ERMANNO PAVESI, Cristianità n. 56 (1979)
Un destino quasi comune caratterizza la diffusione delle teorie scientifiche: tranne poche eccezioni, esse sono state accolte, per lo più, con indifferenza, tra critiche e incomprensioni. Una di queste eccezioni, forse la più problematica, è rappresentata dalla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin.
Darwin ha incontrato senz’altro anche numerosi critici, ma il favore e il fanatisimo con cui le sue teorie sono state accettate, diffuse e difese fin dall’inizio da vasti ambienti scientifici, hanno, per lo meno, dello straordinario. Un giudizio sulla scientificità delle “dimostrazioni” dell’evoluzionismo lo lascio a un convinto evoluzionista quale Giuseppe Montalenti, quando cerca di spiegare le cause dello scetticismo verso la teoria dell’evoluzione: “Un primo ordine di cause è inerente alla difficoltà stessa del problema, alla impossibilità pratica di raccogliere prove assolutamente esaurienti e decisive, di costruire alberi genealogici completi e privi di lacune. Torneremo a discutere criticamente questo argomento: per ora basti riconoscerne l’esistenza e ricordare come, di fronte al facile ottimismo di chi pretendeva di spacciare lunghi e complessi alberi genealogici come verità scientificamente dimostrata, fu facile impresa ai critici dimostrarne l’inconsistenza. Dimostrare cioè che molte, troppe difficoltà venivano superate con voli di fantasia, anziché con seria documentazione scientifica” (1). E il giudizio di Montalenti non è meno severo nei confronti di uno dei primi sostenitori del darwinismo in Germania, il famoso Haeckel: “infiammato di polemico ardore e inspirato da una fede cieca nella validità delle dottrine scientifiche unita ad una fantasia da romanziere, s’illuse di poter tracciare le più ardite e complete genealogie, dalla “monera” all’uomo, superando le lacune e le difficoltà con arditi voli, inventando addirittura nuovi organismi, come appunto le “momere”, là dove non esistevano le forme che gli avrebbero fatto comodo” (2).
Con il passare degli anni il fanatismo degli evoluzionisti non è diminuito: di generazione in generazione le vecchie “dimostrazioni dell’evoluzionismo” sono state riconosciute come voli di fantasia e sostituite da nuove “dimostrazioni”, senza che la fede nella assoluta validità dell’evoluzionismo ne venisse minimamente scalfita. Si deve anche sottolineare il disagio degli scienziati evoluzionisti a riconoscere che altri uomini di scienza mettano in dubbio la validità scientifica dell’evoluzione. Montalenti relega questi episodi nel passato: “Sul finire del secolo scorso e nei primi decenni del presente, si registra infatti un cambiamento di tono nei riguardi dell’evoluzionismo: molti biologi si esprimono in termini piuttosto scettici sul valore della teoria e delle “prove” su cui essa si fonda” (3). Ma questa fase di “sfiducia e di stanchezza” è per Montalenti ormai superata: la scienza moderna non avrebbe più dubbi al riguardo. Un atteggiamento critico nei confronti dell’evoluzionismo è per lui un “pregiudizio”, alimentato da ambienti estranei al mondo della scienza: “I sentimentalismi antievoluzionistici, la repugnanza per la genealogia animalesca dell’uomo e la preferenza per la sua derivazione da esseri spiritualmente superiori, le concezioni religiose che postulano l’esistenza di un’anima immortale, le filosofie a base idealistica, che sostituiscono ad un monismo materialistico un monismo spiritualistico, o per lo meno dichiarano la totale predominanza dello spirito sulla materia, si coalizzarono contro il materialismo, il positivismo, il naturalismo, e, nella specie, contro la dottrina evoluzionistica. […]
“Così, da una parte le difficoltà intrinseche nel problema […], e dall’altra l’ostilità dichiarata della filosofia tradizionalistica e del risorgente idealismo, crearono un’atmosfera di scetticismo, dalla quale ancor oggi molti ambienti sono inquinati” (4). La tesi di Montalenti può essere così sintetizzata: la scienza dà per scontata l’evoluzione; se ci sono state defezioni in ambiente scientifico, queste risalgono al passato; se ci sono ancora oggi ambienti scettici nei confronti dell’evoluzione, si tratta di “inquinamento” tradizionalistico o idealistico. Questa interpretazione è accettata dalla intellighentsia scientifica. A tutti i livelli: accademico, scolastico e divulgativo, si incontra un atteggiamento analogo. Ma viene completamente taciuto che ancora oggi, e oggi forse più che in passato, qualificati scienziati di varie discipline sono convinti proprio del contrario, e cioè che le teorie evoluzioniste non solo non sono dimostrate, ma spesso contraddicono le nostre conoscenze scientifiche. Solo l’ostracismo a livello accademico, la ossequiente accondiscendenza verso i potenti della scienza da parte della fascia intermedia della divulgazione scientifica e il “silenzio stampa” hanno creato il mito dell’evoluzionismo.
