
di Francesco Pappalardo
1. Il carattere oggettivamente straordinario della Rivoluzione francese, vera e propria cesura con il passato, è stato individuato già dai contemporanei, molti dei quali per interpretarla sono ricorsi a categorie teologiche e apocalittiche. La prima testimonianza critica dell’avvenimento si deve al pensatore e uomo politico anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797), il quale già nel 1790, nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, da un certo punto di vista un instant book, osserva che la Rivoluzione aveva voluto distruggere un ordine politico e sociale pluri-secolare, e ne condanna l’astrattezza dei princìpi e la volontà di rottura radicale con la tradizione.
Fra gli autori contro-rivoluzionari il conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) legge la Rivoluzione principalmente come un grande attacco contro la Chiesa e, dunque, contro Dio, e come castigo divino per i peccati di un mondo corrotto in molte delle sue élite.
Altri, di fronte alla novità del fenomeno, elaborano la cosiddetta «teoria del complotto», secondo la quale la Rivoluzione francese era il frutto di una congiura ordita dal giansenismo, dalla massoneria e da altre sètte, come quella degli Illuminati di Baviera. Peraltro, storici moderni confermano l’autenticità della documentazione fornita dal primo propugnatore di questa teoria, il gesuita francese Augustin Barruel (1741-1820). La «tesi del complotto» è approfondita soprattutto da studiosi cattolici d’Oltralpe, come lo storico Jacques Crétineau-Jo1y (1803-1875), il gesuita Nicolas Deschamps (1797-1873) e monsignor Henri Delassus (1836-1921), che, agli inizi del secolo XX, offre un compendio dei risultati a cui è pervenuta la storiografia contro-rivoluzionaria.
2. Gli storici liberali della Restaurazione, che tentano di conciliare le nuove idee democratiche con i princìpi della tradizione monarchica, fanno propria la «teoria delle due rivoluzioni», cioè la distinzione — delineata dallo scrittore Benjamin Constant (1767-1830) e da Germaine Necker (1766-1817), futura baronessa de Staël — tra una fase liberale, dal 1789 al 1791, e una «giacobina», segnata dal Terrore, che apre la strada alla tirannide napoleonica. Lo storico Augustin Thierry(1795-1856)eil politico François Guizot(1787-1874) condannano, quindi, quella che considerano la degenerazione «giacobina», pur dando un giudizio complessivamente positivo su quella svolta epocale. Questo schema viene ripreso e approfondito da Adolphe Thiers (1797-1877), futuro presidente della Repubblica, che individua nella Costituzione monarchica del 1791 la punta più avanzata della Rivoluzione.
Rispetto a questo gruppo di storici, legato a una concezione della Rivoluzione come atto traumatico, vi è un altro filone, fondato su una lettura «continuistica». A inaugurarlo è lo storico e uomo politico Alexis Henri Charles de Clérel, visconte di Tocqueville (1805-1859), il quale nel suo L’Antico regime e la Rivoluzione, del 1856, afferma che la Rivoluzione ha proseguito il processo accentratore e assolutistico avviato alcuni secoli prima dalla monarchia di Antico Regime contro la nobiltà feudale e portato a compimento da Napoleone Bonaparte (1769-1821).
3. Il testo di riferimento dell’epoca sarà, però, la Storia della Rivoluzione francese di Jules Michelet (1798-1874), pubblicata fra il 1847 e il 1853, in cui lo storico francese interpreta la Rivoluzione come un fenomeno alternativo al cristianesimo e affida al «popolo» il ruolo di protagonista, convinto che esso non possa sbagliare, in quanto vero interprete dei mutamenti storici.
Contro questa interpretazione interviene Hippolyte Taine (1828-1893) — uno dei principali fautori del positivismo sociologico, discepolo di Auguste Comte (1798-1857) —, che nel suo Origini della Francia contemporanea, del 1876, insiste sulle atrocità delle folle rivoluzionarie fino dalla presa della Bastiglia e vede nella Rivoluzione l’origine di una degenerazione delle istituzioni francesi. È una critica «da sinistra», che mette in rilievo alcuni aspetti non secondari della Rivoluzione, ma ne misconosce la natura anti-religiosa e non comprende che la Contro-Rivoluzione richiede un ritorno personale e sociale alla religione.
