di Mauro Ronco
Mi permetto di svolgere con voi una riflessione allo scopo di ragionare anche in questo momento difficile non tanto e non soltanto sugli eventi sanitari – il numero dei contagiati, il numero dei deceduti, il paragone con le altre situazioni internazionali etc. – ma soprattutto sui profili spirituali che sollecitano alla riflessione sulla nostra esistenza e ci inducono all’elevazione dell’anima a Dio.
- Il coronavirus si distende come un’ombra scura sull’intero mondo, ora, in particolare, sul nostro amato paese. Il nemico è anonimo, impercettibile, onnipervadente; vive e si fa minaccioso grazie a noi stessi; riesce a sopravvivere soltanto moltiplicandosi esponenzialmente facendo di noi i suoi veicoli. Il virus è scaltro; approfitta della nostra inclinazione a vivere con gli altri per colpirci, ferirci ed ucciderci. L’ombra si distende in modo enigmatico, producendo sorpresa, preoccupazione e paura. Chi ha ricordo del Signore degli Anelli trova in questa situazione un riscontro analogico della profezia di Tolkien.
- Con uno sguardo di autentica pietas verso i nostri antenati, che non disponevano dei presidi sanitari offerti dalla scienza moderna, possiamo comprendere la loro grandezza umana, civile e religiosa, che ha saputo costruire una civiltà altissima, vincendo con la fede in Dio, con il sacrificio, con la preghiera, con la fatica quotidiana, gli immensi ostacoli che le malattie, la povertà, la morte hanno frapposto al processo di incivilimento. Quando rifletto sulla grandezza dei nostri antenati sono capace ancora oggi di indignarmi, come mi indignavo da giovane, contro la derisione e il disprezzo profusi a piene mani da Voltaire nel Candide contro l’idea che il mondo, creato buono da Dio, potesse anche, nonostante il peccato, costituire un ambiente di speranza. Speranza che, nonostante i terremoti e le disgrazie collettive, gli uomini e le donne della civiltà cristiana sapevano nutrire per un mondo migliore, sub Deo et cum Deo. Alla luce di ciò mi domando se noi siamo capaci anche oggi, pur enormemente favoriti rispetto agli antenati dalla ricchezza delle nostre scoperte, di mantenere in noi stessi la speranza in un mondo a misura di uomo nel rispetto della legge di Dio. Io credo che ciò sia possibile a condizione che cambiamo noi tutti, come singoli e come società, i nostri modi di vita, riacquisendo una dimensione sacrale dell’esistenza e rifiutando l’orizzonte immanentista in cui le nostre società occidentali si sono rinchiuse.
- Le reazioni al virus nelle prime settimane della diffusione sono state sconsolanti. Trascuro qui le polemiche, l’inconcludenza, la vanità con cui molti “competenti” si sono presentati sulla scena per manifestare le loro opinioni, senza tener conto del danno che le loro parole in libertà erano in grado di provocare sulla popolazione; trascuro l’indecisione e la supponenza con cui gli uomini politici del governo centrale hanno affrontato la prima fase del contagio. Ciò che mi ha particolarmente amareggiato è stata la risposta del mondo del political correct, a livello di responsabili delle istituzioni e dei media egemoni, alla malattia, che sembrava voler lanciare ad essa una sfida nella fallace convinzione che le nostre risorse scientifiche e la nostra ubris avrebbero sbaragliato ogni difficoltà. Due episodi per tutti si possono ricordare: il segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti e il Sindaco di Milano Giuseppe Sala si affacciavano con il riso sul viso tra gruppi di persone ridanciane, ostentando magliette ridicole in spregio alla gravità evidente della situazione. L’atteggiamento di ubris era particolarmente offensivo. Gli esperti mostravano di non sapere ancora nulla di certo; ed essi si facevano in quattro per spargere un messaggio di superficialità e di derisione della paura che cominciava ad attanagliare molte persone. L’atteggiamento era analogo a quello diffusosi dopo gli attentati islamisti al Bataclan di Parigi o dopo la strage nella sede del giornale satirico-blasfemo Charlie Hebdo. Non abbiamo paura; chi ha paura è un razzista, che odia il diverso. Anche a proposito della malattia: chi ha paura è un razzista, che odia la fantastica positività della mescolanza degli uomini e delle donne, soprattutto dei giovani, in un indistinto tribalismo fatto di comunicazione di esperienze fisiche e sessuali. “Ci vogliono costringere in ghetti chiusi, questi sovranisti sciocchi ed arretrati. Mescoliamoci tra noi senza timore. Ci ritroveremo tutti più sicuri e garantiti nella società aperta senza regole e restrizioni”.
