diventa istituzionale negli anni 1950, raggiungendo il culmine, rappresentato da una vera e propria osmosi fra nomenklatura e vertici mafiosi, durante il periodo di governo di Leonid Ilic Breznev (1906-1982). L’economia sommersa e la corruzione costituiscono il terreno d’incontro fra mafiosi e capi comunisti. La penuria di merci, causata dalla pianificazione economica e aggravata dal secondo conflitto mondiale, trova nella mafiya, che nel frattempo ha avviato rapporti con le organizzazioni criminali internazionali — il primo meeting si tiene a Leopoli nel 1950 —, un affidabile circuito di reperimento e di approvvigionamento di beni introvabili sul mercato legale. Si tratta di una «povertà così disperata da far perdere il senso del pudore e la dirittura morale» — così si esprimerà il capo della polizia moscovita in un’intervista al Washington Post del 26 febbraio 1991 — e da far sì che la korrupcija, la corruzione politico-amministrativa, divori lo Stato «da cima a fondo», secondo una dichiarazione di Boris Nicolaevic Eltsin. La mafiya — d’intesa con i vertici politici — rende istituzionale il meccanismo corruttivo mediante la creazione in ogni azienda di Stato di «reparti clandestini», cellule di produzione sottratte alle maglie del regime collettivistico, capaci di alimentare con regolarità un mercato sommerso stimato, nel 1990, in circa il 30% del PIL, il Prodotto Interno Lordo, con benefici ripartiti fra Organizatsja, rappresentanti del potere politico, della legge e dell’ordine. Sono questi gli anni in cui la mafia russa, pur mantenendo il tradizionale assetto gerarchico e il riferimento al territorio e all’etnìa, si organizza in base al settore produttivo privilegiato — mafia del petrolio, del legno, dell’informatica, e così via —, accogliendo nelle proprie file molti esponenti della nomenklatura sovietica, che formano il «gruppo di sicurezza», importante anello di congiunzione fra i «ladri in legge» e le istituzioni.
La legalizzazione della «mafiya»
Nel 1985, con l’avvento al potere di Mikhail Sergeevic Gorbaciov, molti considerano ormai venuta la fine del controllo mafioso sull’economia; poiché «la mafia — osserva Vaksberg — […] è cresciuta con il sistema, ne è diventata parte integrante», quindi — conclude il giornalista russo — «[…] può crollare unicamente con la caduta di tutto l’edificio, cioè del sistema medesimo». Invece, la Sterling fa notare che l’eliminazione dell’apparato partitico e la transizione al libero mercato consentono alla struttura mafiosa di «[…] compiere un enorme balzo in avanti strategico: prima si limitava a nutrirsi a spese dell’economia, ora se ne sarebbe impadronita». E infatti — la considerazione è di Vaksberg —, «[…] senza attendere la legge sulla privatizzazione, la proprietà statale si privatizza e si trasforma in capitale di partenza di banche, associazioni, società per azioni, società a responsabilità limitata, aziende miste […]. Segretari di comitati regionali e cittadini del partito […] si trasformano in tutta fretta in presidenti e vicepresidenti di ogni genere di società, gli uomini d’apparato diventano manager». Le vendite delle imprese di Stato disposte da Eltsin trovano, pertanto, quali unici acquirenti i clan mafiosi: secondo Fituni, «i voucher e gli altri titoli governativi che davano il diritto ai possessori di acquistare una quota di proprietà statale erano il generoso regalo dell’élite dirigente alla comunità criminale. Era il momento del trionfo degli ex gangster; essi comprarono i voucher in gran quantità e diventarono rapidamente i più ricchi del paese […]. La comunità criminale era pressoché legalizzata». Ne prende atto lo stesso Eltsin, quando, nel 1992, ammette che «quasi i due terzi della struttura commerciale della Russia» è in mano alla mafiya; tale condizione di oligopolio, rafforzata dallo scoraggiamento violento di ogni concorrenza, trae alimento anche dal rapporto con gli imprenditori stranieri, i quali, dapprima investono ingenti capitali in joint-venture con società locali, e poi vengono costretti a «cedere» l’attività al partner russo. In quello stesso periodo, e cioè negli anni dal 1990 al 1992, la mafia russa intensifica la penetrazione in Occidente, concludendo accordi con le principali organizzazioni criminali — mafia siciliana, camorra napoletana, mafia turca e triadi cinesi —, nei cui confronti si pone ora come forza trainante, sia per l’impressionante giro d’affari — circa milleottocento miliardi di rubli all’anno — che per la disponibilità di armi e di componenti nucleari che ex ufficiali dell’esercito sovietico hanno portato «in dote» all’«Organizzazione». Luciano Violante così commenta l’escalation della mafia russa: «Oggi la Russia è diventata il centro strategico della criminalità organizzata mondiale. È lì che si decidono il riciclaggio del denaro sporco, la spartizione dei territori, e così via. Abbiamo le prove che il PCUS e il KGB hanno da molto tempo avuto relazioni con la mafia siciliana e che questi due organismi hanno messo in piedi la mafia sovietica, con la quale si sono confusi».
