Lo stoicismo
1. Il contesto, la nascita e le principali figure
All’inizio del IV secolo a.C. la Grecia si trova nel passaggio fra due epoche, segnato dal crollo della polis — cioè della città-Stato, lo sfondo socio-politico della grecità — e l’avvento dei regni ellenistici. Il malessere spirituale si coglie nello scetticismo e nel relativismo che si diffondono anche nelle grandi scuole filosofiche nate da Platone (427-347 a.C.) e da Aristotele (384-322 a.C.); soprattutto il Giardino di Epicuro di Samo (341- 271 /270 a.C.) diffonde un messaggio rigidamente materialistico e sensistico, caratterizzato dal rifiuto pratico degli dèi, della virtù, nonché della vita attiva, riducendo la sapienza a un’arte del vivere caratterizzata da tratti minimalisti.
Contro tali orientamenti si svolgono l’azione e l’insegnamento di Zenone di Cizio (333/332-262 a.C.), il quale — ispirandosi al cinismo e a Eraclito di Efeso (VI-V sec. a.C.) — fonda una scuola, il Portico, in greco “stoà”, che, in aperto contrasto con tale temperie culturale, difende l’esistenza degli dèi e la loro azione nel mondo, della legge naturale e della virtù. Grazie ai successori Cleante da Asso (301 ca.-233/231 a.C.), autore dell’importante Inno a Zeus, e Crisippo di Soli (281/277-208/204 a.C.), la dottrina acquisisce la forma pressoché definitiva, almeno fino all’incontro con Roma. Questi tre filosofi sono considerati appartenenti allo stoicismo antico, mentre il medio-stoicismo inizia con Panezio di Rodi (185 ca.-I sec. a.C.), membro del circolo degli Scipioni e filo-romano. Lo stoicismo prosegue poi con il suo discepolo Posidonio di Apamea (140/130-51 ca. a.C.).
A partire da Panezio lo stoicismo diventa una presenza viva e operante in Roma, dove guadagnerà molto consenso, perché in esso si vedeva una dottrina orientata all’azione molto vicina allo spirito e alle virtù che contraddistinguono il civis romanus.
Proprio a Roma tale movimento avrà una significativa evoluzione e, contemporaneamente, segnerà il suo culmine, grazie all’opera di Lucio Anneo Seneca (4 ca. a.C.-65), il più importante neo-stoico, del quale si ricordino almeno le Lettere a Lucilio. Altri autori rilevanti saranno Lucio Anneo Cornuto, (20 ca.-post 62), Caio Musonio Rufo (30 ca.-fine I sec.), il suo discepolo, lo schiavo Epitteto da Ierapoli (50/60-138 ca.) e l’ultimo, grande esponente, l’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto (121-180), autore dei Dialoghi a se stesso. Non mancheranno anche poeti, quali Marco Anneo Lucano (39-65), nipote di Seneca, autore del poema Pharsalia, e Aulo Persio Flacco (34-62).
Il cristianesimo avrà un dialogo molto fecondo con lo stoicismo, fin da san Giustino martire (100 ca.-165 ca.), che afferma: «gli Stoici mostrano, con la loro etica, di avere dentro di sé il seme del logos divino, ma sbagliano nella loro dottrina dei principi e dell’essere immateriale», giudizio sostanzialmente condiviso da Tito Flavio Clemente Alessandrino (150 ca.-215 ca.) e dal suo discepolo Origene di Alessandria (185-253), mentre più entusiasta sarà il cartaginese Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (160 ca.-220 ca.).
2. La logica
Lo stoicismo tripartisce la filosofia in logica, fisica ed etica, rispettivamente rappresentate come la recinzione, le piante e i frutti di un giardino. La logica stoica ha come scopo sia la conoscenza della realtà sia, soprattutto, la difesa dell’etica, che è il culmine della sapienza. La gnoseologia stoica è radicalmente sensistica: non avendo in sé nessuna conoscenza innata, la mente è una tabula rasa e, pertanto, le idee sono solo sensazioni rielaborate. Nonostante tale premessa, gli stoici difendono la capacità della mente di cogliere la realtà delle cose. Epitteto afferma: «Uno scettico io lo curerei subito […] Invece di unguento gli verserei sui capelli salsa di pesce: capirebbe subito che bisogna fidarsi della testimonianza dei sensi».