Questa cortina di silenzio, quasi perfetta, non può impedire, almeno nei paesi occidentali, che qualificate voci si levino a smascherare l’inganno. Tra i più attivi demitizzatori dell’evoluzionismo deve essere annoverato A. Ernst Wilder Smith. La sua qualificazione come uomo di scienza e di cultura è al di sopra di ogni discussione. Come docente universitario ha avuto cattedre di farmacologia in numerose università europee, asiatiche e americane. Per la sua alta qualificazione gli sono stati affidati anche importanti incarichi al di fuori dell’ambiente accademico: per dieci anni ha diretto il settore ricerche di una industria farmaceutica svizzera ed è stato consigliere delle truppe americane della NATO in Europa per il problema della droga.
La teoria dell’evoluzione è una teoria estremamente complessa che deve spiegare tutta una serie di fenomeni, dalla comparsa della vita sulla terra fino all’uomo. Wilder Smith ha affrontato in numerosi libri e pubblicazioni molti di questi problemi, ma le dimensioni di un articolo consentono appena di accennare a qualcuna delle argomentazioni portate dall’autore contro la teoria dell’evoluzione.
Origine della vita
“La vita è […] oggi costituita da un sistema binario in cui l’informazione è contenuta negli acidi nucleici che la trasmettono alle proteine; queste a loro volta esplicano tutte le funzioni in seno all’organismo, compresa quella di ricostruire, al momento della riproduzione, gli acidi nucleici rispettando la loro struttura” (5).
L’informazione per la vita è contenuta in acidi nucleici che per la teoria dell’evoluzione si sarebbero formati per puro caso. Wilder Smith critica questa ipotesi basandosi sulle moderne teorie dell’informazione. Le sue argomentazioni sono spesso complicate e presuppongono conoscenze specifiche. Alcuni esempi, però, sono significativi e facili da comprendere.
Battendo a caso sulla tastiera di una macchina da scrivere è possibile che a un certo punto venga scritta una parola che abbia un senso, per esempio “pani“. A questo punto si potrebbe andare in visibilio per il fatto che il caso ha creato informazione. Ma se all’esperimento fossero presenti stranieri che non conoscono l’italiano, questi rimarrebbero perplessi, perché per loro la parola “pani” non significa assolutamente nulla. Però, se vi fosse un polacco, anche questo potrebbe essere stupefatto dall’esperimento, giacché “pani” in polacco significa “signora“. Questo esempio mostra chiaramente come la trasmissione di una informazione necessiti di un codice e di una convenzione preesistenti. La successione degli acidi nucleici fornisce il substrato all’informazione, così come la successione delle lettere fornisce il substrato alla parola, però il significato della parola dipende da un codice, e a seconda del codice una sequenza può non avere alcun significato oppure averne anche di differenti.
