Qualche anno fa una mamma ha scritto questa lettera dal tono decisamente semiserio, ma piena di gratitudine vera, allo staff di educatori del campeggio elementari che aveva accompagnato per 5 anni la sua prima bimba, mentre la sorellina più piccola faceva il suo primo ingresso
Cari educatori, care educatrici,
sono una vostra collega, perché io c’ero al primo campeggio: quello remotissimo su “Giuseppe e i suoi fratelli”, la cui memoria si perde nella notte dei tempi.
Si può dire che abbia imparato a cucinare lì, pelando e friggendo patate in cucina sotto l’attenta supervisione della mia amica Stefania. Infatti, anni dopo, appena sposata, ho provveduto a fare al più presto il maggior numero di figli possibile, perché cucinare per due mi disorientava, mentre sulle quantità industriali ero ferratissima. Tuttora affronto senza tremare orde di ospiti, anche a sorpresa, ma una cenetta speciale a due per il consorte mi mette nella crisi più nera.
Comunque, ormai è siderale la distanza che ci separa: qualcuno di voi lo ricordo quando era piccolo; molti non li conosco, oppure, ahimè, non li riconosco.
Quest’anno la mia figlia più grande fa il suo ultimo campeggio elementari, la mia figlia più piccola fa il suo primo ingresso. E tanto basterebbe per fare un monumento a voi audaci, che mi regalate una settimana no-kids. Potrei descrivervi la gioia incontenibile che mi prende, al pensiero di mettere i piedi su un tavolino per sette giorni, sfamando il marito con una fetta di prosciutto e una birra ogni tanto, senza nessuno sotto i 10 anni che latra, si azzuffa o pone impervi quesiti teologici nel momento meno opportuno. Per questo vi ringrazio subito, è un servizio così grande che rendete a due sistemi nervosi compromessi.
Ma non è questo il punto. In realtà, questa lettera voglio scriverla da 5 anni, con esattezza da quei miei primi 5 minuti come “mamma del campeggio”, quando – posato il sacco a pelo in camerata – un’educatrice ha preso per mano mia figlia seienne e ha detto: «adesso andiamo in cappella a ringraziare Gesù». Vi assicuro che in quel momento io mi sono sentita aiutata, come mai prima, e mi sono permessa di essere felice e di sperare.
Educare i figli, in realtà, è tutta una questione di speranza: speri di fare del tuo meglio, speri di indicargli la meta giusta e la strada migliore per arrivarci; speri che ti ascoltino, speri che capiscano, speri che non si lascino tentare e distrarre. Speri, ma sai che sei tu per primo quello difettoso, e che quello che il mondo offrirà loro sarà troppo spesso merce avariata sotto un’apparenza gustosa. Soprattutto sai che anche loro avranno il dono tremendo della libertà, e starà solo a loro giocarselo.
Ma quella volta, 5 anni fa, per la prima volta, io ho sentito il conforto e la leggerezza di poter dire: “qualcuno mi sta aiutando davvero; quella ragazza sta portando mia figlia da Gesù”. Ho allentato un po’ la presa sul coltello stretto tra i denti e ho pensato: “ok, forse ce la facciamo”.
Devo dirvi grazie, quindi, da 5 anni a questa parte, e sono stati 5 anni tutti così, come quei primi 5 minuti. A chi di voi è al tremillesimo campeggio, a chi è al primo: grazie! E soprattutto: andate avanti!
Forse, come era per me ai tempi, gli educatori vengono al campeggio per stare con gli amici, oppure per trovare una fidanzata. Forse vi dileguate quando è il turno di lavare i bagni. Forse l’ultimo giorno maledite la stanchezza che vi ha ridotto a uno stato larvale e dite: “mai più” .
Forse non vi rendete veramente conto del dono che siete. Ma siete indispensabili. State mostrando ai nostri figli che intorno alla loro famiglia, che va faticosamente controvento in un mondo sempre più contrario a ciò che è Vero, Buono e Bello, non c’è il deserto, ma una grande carovana che va nella stessa direzione.
Sono sicura che, così, i ragazzi non vorranno tornare più indietro, invertire la marcia; se non, forse, per poco, ma poi qualcuno se li riprenderà “a cammello”, e avanti.
Giovedì, 2 giugno 2022