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La mafia russa

19 Febbraio 2017 - Autore: Domenico Airoma

di Domenico Airoma

 

Nel 1991, in occasione di un seminario internazionale del­l’O­NU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la delegazione russa descriveva la delinquenza organizzata operante in quel paese come costituita da «[…] comunità criminali stabili, che com­met­tono crimini a catena organizzandosi per sfuggire a ogni con­trollo sociale e che esistono soprattutto grazie a protettori cor­rot­ti». Dal 1992, il termine mafiya fa il suo ingresso nei docu­menti ufficiali della Federazione Russa per designare una cri­mi­nalità organizzata in clan — secondo il modello della «progeni­trice» siciliana — e fondata sui «comuni interessi di politici, uo­mini d’affari e gangster», come si esprime il sociologo Leonid Fituni, dell’Accademia delle Scienze russa.

Le origini della «mafiya»

«[…] la mafia russa risale agli anni Sessanta del secolo scorso, gli stessi anni in cui nasceva la mafia italiana. Come Giuseppe Garibaldi […] utilizzava giovani banditi siciliani per combattere contro i re Borboni, così i primi rivoluzionari russi si valevano dell’opera di malviventi per combattere lo zar.

«Tutto incominciò quando un personaggio della rivoluzione bolscevica […], Ni­cho­las Ishutin, inventò l’“Organizzazione” […]. Il suo braccio se­greto, chiamato “Inferno”, si dedicava a fomentare il disordine pubblico per mezzo di assassini, ricatti, rapine a mano armata e così via, realizzando per la prima volta l’associazione fra ter­ro­rismo e criminalità comune». In questi termini la giornalista sta­tunitense Claire Sterling (1918-1995) descrive le origini della mafia russa, ponendone in risalto il tratto più caratteristico e duraturo, ovvero il forte legame — che e­vol­verà in un rapporto di vera e propria identificazione, secondo il giudizio del gior­na­li­sta russo Arkadij Vaksberg — inter­cor­ren­te fra struttura cri­mi­na­le e sistema politico comunista, del quale la prima costituisce, al­meno inizialmente, strumento non se­con­da­rio nella strategia di aggressione della proprietà privata. Tale ori­ginaria specificità di interessi criminali, unita alla necessità — avvertita soprattutto durante l’epoca di stabilizzazione del re­gi­me comu­ni­sta a opera di Josif Visarionovic’ Dz’ugas’vili detto Sta­lin (1879-1953) — di dotarsi di un’organizzazione in grado di proteggere i propri membri e di trattare con i vertici politici, contribuisce, da un lato, a far etichettare i criminali russi con l’appellativo di «la­dri» e, dall’altro, a strutturare l’orga­niz­za­zio­ne — Organizatsja — secondo un rigido assetto verticistico e un severo codice di comportamento, scandito da pratiche rituali ed espresso con modalità simboliche. Michail Djomin (pseudonimo di Georgii Evgenevic’ Trifonov, 1926-1984), poeta ed ex «la­dro», parla della «vorovskoj mir», la «comunità dei la­dri», come di «una seria corporazione di istituzioni clandestine […] che ab­bracciavano l’intero complesso dello stato sovietico, sotto l’egida di un solo codice generale di comportamento valido dal­la baia della Finlandia alle sponde del mar del Giappone». La fedeltà all’«Organizzazione», il rispetto delle regole e della ge­rarchia, messo alla prova da delitti efferati e da lunghi periodi di carcerazione, determinano l’ascesa del criminale comune dalle «brigate» — comandate dal «gruppo di riserva» — al rango di vory v zakone, «ladri in legge», cioè ladri che riconoscono un si­stema di norme, élite di ogni clan, chiamata a gestire i rapporti con le istituzioni legali e con gli altri gruppi criminali nonché ad amministrare l’obshak, la cassa comune.