Inoltre, è necessaria anche l’esistenza di un sistema capace di leggere, interpretare ed eventualmente mettere in pratica le informazioni codificate nella sequenza degli acidi nucleici, cioè “una relazione fra acidi nucleici e la formazione di proteine specifiche. Purtroppo a questo punto non è facile trovare una soluzione al problema” (6), come è costretto ad ammettere un convinto evoluzionista.
Un postulato dell’evoluzione è costituito dalla mutazione: cioè, da errori di trascrizione del patrimonio genetico delle cellule si avrebbe, in alcuni casi, la formazione di esseri viventi, che meglio si adattano all’ambiente di quelli originari. Anche questa concezione contraddice – secondo Wilder Smith – le attuali teorie dell’informazione, secondo cui da un errore della trasmissione di una informazione scaturirebbe un aumento dell’informazione.
È come ammettere che, facendo copiare infinite volte lo schema di una radio, venga commessa una serie di errori. Le radio costruite in base a questi schemi “mutati” sarebbero in alcuni casi addirittura migliori di quelle costruite secondo lo schema originale e avrebbero maggiore successo sul mercato (selezione). Da una serie di errori di copiatura (mutazioni) e dalla situazione di mercato (selezione) si svilupperebbero radio sempre più complesse, e, ovviamente dopo un congruo numero di sbagli, ne uscirebbe addirittura un televisore!
Proteine utilizzabili per strutture viventi non si possono formare per caso
Le proteine sono grosse molecole formate da lunghe catene di aminoacidi. Queste catene non sono casuali, ma la sequenza degli aminoacidi, la lunghezza e la forma sono del tutto specifiche e conferiscono individualità a ogni essere o specie vivente.
Secondo la teoria evoluzionista, sulla terra si sarebbero formati per caso aminoacidi, che si sarebbero accumulati in soluzione nell’oceano, e dalla sintesi casuale di più aminoacidi si sarebbero formate le prime proteine.
Aminoacidi si possono formare spontaneamente in natura in particolari condizioni e si può senz’altro ammettere che si siano formati sulla terra prima della comparsa di esseri viventi. Però, qui sorge una difficoltà: gli aminoacidi hanno strutture tridimensionali, che hanno come centro un atomo di carbonio. Di ogni aminoacido esistono due forme simmetriche che, in base a particolari caratteristiche, vengono definite destro o levogire. Queste forme simmetriche hanno, in parte, le stesse caratteristiche; però, in certe reazioni o strutture, è utilizzabile solo l’una o l’altra forma. Gli aminoacidi che si formano spontaneamente sono per il 50% destrogiri e per il 50% levogiri, mentre le catene proteiche degli esseri viventi utilizzano esclusivamente forme levogire. Questo fatto costituisce una grande difficoltà per la teoria dell’evoluzione: le proteine sono costituite da decine e centinaia di aminoacidi, ed è sufficiente l’inserimento di un solo aminoacido destrogiro per rendere la catena proteica inutilizzabile per la vita! Come si può pretendere che, in una soluzione contenente in pari quantità forme destro e levogire, si formino per sintesi casuale
catene di soli aminoacidi levogiri? Gli evoluzionisti hanno finora cercato invano di dare una risposta soddisfacente a questo quesito. Per quanto riguarda, poi, la sintesi delle catene proteiche, vi è un’altra difficoltà. Le reazioni chimiche non avvengono a caso, ma sono soggette a una serie di leggi: una di queste è la legge di azione di massa. Se dalla reazione A+B si originano le sostanze C e D, la reazione può andare anche in senso inverso, cioè da C+D si possono formare A e B. La direzione della reazione, o il suo equilibrio, dipende da una serie di fattori. Nel caso della sintesi di due aminoacidi si ha la produzione di una molecola di acqua: se dal sistema ove avviene la reazione si toglie acqua, la reazione di sintesi viene facilitata; se
invece nel sistema è presente molta acqua, gli aminoacidi tenderanno a rimanere in soluzione. Ma dove vi è più acqua che nell’oceano? Eppure gli evoluzionisti ammettono che la sintesi delle grosse molecole proteiche sia avvenuta proprio nell’oceano, nonostante la legge di azione di massa. E Wilder Smith può affermare che “quasi l’ultimo posto su questo pianeta, dove le proteine della vita si potrebbero formare spontaneamente da aminoacidi è proprio l’oceano. Eppure quasi tutti i manuali di biologia insegnano questo errore, per giustificare la teoria dell’evoluzione e la biogenesi spontanea. Si deve conoscere molto male la chimica organica, o ignorarla di proposito, per non prendere in considerazione i fatti accennati” (7).
