Benedetto XVI, Cristianità n. 336 (2006)
Angelus, Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo (Roma) 3-9-2006, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 4/5-9-2006. © Copyright 2006-Libreria Editrice Vaticana. Il titolo, ricavato dal testo, è redazionale.
Il calendario romano ricorda oggi, 3 settembre, san Gregorio Magno, Papa e Dottore della Chiesa (540 ca.-604). La sua figura singolare, direi quasi unica, è un esempio da additare sia ai Pastori della Chiesa che ai pubblici amministratori: fu infatti dapprima Prefetto e poi Vescovo di Roma. Come funzionario imperiale si distinse per capacità amministrativa ed integrità morale, così che a soli trent’anni ricoprì la più alta carica civile di Praefectus Urbis. Dentro di lui, però, maturava la vocazione alla vita monastica, che abbracciò nel 574, alla morte del padre. La Regola benedettina divenne da allora struttura portante della sua esistenza. Anche quando fu inviato dal Papa come suo rappresentante presso l’Imperatore d’Oriente, a Costantinopoli, mantenne uno stile di vita monastico, semplice e povero.
Richiamato a Roma, pur vivendo in monastero fu stretto collaboratore del Papa Pelagio II e quando questi morì, vittima di una epidemia di peste, Gregorio fu acclamato da tutti come suo successore. Cercò in ogni modo di sfuggire a quella nomina, ma dovette alla fine arrendersi e, lasciato a malincuore il chiostro, si dedicò alla comunità, consapevole di adempiere a un dovere e di essere un semplice “servo dei servi di Dio”. “Non è veramente umile — egli scrive — colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli col cuore deve rifuggire da essa, ma pur contro voglia deve obbedire” (Regola pastorale, I, 6). È come un dialogo che il Papa fa con se stesso in quel momento. Con profetica lungimiranza, Gregorio intuì che una nuova civiltà stava nascendo dall’incontro tra l’eredità romana e i popoli cosiddetti “barbari”, grazie alla forza di coesione e di elevazione morale del Cristianesimo. Il monachesimo si rivelava una ricchezza non solo per la Chiesa, ma per l’intera società.
Di salute cagionevole ma di forte tempra morale, san Gregorio Magno svolse un’intensa azione pastorale e civile. Ha lasciato un vasto epistolario, mirabili omelie, un celebre commento al Libro di Giobbe e gli scritti sulla vita di san Benedetto, oltre a numerosi testi liturgici, famosi per la riforma del canto, che dal suo nome fu detto “gregoriano”. Ma l’opera più celebre è senz’altro la Regola pastorale, che ha avuto per il clero la stessa importanza che ebbe la Regola di san Benedetto per i monaci del Medioevo. La vita del pastore d’anime deve essere una sintesi equilibrata di contemplazione e di azione, animata dall’amore che “tocca vette altissime quando si piega misericordioso sui mali profondi degli altri. La capacità di piegarsi sulla miseria altrui è la misura della forza di slancio verso l’alto” (II, 5). A quest’insegnamento, sempre attuale, si sono ispirati i Padri del Concilio Vaticano II per delineare l’immagine del Pastore di questi nostri tempi. Preghiamo la Vergine Maria perché l’esempio e l’insegnamento di san Gregorio Magno sia seguito dai Pastori della Chiesa e anche dai responsabili delle istituzioni civili.