Questo rumore per il momento sembra cessato. Ma riprenderà ancora più ingombrante non appena il virus mostrerà di passare alla fase calante. Oggi nel political correct passa lo slogan “andrà tutto bene”, come superficiale manifestazione di bolsa indifferenza verso i dolori e le preoccupazioni della gran parte dei cittadini, ma di sicurezza tutta immanentistica che il corso delle cose ha un andamento comunque progressivo verso sempre più ampi spazi di libertà.
- Il coronavirus appare come metafora della nostra condizione umana. L’ombra del virus è agitata da potenze maligne. Non trascuro certo la biologia con le sue leggi e le scoperte della scienza. Ma la malattia e la morte sono entrate nel mondo per causa del peccato della prima coppia umana e per il peccato delle generazioni che si sono susseguite per secoli innumerevoli. Il legame tra la malattia e il peccato, tra la morte e il peccato è una legge della vita terrena in hac lacrimarum valle. Questo legame spicca in modo pregnante e più evidente quando la malattia e la morte si presentano attraverso le forme del contagio collettivo e della morte di porzioni importanti dell’umanità, che in condizioni normali non sarebbero state attinte da essa. Ciò che viviamo come una cosa naturale, normale, quando ci confrontiamo con la malattia e la morte nelle guise consuete, lo sperimentiamo in modo più vero quando esse si presentano in queste forme collettive, enigmatiche e onnipervadenti. Se è così stretto il legame tra il peccato, la malattia e la morte – e il coronavirus ce lo mostra con chiarezza – allora la prima e urgente lezione che dobbiamo trarre dall’epidemia, lezione che in tutti i tempi cristiani la società ha saputo trarre da ogni male collettivo, è di rivolgersi con fede sincera a Nostro Signore Gesù Cristo, risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, evocando il Regno che Cristo consegnerà a Dio Padre quando sarà la fine, ha scritto: “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi” (1 Corinzi, 15,26) e nell’inno trionfale in chiusura dello stesso capitolo 15 egli scrive: “Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore Nostro Gesù Cristo!” (1 Corinzi, 15, 54-58).
Quindi non dobbiamo avere paura; non nel modo stolto proposto dal political correct come se non dovessimo aver paura perché il coronavirus lo vinciamo con la scienza (e, per il momento, non è vero) o perché intanto ci è indifferente ciò che avverrà secondo il ben noto effato che del domani non c’è certezza; non dobbiamo aver paura perché Cristo ha vinto la morte e perché ci ha resi liberi – se siamo disposti a riconoscerlo – dal peccato che è il pungiglione della morte.
- Ricavata questa prima lezione, va esaminata una questione decisiva per rettamente affrontare l’ora presente con chiarezza di vedute.
L’epidemia è un castigo di Dio per i peccati del mondo?
In questi termini la questione è mal posta. Dobbiamo piuttosto domandarci: i peccati del mondo, quelli individuali certo, ma soprattutto le strutture di peccato, offendono o meno la legge di Dio e la Sua gloria? Certamente sì!
Come ricordava san Giovanni Paolo II nel suo ricco insegnamento e, soprattutto, in Sollicitudo rei socialis, 36; Centesimus annus, 38; Evangelium Vitae, 12, le strutture di peccato, come strutture formate dalla capitalizzazione istituzionale dei vizi morali dell’umanità, pur potendo talvolta attenuare la misura della responsabilità soggettiva, impongono una cultura che è fomite e moltiplicatrice di peccati. San Giovanni Paolo, riferendosi esplicitamente alla struttura di peccato che la cultura contemporanea ha costruito contro la vita, ha parlato di una “guerra dei potenti contro i deboli” in una vera e propria “congiura contro la vita”, che “non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali, familiari o sociali, ma va ben oltre, sino a distaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati”. Lo stesso è a dirsi – sempre secondo san Giovanni Paolo – delle strutture sociali di peccato che agiscono per impedire la realizzazione delle condizioni morali necessarie per una “autentica ecologia umana”.
- Le strutture di peccato che opprimono l’umanità si erigono su due colossali pilastri definiti rispettivamente dalla “cultura di morte” e dalla “cultura di mammona”. La prima si basa sulle seguenti massime: i) la distruzione della famiglia; ii) il disgusto per la generazione, con la contraccezione artificiale ormai divenuta regola della vita sessuale delle coppie; iii) l’omicidio del padre; iv) il femminismo radicale; v) l’aborto; vi) la trasmissione della vita per via tecnologica; vii) il gender; viii) l’eutanasia. La cultura di mammona si basa tra le altre sulle seguenti massime: i) la divisione del mondo tra un’infima minoranza di superricchi e l’immensa minoranza posta sotto o ai margini della soglia di sopravvivenza; ii) la riduzione materialistica delle persone a consumatori di cose, passaggio necessario per l’arricchimento, tramite il debito e l’usura, dei superricchi; iii) l’indifferenza per la fame nel mondo; iv) lo spreco delle risorse nelle spese degli Stati per le armi; v) lo spreco delle risorse nelle spese dei singoli per le droghe; vi) lo spreco delle risorse dei singoli nella pornografia e nell’industria dello spettacolo violento e pornografico; vii) lo spreco delle risorse nella schiavizzazione sessuale e nella prostituzione, femminile, maschile e addirittura infantile; viii) lo spreco delle risorse dei singoli nell’addiction al gioco d’azzardo.