Vi sono organi e organismi che non possono essere assolutamente considerati come risultato di una evoluzione
Mutazioni e selezioni sarebbero alla base dell’evoluzione. Però in natura si trovano in continuazione ostacoli insormontabili. Wilder Smith porta come esempio l’allattamento dei mammiferi acquatici: l’allattamento nell’acqua comporta una situazione completamente differente da quella sulla terra. Nell’acqua è necessario succhiare o ricevere il latte senza aspirare acqua! Ci troviamo in questo caso di fronte a una situazione chiara: gli organi o sono fin dall’inizio perfettamente adatti allo scopo, e allora l’allattamento può avvenire anche nell’acqua, o non lo sono, ma ciò significa la morte dell’individuo. In questo caso, come in numerosi altri, il modello di una lenta evoluzione, di una lenta trasformazione, è completamente inadeguato.
Un altro esempio è costituito dagli organismi termofili, cioè quegli organismi che vivono tra i 60° e i 100° C. Gli organismi termofili trovano le migliori condizioni di vita, di sviluppo e di riproduzione a temperature che per altri organismi sono letali, cioè a temperature che denaturano le proteine di altri organismi. L’evoluzione non può spiegare la comparsa di tali organismi. La termofilia non dipende da un solo gene, ma da più geni, in quanto sono numerose le strutture proteiche che devono essere adatte a temperature superiori a quelle dei cosiddetti mesofili, per cui non è possibile ammettere la comparsa di tale carattere con la mutazione di un solo gene. Inoltre, non è neanche possibile una lenta evoluzione di organismi sempre più resistenti al calore, in quanto questi organismi possono svilupparsi solamente a temperature elevate. Anche nel caso degli organismi termofili ci troviamo di fronte a organismi perfettamente adattati a condizioni di vita molto particolari, per i quali è impossibile ammettere l’esistenza di forme intermedie. Anche in campo evoluzionista viene riconosciuta una tale difficoltà: “Aumentare quindi nell’evoluzione la temperatura cui può vivere un organismo vuol dire aumentare la resistenza al calore di tutte le proteine contemporaneamente, perché aumentare la stabilità alla temperatura di una singola specie molecolare è perfettamente inutile. In teoria servono quindi numerosissime mutazioni contemporanee, il che è praticamente impossibile” (8). Questo ordine di difficoltà è stato ben sintetizzato da Morpurgo: “Come ha fatto il processo di selezione naturale a portare alla formazione di una funzione che nel suo stato finale è utile o indispensabile, ma nei suoi stati intermedi è inutile o dannosa” (9)?
Datazione
L’evoluzione per mutazione e selezione, considerata anche dal punto di vista statistico, è talmente inverosimile che i teorici dell’evoluzione si sono visti costretti a dilatare quasi all’infinito la dimensione tempo, ammettendo periodi sempre più lunghi per lo sviluppo della vita sulla terra, come se con questo espediente si potesse rendere possibile l’impossibile!