La crisi della «cupola» dei «ladri in legge» e la lotta fra le cosche per il dominio della Russia
L’espansione dei traffici illeciti dai tradizionali settori — gioco d’azzardo, contrabbando e prostituzione — a nuove e più lucrose attività — traffico di armi e di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, gestione di imprese e contraffazione di banconote e di titoli di credito —, unita a una generale «atrofizzazione di ogni senso morale» — l’espressione è del mafiologo russo Ghennadi Khokhriakov — e a una «deregulation totale» seguita alla caduta del comunismo — secondo l’opinione del giornalista Cesare Martinetti —, determina la crisi del codice di comportamento e, quindi, del vertice dell’«Organizzazione»; i ladri in legge, fino a quel momento arbitri indiscussi di ogni conflitto fra i vari clan — solo a Mosca se ne contano più di cento — vengono, anche fisicamente, eliminati. Si apre una sanguinosa guerra di mafia che porterà a un’impennata del numero di omicidi nel 1995: ben ventinovemila, di cui cinquecentosessanta su commissione. Le ragioni della contesa sono, da un lato, l’accaparramento delle zone d’influenza interne lasciate libere a seguito del ridimensionamento della potente cosca cecena e, dall’altro, il controllo dei traffici internazionali, soprattutto con gli Stati Uniti d’America, dopo l’arresto — avvenuto nello stesso 1995 — del padrino di Little Odessa, Vjacheslav Ivankov. L’effetto del conflitto è l’affermarsi — il giudizio è dello scrittore dissidente russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ed è stato espresso nel 1996 — di una nuova «oligarchia» criminal-finanziaria, «[…] costituita da 150-200 persone, che gestiscono il destino del paese».
Critica
Nata con la rivoluzione socialista, «fiorita — secondo la Sterling — sotto il governo comunista», del quale — al dire di Vaksberg — ha costituito «sviluppo naturale» e — per Khrokhriakov — «eredità», la mafiya rappresenta oggi in Russia la struttura socio-economica dominante: «Mafioso — scrive Martinetti — è il modello sociale vincente nella Mosca che fibrilla di business e di affari. […] mafia è ormai quasi una condizione atmosferica […], che domina le relazioni sociali […].
«Mafia è diventato il quotidiano più quotidiano». Ma la signoria della mafiya non si limita al territorio russo; negli ultimi anni essa ha dato dimostrazione di essere penetrata massicciamente, sia attraverso i circuiti bancari e finanziari che mediante i canali dei traffici illeciti, nelle economie e nelle società dei paesi ex comunisti dell’Est e dell’intero Occidente, ponendosi come variabile indipendente «a crescita esponenziale» — secondo una notazione di Giovanni Falcone (1939-1993) del 1992 — della scena criminale e politica internazionale.
Domenico Airoma
Per approfondire: vedi la parte storica, in Arkadij Vaksberg, La mafia sovietica, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 1992; e in Claire Sterling, Un mondo di ladri. Le nuove frontiere della criminalità internazionale, trad. it., Mondadori, Milano 1994; la parte informativa e sociologica, in Leonid Fituni, I padrini della nazione. Il ruolo delle mafie nella crisi russa, trad. it., in AA. VV., Mafie e antimafia. Rapporto 96, a cura di Luciano Violante, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 7-32; e in Cesare Martinetti, Il padrino di Mosca. La scalata al potere della mafia nella nuova Russia, Feltrinelli, Milano 1995.