Il fatto che da una base sensistica si sviluppi una conoscenza salda — come la metafisica e l’etica — è possibile solo negando de facto tale premessa. Infatti, l’elemento a priori che permette la conoscenza è presente: sia l’uomo sia la realtà — in gradi diversi — sono permeati dal logos, cioè dal principio vitale, spirituale e ultimamente divino che dà ordine alle cose come al pensiero su di esse. Tale profonda interconnessione fra l’uomo e le cose grazie al logos divino immanente fa pertanto dell’uomo un essere partecipe del principio divino. Seneca infatti scrive: «[…] l’anima […] ha la prova della propria divinità nel fatto che è affascinata dal divino e vi partecipa non come a cosa altrui ma come a cosa propria».
3. La fisica
Si giunge così all’ambito della physis, della natura. Date tali premesse, l’ontologia stoica non può essere che monista, poiché il principio divino è considerato anch’esso materiale, seppure di una materia più sottile e ultimamente impalpabile. Con Panezio e Posidonio e, soprattutto, con i neo-stoici avverrà una sorta d’innesto sul platonismo, ricuperando a livello di premessa implicita il guadagno metafisico operato dalla seconda navigazione platonica, ma non si arriverà mai a rifiutare espressamente sensismo e panteismo.
Si possono discernere nella realtà quattro elementi, che sono la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Di tutti questi il più importante è l’ultimo, perché esso, periodicamente, prende il sopravvento sugli altri tre, provocando l’ekpyrosis, la fine di un ciclo cosmico, dal quale ne sorgerà uno nuovo, perfettamente identico al precedente. Il tutto è governato sempre dalla potenza germinatrice del logos, che fa nascere le cose grazie alla sua presenza in esse, cioè ai logoi spermatikoi, alle rationes seminales.
Il logos è talvolta chiamato Zeus, anche se si diffida delle antropomorfizzazioni della religione tradizionale, pur necessaria per i più; è considerato impersonale — eccezione fa Epitteto —, ma, nonostante ciò, l’occhio umano non può ricondurre tutto a puro caso. Marco Aurelio, per esempio, afferma: «O un mondo ben ordinato o una mescolanza raccogliticcia e insomma disadorna. Ma in te può sussistere un mondo ordinato, mentre nel tutto ci sarebbe disordine, e tutto questo in presenza di realtà così ben distinte, ben distribuite e in reciproca relazione?». Il saggio è costretto a riconoscere un progetto nella realtà, che, come tale, è buona, sana ed egli ne è parte integrante. Così il logos si fa storicamente pronoia, provvidenza.
4. L’etica
Il massimo storico della filosofia stoica, il brandeburghese Max Pohlenz (1872-1962), nella sua opera La Stoa. Storia di un movimento spirituale, del 1959, così ne sintetizza lo spirito: la Stoa «non […] [fu] un sistema teoretico, ma un’arte del vivere», come emerge, fra l’altro, dalla suddetta incoerenza fra premesse teoretiche e conclusioni metafisiche ed etiche. Essa professa la capacità dell’uomo di dominare ogni contingenza e di realizzare il proprio destino, perché in esso vi è una scintilla divina, intangibile da qualsiasi realtà esterna, le cui bontà e bellezza dipendono solo dalla virtù del singolo. Principio primo è la capacità dell’uomo di divenire saggio da sé, poiché — a esclusione di Seneca — in esso non vi è nessuna ferita riconducibile anche vagamente alla nozione giudaico-cristiana del peccato originale. La preghiera così perde significato, seppure Marco Aurelio la incoraggi.
Ma, come agire se tutto è stabilito per sempre e si ripeterà sempre in modo identico? Questa radicale necessità, o heimarméne, segna in modo assoluto il destino dell’uomo. Seneca, che pure modificherà tale dottrina introducendo il concetto di voluntas, cioè di libero arbitrio, afferma che «il fato conduce chi vi si abbandona, trascina chi gli resiste». Lo stoicismo infatti deriva da Socrate (470/469-399 a. C.) la dottrina dell’intellettualismo etico, secondo cui l’atto del volere è determinato, e non solo condizionato, dal giudizio sul bene: l’uomo non è cattivo per volontà ma per ignoranza. Tuttavia, se il saggio coglie la realtà come avente un ordine, una ratio intima, essa rimanda a una legge che interroga l’agire dell’uomo, cioè una legge di natura, alla quale bisogna conformarsi.