Per molto tempo gli evoluzionisti si sono serviti, per la datazione di rocce e di fossili, di un metodo assolutamente inattendibile: assegnata, in modo del tutto arbitrario, una determinata età a un certo fossile, questo consentiva di datare le rocce che lo contenevano; a sua volta l’età delle rocce, stabilita con il metodo accennato, serviva a determinare l’età di altri fossili. Lo stesso Montalenti ammette la scarsa scientificità di questo metodo: “Nel determinare l’età delle rocce ci si dibatté per lungo tempo in un circolo vizioso” (10).
Particolarmente adatti per questo metodo sembravano essere i fossili di animali estinti o ritenuti tali. Questo è stato il caso della latimeria, una specie di pesce ritenuto estinto circa 300 milioni di anni fa. Nella datazione delle rocce, tutte quelle contenenti latimerie fossili venivano considerate vecchie per lo meno di 300 milioni di anni. Recentemente, però, sono stati pescati, al largo delle coste del Madagascar, esemplari viventi di latimeria. Perciò, tutte le datazioni effettuate sulla base di fossili di latimeria sono prive di valore.
Ma esistono altri esempi che non solo mettono in dubbio la validità di questo metodo, ma fanno vacillare addirittura tutta la teoria dell’evoluzione. Secondo gli alberi genealogici costruiti dagli evoluzionisti, i dinosauri si sarebbero estinti da almeno 70 milioni di anni, mentre i primi uomini sarebbero comparsi al più presto un paio di milioni di anni fa. Tra l’estinzione dei dinosauri e la comparsa dell’uomo vi sarebbe, quindi, un intervallo di circa 70 milioni di anni, per cui dovrebbe essere stato impossibile che un uomo e un dinosauro si siano mai incontrati.
Qualche anno fa è stata fatta una interessante scoperta nel letto di un fiume del Texas, il Paluxy River: in una formazione di gesso si trovano impronte, estremamente nitide, di brontosauro e di uomo. L’unica spiegazione possibile è che il brontosauro e l’essere umano, che hanno lasciato quelle impronte, siano stati contemporanei. Infatti, se il gesso si fosse solidificato dopo avere ricevuto le impronte di brontosauro e fosse diventato di nuovo molle dopo 70 milioni di anni, le impronte di brontosauro sarebbero andate perdute (11). Quello del Paluxy River è senz’altro uno dei più significativi, ma non è l’unico esempio di tale genere. Non sono rari i ritrovamenti di tracce umane in strati geologici che dovrebbero risalire a periodi molto anteriori alla comparsa dell’uomo sulla terra. Ma la scienza ufficiale ignora tali ritrovamenti.
Per sopperire ai limiti della datazione con i fossili, si è utilizzata la tecnica degli isotopi radioattivi e soprattutto del C14, isotopo radioattivo del carbonio. Nell’aria è presente una certa quantità di C14, che entra nell’organismo tramite la respirazione e viene utilizzato per costruire i tessuti. Dopo la morte, con la cessazione della respirazione, cessa anche l’assunzione di nuovo C14, mentre quello presente nei tessuti si trasforma in carbonio non radioattivo con una velocità conosciuta. Conoscendo la concentrazione di C14 nei tessuti al momento della morte di un organismo e potendo misurare quanto ne è ancora presente, è possibile calcolare con una certa approssimazione l’età del fossile. Wilder Smith mette in dubbio la validità dei risultati ottenuti con questa tecnica, che presuppone la costanza del C14 nell’aria e quindi nei tessuti. Secondo Wilder Smith questo è falso. Il C14 si forma dal bombardamento di atomi di azoto da parte di raggi cosmici. La intensità di tale bombardamento, e quindi la concentrazione del C14, dipende dal campo magnetico terrestre: quanto maggiore è il campo magnetico, tanto minore è la quantità di raggi cosmici che riescono a penetrare nell’atmosfera. È da poco più di un secolo che gli scienziati sono in grado di misurare il campo magnetico terrestre, e in questo periodo il campo magnetico è considerevolmente diminuito. Ciò ha notevoli conseguenze: se in passato il campo magnetico terrestre era superiore all’attuale, allora la concentrazione di C14 nell’aria era inferiore e, di conseguenza, la quantità di isotopo presente negli organismi viventi, per cui già al momento della morte la concentrazione era inferiore a quella ammessa oggi.