L’istituzionalizzazione della «mafiya» nel secondo dopoguerra

Il rapporto con il regime comunista — che, durante il periodo staliniano, tollerava lo sfruttamento di talune attività illegali come gioco d’azzardo, prostituzione e furti da parte dei ladri in cambio della loro collaborazione alla persecuzione degli op­po­si­tori politici — diventa istituzionale negli anni 1950, rag­giun­gen­do il culmine, rappresentato da una vera e propria osmosi fra no­menklatura e vertici mafiosi, durante il periodo di governo di Leonid Ilic’ Bre­z’nev (1906-1982). L’economia sommersa e la corruzione costi­tuiscono il terreno d’incontro fra mafiosi e capi comunisti. La penuria di merci, causata dalla pianificazione economica e ag­gravata dal secondo conflitto mondiale, trova nella mafiya, che nel frat­tempo ha avviato rapporti con le organizzazioni criminali in­ternazionali — il primo meeting si tiene a Leopoli nel 1950 —, un affidabile circuito di reperimento e di approvvigionamento di beni introvabili sul mercato legale. Si tratta di una «povertà così di­sperata da far perdere il senso del pudore e la dirittura mo­ra­le» — così si esprimerà il capo della polizia moscovita in un’in­ter­vi­sta al Washington Post del 26 febbraio 1991 — e da far sì che la korrupcija, la corruzione politico-amministrativa, divori lo Stato «da cima a fondo», secondo una dichiarazione di Boris Nico­lae­vic’ Eltsin. La mafiya — d’intesa con i vertici politici — rende i­stituzionale il meccanismo corruttivo mediante la creazione in ogni azienda di Stato di «reparti clandestini», cellule di produ­zione sottratte alle maglie del regime col­let­ti­vi­stico, capaci di a­limentare con regolarità un mercato sommerso stimato, nel 1990, in circa il 30% del PIL, il Prodotto Interno Lordo, con benefici ripartiti fra Organizatsja, rappresentanti del potere politico, della legge e dell’ordine. Sono questi gli anni in cui la mafia russa, pur mantenendo il tradizionale assetto ge­rar­chico e il riferimento al territorio e all’etnìa, si organizza in base al settore produttivo privilegiato — mafia del petrolio, del legno, dell’informatica, e così via —, accogliendo nelle proprie file molti esponenti della nomenkla­tu­ra sovietica, che formano il «gruppo di sicurezza», importante anello di congiunzione fra i «ladri in legge» e le isti­tuzioni.

La legalizzazione della «mafiya»

Nel 1985, con l’avvento al potere di Mikhail Sergeevic Gorba­ciov, molti considerano ormai venuta la fine del controllo ma­fio­so sull’economia; poiché «la mafia — osserva Vaksberg — […] è cresciuta con il si­ste­ma, ne è diventata parte integrante», quin­di — conclude il giornalista russo — «[…] può crollare uni­ca­mente con la caduta di tutto l’e­di­fi­cio, cioè del sistema me­de­si­mo». Invece, la Sterling fa no­tare che l’eliminazione del­l’ap­pa­ra­to partitico e la transizione al libero mercato consentono alla struttura mafiosa di «[…] com­piere un enorme balzo in avanti strategico: prima si limitava a nutrirsi a spese dell’economia, ora se ne sarebbe impadronita». E infatti — la considerazione è di Vaksberg —, «[…] senza attendere la legge sulla pri­va­tiz­zazione, la proprietà sta­tale si privatizza e si trasforma in capitale di partenza di banche, associazioni, so­cietà per azioni, società a responsabilità li­mi­ta­ta, aziende miste […]. Segretari di comitati regionali e cittadini del partito […] si trasformano in tutta fretta in presidenti e vice­presidenti di ogni genere di società, gli uomini d’apparato di­ventano manager». Le vendite delle imprese di Stato disposte da Eltsin trovano, per­tanto, quali unici acquirenti i clan mafiosi: secondo Fituni, «i voucher e gli altri titoli governativi che da­va­no il diritto ai pos­sessori di acquistare una quota di proprietà statale erano il generoso regalo dell’élite dirigente alla co­mu­ni­tà criminale. Era il momento del trionfo degli ex gangster; essi comprarono i vou­cher in gran quantità e diventarono rapi­da­mente i più ricchi del paese […]. La comunità criminale era pres­soché legalizzata». Ne prende atto lo stesso Eltsin, quando, nel 1992, ammette che «quasi i due terzi della struttura commer­cia­le della Russia» è in mano alla mafiya; tale condizione di oli­go­polio, rafforzata dallo scoraggiamento violento di ogni concor­renza, trae alimento an­che dal rapporto con gli imprenditori stra­nieri, i quali, dappri­ma investono ingenti capitali in joint-ven­tu­re con società locali, e poi vengono costretti a «cedere» l’at­ti­vi­tà al partner russo. In quello stesso periodo, e cioè negli anni dal 1990 al 1992, la ma­fia russa intensifica la penetrazione in Occi­dente, concludendo accordi con le principali organizzazioni criminali — mafia sici­liana, camorra napoletana, mafia turca e triadi cinesi —, nei cui confronti si pone ora come forza trai­nan­te, sia per l’im­pres­sionante giro d’affari — circa milleottocento miliardi di rubli all’anno — che per la disponibilità di armi e di compo­nenti nucleari che ex ufficiali dell’esercito sovietico hanno por­ta­to «in dote» all’«Organizzazione». Luciano Violante così com­men­ta l’escalation della mafia russa: «Oggi la Russia è diventata il centro strategico della criminalità organizzata mondiale. È lì che si decidono il riciclaggio del denaro sporco, la spartizione dei territori, e così via. Abbiamo le prove che il PCUS e il KGB hanno da molto tempo avuto relazioni con la mafia siciliana e che questi due organismi hanno messo in piedi la mafia so­vie­ti­ca, con la quale si sono confusi».