Queste strutture di peccato, che si basano sui peccati dei singoli e che li sfruttano e fomentano creando una vera e propria cappa di oppressione sui popoli, costituiscono un’offesa gravissima alla legge di Dio, compiuta dai popoli attraverso i loro rappresentanti che hanno promulgato e sostengono leggi contrarie alla dignità dell’uomo. Ciascuno Stato in modo differente, è certo; ma non è questa la sede per esaminare la tematica politica dei vari Stati in ordine alla condizione del mondo contemporaneo.
Ora, queste strutture di peccato – che costituiscono una gravissima offesa alla legge di Dio – hanno immanenti in loro stesse la loro punizione, secondo la legge che il peccato è la via della morte. E più gravi, diffusi e radicati sono i peccati, più gravi sono i castighi ad essi immanenti.
Dispiace al nostro orgoglio chiamarli castighi? Sono i castighi che noi stessi ci attiriamo per le nostre azioni di peccato; che i popoli si attirano per le leggi perverse determinate dalla cultura della morte e dalla cultura di mammona e di esse servili esecutrici.
In questa situazione qual è il nostro corretto rapporto con Dio? Quello esemplificato dalla parabola del Figliol prodigo. Costui si era reso per i suoi peccati schiavo del Maligno (il padrone dei porci presso cui si era messo a giornata), incapace di cibarsi se non del cibo scartato dagli animali; quando – schiacciato dal peso dei peccati e dalle loro conseguenze – ritorna in sé stesso, si mette sulla strada del pentimento e ritorna al Padre. Il Padre lo ha atteso, lo vede da lontano e lo accoglie e lo abbraccia e lo introduce subito alla sua mensa. Dio è amore e ricco di misericordia, ci attende da lontano; inspira in noi i raggi del Suo amore affinché ci pentiamo dei nostri peccati; però non può accoglierci se noi non ci mettiamo sulla strada del ritorno alla Sua casa.
Ecco la seconda lezione del coronavirus. Come tutte le epidemie, le guerre e le tragedie collettive essa è il castigo immanente alle nostre condotte, nostre e delle strutture di peccato che hanno guidato il corso della Rivoluzione in tutti i tempi e, in particolare, nella lunga epoca che ha condotto alla distruzione della Cristianità. Affinché il castigo – che ci siamo dati da noi – cessi, occorre che torniamo al Padre, gettandoci nella Sua misericordia e rimettendoci sulla via del rispetto e dell’amore per la Sua legge: non solo rispetto ma anche amore per la legge.
- La terza lezione del Covid-19 ci proviene dal suo modo di diffondersi, subdolo e anonimo, che ci costringe all’isolamento. Le sue modalità appaiono come un equivalente del modo di comportarsi dell’individuo edonista e individualista della civiltà secolarizzata. Ciascuno ritiene di raggiungere i suoi fini tenendosi ben separato dagli altri. Non dal punto di vista fisico e materiale – perché, da questo punto di vista, il tribalismo collettivo ci ha abituati alle gigantesche manifestazioni di massa dal festival di Woodstock nell’agosto 1969 fino al Bataclan e oltre – bensì dal punto di vista spirituale. L’egoismo, tendenza da combattere quotidianamente, ci viene dal peccato d’origine; ma la tendenza disordinata è diventata un merito sociale da premiarsi con il plauso e il successo. La solidarietà intrafamiliare, intrasociale e la concordia politica sarebbero eredità del passato da cancellare. Il political correct vorrebbe che abbandonassimo le nostre radici – e tutti gli ambiti in cui fioriscono le virtù concrete della solidarietà e della condivisione – per diventare servitori di un circo infernale permanentemente in movimento, senza ancoraggi e senza fini se non la soddisfazione immediata e frammentaria della sensibilità individuale.
Se questo è il quadro veridico della separazione spirituale in cui la civiltà occidentale è caduta, il coronavirus ne costituisce un modello perfettamente adeguato. Esso ci vuole spingere anche fisicamente alla separazione, gli uni dagli altri. E’ questo in definitiva il traguardo verso il quale il political correct e le immense forze economiche e finanziarie che lo sorreggono vogliono spingerci.
Lunedì, 23 marzo 2020