L’ideale della vita è l’homologìa, cioè letteralmente la «vita secondo il logos», che si attua grazie all’oikéiosis, cioè all’appropriazione consapevole di ciò che conserva e sviluppa il proprio essere; è virtù primaria, pertanto, non solo accettare il proprio destino, ma volerlo.
Secondariamente, è necessario praticare il proprio dovere e le virtù, che sono principalmente quattro: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Grande importanza ha, a tale proposito, l’educazione: insegna Musonio che «cronologicamente il logos precede l’abitudine, ma dinamicamente questa ha la preminenza su quello perché ha maggior importanza in ordine all’azione pratica». In questo modo il saggio deve ristabilire la corretta gerarchia fra mente e corpo vincendo le passioni: desiderio, piacere, timore e dolore. Seneca introduce a tal fine la pratica dell’esame di coscienza, da compiere quotidianamente.
Seppure da alcuni — per esempio da Panezio e da Posidonio — sia concessa una maggiore felicità ove non vi siano affanni esteriori, è dottrina comune ritenere che essi non possono nulla contro la serenità interna — la libertà interiore, come rimarcherà assiduamente lo schiavo Epitteto —, raggiungibile a prescindere da piacere o dolore, povertà o ricchezza.
5. Gli altri e l’attività politica
Date le premesse antropologiche suddette, lo stoico non fa conto delle distinzioni di ricchezza, di razza, di condizione, poiché la virtù è per tutti ed essa è assolutamente indipendente dal posto assegnato dal fato a ciascuno. Inoltre, al contrario dell’egoismo epicureo, egli si fa preciso dovere di agire nel mondo, poiché ciascun uomo partecipa a una comune natura che fa tutti fratelli e cosmopoliti, cioè cittadini del mondo.
Lo stoico romano è costitutivamente repubblicano e, come tale, esso avrà molta difficoltà ad accettare il principatus introdotto da Cesare Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.). Per tale motivo Marco Porcio Catone detto l’Uticense (95-46 a.C.) — il simbolo stesso del saggio stoico — si suiciderà di fronte a quanto egli riteneva la fine della res publica. Tuttavia Seneca cercherà di influire sull’imperatore Tiberio Claudio Nerone Domiziano Cesare (37-68), anche a prezzo di pesanti compromessi. Il suo tentativo, ultimamente fallito, lo spingerà a rivalutare l’otium, cioè la vita privata, laddove le condizioni non rendano possibile l’attività. Quanto però emerge anche dall’esistenza stessa di un imperatore stoico, Marco Aurelio, è che non si contesta di principio l’impero, bensì le sue derive assolutistiche.
6. Lo stoicismo come categoria culturale e politica
Lo stoicismo si presenta, oltre che come fenomeno storicamente concluso, come una categoria metastorica — in questa sede si prescinde totalmente dalla valutazione delle correnti moderne autodefinentesi «stoiche» o «neo-stoiche» —: in epoche di crisi, ove regnano scetticismo ed egoismo, vi sono sempre uomini disponibili a difendere le verità del senso comune o di quanto di esse riescono a cogliere — il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) chiama tali punti fermi «coaguli» —, anche se non riescono a guadagnare la consapevolezza metafisica delle premesse del loro agire. Per quanto ancora lontani dalla verità su questo o quel punto, sono infatti bene orientati perché riconoscono un ordine nella realtà e cercano di conformarvisi. Essi sono «uomini di buona volontà» (Lc. 2, 14), e come tali interlocutori privilegiati della Chiesa e della Contro-Rivoluzione.
Ignazio Cantoni
Per approfondire: Max Pohlenz, 1959, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Bompiani, Milano 2005, e Giovanni Reale (1931-2014), Storia della filosofia greca e romana, 10 voll., Bompiani, Milano 2004, vol. V, Cinismo, epicureismo e stoicismo e vol. VI, Scetticismo, eclettismo, neoaristotelismo e neostoicismo.