Agli inizi del secolo XX la tesi di Taine viene approfondita dal giovane studioso Augustin Cochin(1876-1916), cattolico e legittimista, morto nella prima guerra mondiale, la cui Meccanica della Rivoluzione — pubblicata postuma nel 1921 e rivalutata decenni più tardi da François Furet (1927-1997) — offre una descrizione dettagliata della «macchina» instaurata dalle «società di pensiero», mettendo in luce il progressivo lavoro di «orientamento» dell’opinione pubblica operato da parte dei club, soprattutto quello dei «giacobini». Al ruolo dell’illuminismo democratico-radicale, soprattutto del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), e del giacobinismo nel passaggio dalla democrazia liberale a quella totalitaria, imposta attraverso la mitica volontà generale, sarà dedicato il saggio di Jacob Leib Talmon (1916-1980) Le origini della democrazia totalitaria, del 1952, dove l’accento viene posto sull’eliminazione di tutte le organizzazioni intermedie fra l’uomo e lo Stato, il cui potere tende così a diventare illimitato.
Sul piano della ricostruzione dei fatti la lezione di Taine e di Cochin verrà ripresa da Pierre Gaxotte(1895-1982), il cui compendio La Rivoluzione francese — la prima edizione è del 1928, ma nel 1970 ne uscirà un’altra ampiamente rivista —, oltre a costituire un grande successo editoriale, rappresenta un’ottima guida per comprendere lo svolgimento delle varie fasi del fenomeno rivoluzionario.
4. Contro la veemente critica di Taine alla Rivoluzione si mobilita la cultura laico-democratica della Terza Repubblica, a partire da François-Victor-Alphonse Aulard (1849-1928), che terrà per quasi quarant’anni la cattedra di Storia della Rivoluzione, creata nel 1885 presso la Facoltà di lettere della Sorbona di Parigi, e da Jean Jaurès (1859-1914), autore nel 1901 di una Storia socialista della Rivoluzione francese. Mentre Aulard vuol dimostrare che la violenza del Terrore è stata determinata soprattutto dalle circostanze, in particolare dalla guerra contro l’Austria e contro la Prussia, Jaurès, seguendo un’impostazione marxista, ritiene che la Rivoluzione — nata a suo avviso dal contrasto fra la potenza economica della classe borghese e la sua esclusione dalla vita politica — sia stata guidata dalla borghesia, ma abbia anche liberato nuove forze sociali, favorendo lo sviluppo del proletariato. Viene inaugurata, così, una tradizione storiografica di orientamento «giacobino» che nei decenni successivi sarà consolidata da Albert Mathiéz (1874-1932), allievo di Aulard, che vede nella Rivoluzione il momento di passaggio dal modo di produzione definito «feudale» a quello «capitalistico». Con Georges Lefebvre (1874-1959), discepolo di Mathiez, la storiografia rivoluzionaria si apre alla storia delle campagne, sempre in un’ottica marxista, rinvigorendosi con gli storici succedutisi alla cattedra di Storia della Rivoluzione, soprattutto gli allievi di Lefebvre, i francesi Albert Soboul(1914-1982) e Michel Vovelle (1933-2018), e i britannici Georges Rudé 1910-1993) e Richard Cobb (1917-1996).