La crisi della «cupola» dei «ladri in legge» e la lotta fra le cosche per il dominio della Russia

L’espansione dei traffici illeciti dai tradizionali settori — gioco d’azzardo, contrabbando e prostituzione — a nuove e più lucrose attività — traffico di armi e di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, gestione di imprese e contraffazione di banconote e di titoli di credito —, unita a una generale «atrofizzazione di ogni senso morale» — l’espressione è del mafiologo russo Ghennadi Kho­khriakov — e a una «deregulation totale» seguita alla caduta del comunismo — secondo l’opinione del giornalista Cesare Marti­netti —, determina la crisi del codice di comportamento e, quindi, del vertice dell’«Organizzazione»; i ladri in legge, fino a quel momento arbitri indiscussi di ogni conflitto fra i vari clan — solo a Mosca se ne contano più di cento — vengono, anche fisicamente, eliminati. Si apre una sanguinosa guerra di mafia che porterà a un’impennata del numero di omicidi nel 1995: ben ventinovemila, di cui cinquecentosessanta su commissione. Le ragioni della contesa sono, da un lato, l’accaparramento delle zone d’influenza interne lasciate libere a seguito del ridimen­sio­namento della potente cosca cecena e, dall’altro, il controllo dei traffici internazionali, soprattutto con gli Stati Uniti d’America, dopo l’arresto — avvenuto nello stesso 1995 — del padrino di Little Odessa, Vjacheslav Ivankov. L’effetto del conflitto è l’af­fermarsi — il giudizio è dello scrit­to­re dissidente russo Ale­k­sandr Isaevic’ Solz’enicyn ed è stato espresso nel 1996 — di una nuo­va «oligarchia» criminal-finanziaria, «[…] costituita da 150-200 per­so­ne, che gesti­scono il destino del paese».

Critica

Nata con la rivoluzione socialista, «fiorita — secondo la Ster­ling — sotto il governo comunista», del quale — al dire di Vak­sberg — ha costituito «sviluppo naturale» e — per Khro­khria­kov — «eredità», la mafiya rappresenta oggi in Russia la strut­tu­ra socio-economica dominante: «Mafioso — scrive Mar­ti­netti — è il modello so­ciale vincente nella Mosca che fibrilla di business e di affari. […] mafia è ormai quasi una condizione atmosferica […], che do­mina le relazioni sociali […].

«Mafia è diventato il quotidiano più quo­ti­dia­no». Ma la si­gno­ria della mafiya non si li­mita al territorio russo; negli ultimi anni essa ha dato di­mo­stra­zione di essere penetrata massicciamente, sia attraverso i circuiti bancari e finanziari che mediante i canali dei traffici illeciti, nel­le economie e nelle società dei paesi ex comunisti dell’Est e del­l’intero Occidente, ponendosi come va­riabile indipendente «a crescita esponenziale» — secondo una notazione di Giovanni Falcone (1939-1993) del 1992 — della scena criminale e politica interna­zionale.

Domenico Airoma


Per approfondire: vedi la parte storica, in Arkadij Vaksberg, La mafia sovietica, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 1992; e in Claire Sterling, Un mondo di ladri. Le nuove frontiere della cri­minalità internazionale, trad. it., Mondadori, Milano 1994; la parte informativa e sociologica, in Leonid Fituni, I padrini della na­zione. Il ruolo del­le mafie nella crisi russa, trad. it., in AA. VV., Mafie e antimafia. Rapporto 96, a cura di Luciano Vio­lan­te, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 7-32; e in Cesare Martinetti, Il padrino di Mosca. La scalata al potere della mafia nella nuova Russia, Feltrinelli, Milano 1995.

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