Perciò la bassa concentrazione di C14 nei fossili non può essere considerata solo come dipendente dalla considerevole età, poiché dipende anche dalla minore concentrazione di C14 presente nei tessuti già al momento della morte!
Questi fatti hanno un’altra ripercussione sulla teoria della evoluzione, se si tiene presente il ruolo svolto dalle radiazioni cosmiche nell’accelerare le mutazioni geniche. “In tempi primitivi, con una scarsa irradiazione cosmica, saranno avvenute meno mutazioni che non in tempi di più intensa irradiazione. Se, dunque, le mutazioni sono la vera fonte dell’evoluzione darwiniana (come viene sostenuto quasi unanimemente) allora questo tipo di evoluzione sarà stato meno veloce con un forte campo magnetico terrestre […] l’evoluzione dovrebbe essere avvenuta molto più lentamente in tempi preistorici con una debole irradiazione cosmica rispetto a oggi con una elevata irradiazione e frequenti mutazioni” (12).
Ma neanche enormi periodi di tempo riescono a spiegare alcuni fenomeni: se l’evoluzione fosse avvenuta come gli evoluzionisti si immaginano, si dovrebbero trovare molti fossili di forme intermedie e dovrebbe essere possibile dimostrare la comparsa successiva degli animali più complessi nei vari strati. I ritrovamenti fossili dimostrano spesso il contrario. “In breve tempo compaiono praticamente tutti i grandi gruppi di animali oggi viventi, sia pure con forme diverse dalle attuali” (13). Le grandi trasformazioni che hanno portato alla formazione dei grandi gruppi animali oggi esistenti sarebbero avvenute in breve tempo e non sono documentate da fossili, mentre i ritrovamenti fossili dimostrerebbero piuttosto una considerevole stabilità delle specie nel corso delle “decine e centinaia di milioni di anni“!
Come ho accennato all’inizio, mi sono dovuto limitare a riportare solo alcune delle obiezioni che Wilder Smith muove all’evoluzione. Il problema è molto complesso, la teoria dell’evoluzione fa acqua da tutte le parti e autorevoli esponenti della scienza ne sono pienamente convinti. Purtroppo, la disinformazione ufficiale ha creato una cortina di silenzio attorno a questi scienziati, facendo credere che la “scienza” dia per scontata l’evoluzione stessa. Ma, come dice il titolo dell’ultimo libro di Wilder Smith, “le scienze naturali non conoscono l’evoluzione”.
Ermanno Pavesi
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(1) GIUSEPPE MONTALENTI, L’evoluzione, Einaudi, Torino 1975, p. 94.
(2) Ibid., p. 79.
(3) Ibid., p. 94.
(4) Ibid., pp. 96-97.
(5) GIORGIO MORPURGO, Capire l’evoluzione. Argomenti di genetica e biologia molecolare, Boringhieri, Torino 1975, pp. 18-19.
(6) Ibid., p. 23.
(7) A. ERNEST WILDER SMITH, Die Naturwissenshaften kennen keine Evolution. Experimentelle und theoretische Einwände gegen die Evolutionstheorie, Schwabe & Co. AG Verlag, Basilea-Stoccarda 1978, p. 24.
(8) G. MORPURGO, op. cit., p. 144.
(9) Ibid., p. 50.
(10) G. MONTALENTI, op. cit., p. 116.
(11) Cfr. A. E. WILDER SMITH, op. cit., p. 98.
(12) Ibid., p. 108.
(13) G. MONTALENTI, op. cit., p. 122.