5. Sulla scia di Tocqueville nasce il «revisionismo» del secolo XX, inaugurato dallo storico inglese Alfred Cobban (1901-1968), che considera un «mito storiografico» la lettura della Rivoluzione come vittoria della borghesia sulla nobiltà, contestando in particolare le definizioni della borghesia rivoluzionaria e del «feudalismo», assai lontana nella realtà dalla teoria marxista e quasi inesistenti alla viglia del 1789. Ancora più approfondita è l’interpretazione di Furet, un ex comunista che si è considerato sempre un uomo di sinistra, il quale nella sua Critica della Rivoluzione francese, del 1978, oltre a ribadire la linea continuista di Tocqueville, nega la possibilità di guardare agli eventi rivoluzionari secondo una matrice economicistica e critica il «discorso rivoluzionario», cioè l’ideologia che porta agli anni del Terrore. Le tragiche conseguenze di questa ideologia sono state studiate da Reynald Secher — un giovane e accademicamente perseguitato storico bretone — in relazione alla feroce repressione della rivolta della Vandea e di quello che è stato da lui definito Il genocidio vandeano sulla base di una documentazione ricca e inattaccabile, perché tutta di parte rivoluzionaria. Il suo lavoro, che conferma la tesi generale di Jean Dumont (1923-2001) sul carattere anzitutto anti-cristiano della Rivoluzione di Francia, reca la presentazione dello storico calvinista Pierre Chaunu (1923-2009), che ha contribuito a smontare l’interpretazione marxista, cioè economicistica, della Rivoluzione.
6. Come ogni avvenimento storico, la Rivoluzione francese non nasce dal nulla, ma rappresenta l’esito di processi politici e culturali di lungo periodo. Anche l’affermazione dei concetti rivoluzionari che nel 1789 fanno la loro comparsa nel discorso politico europeo può essere considerata come il punto di arrivo di lunghe trasformazioni linguistiche e concettuali, maturate soprattutto nei salotti del secolo dei Lumi, che costituiscono un arsenale ideologico al servizio del progetto rivoluzionario, come ha mostrato in particolare lo storico delle idee Bernard Groethuysen (1880-1946). Un progetto di rivoluzione nasce senz’altro in circoli di natura illuministica e anche massonica e, una volta avviato — grazie anche al dinamismo delle «società di pensiero» studiato da Cochin — presenta una serie di aspetti «meccanici». Tuttavia, si tratta di una mecca-nica che ha un orientamento «filosofico», maturato in circoli settari, e un significato che può essere compreso nella sua profondità solo facendo riferimento a categorie teologiche, secondo la lezione di Joseph de Maistre.
La Rivoluzione rappresenta senza dubbio una brusca rottura con il passato, ma nella sua struttura profonda rende permanenti le innovazioni introdotte nel tardo «antico regime», anzitutto in tema di burocrazia, unificazione giuridica, limitazione delle autonomie locali e del ruolo dei parlamenti tradizionali, aumento della fiscalità sempre meno subordinato all’approvazione dei soggetti su cui grava, controllo dello Stato sulla Chiesa. Nella notte del 4 agosto 1789 viene abolito il cosiddetto «regime feudale» che — pur ampiamente mutato nel tempo — era caratterizzato dalla rilevanza del rapporto personale e della famiglia, intesa come cellula fondamentale della società. Con la soppressione della società degli ordini la persona entra in contatto con il potere statale direttamente e non più come membro di una famiglia, di una corporazione, di un ceto, cioè in una forma mediata dall’appartenenza a queste realtà. Lo Stato rivendica apertamente il diritto di esercitare la propria autorità in modo uniforme su tutti i sudditi, ridisegnare liberamente il proprio territorio e ridimensionare ogni altro soggetto politico e giuridico. Da allora avrà il monopolio della forza e della produzione delle norme giuridiche, subordinando ogni potere pubblico alla legge, eliminando tutti i centri che rivendicano funzioni politiche autonome e separandosi dalla società, ormai spoliticizzata e ridotta a un insieme d’individui amministrati.
Martedì, 18 gennaio 2025
Per approfondire
Giovanni Cantoni, La Rivoluzione francese nel processo rivoluzionario,e Idem, L’abolizione del “regime feudale” come specifico politico della Rivoluzione francese, in Idem, Saggi sulla Rivoluzione e sulla nazione, a cura di Oscar Sanguinetti, Cristianità, Piacenza 2023, pp. 17-40 e 41-48.
Augustin Cochin, Meccanica della Rivoluzione, trad. it.,Oaks Editrice, Sesto San Giovanni (Milano) 2020,e Idem, Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, trad. it., Bompiani, Milano 2001.
Massimo Introvigne, La Rivoluzione francese: verso una interpretazione teologica?, in Quaderni di Cristianità, anno I, n. 2, estate 1985, pp. 3-25.