di Massimo Introvigne
1. “Nuovi movimenti religiosi” o “nuove religioni”
A partire dagli anni 1960, dapprima nei paesi di lingua inglese e quindi in tutto l’Occidente, un’ampia letteratura si viene interessando della presenza di gruppi religiosi nati in gran parte negli ultimi due secoli, che si presentano come alternativi rispetto alle tradizioni religiose maggioritarie e che vengono chiamati, con termini che hanno acquisito un significato ampiamente spregiativo – che non avevano all’origine -, “sette” in lingua italiana, francese, spagnola e tedesca e “culti” in inglese. Proprio per il significato totalmente spregiativo assunto ormai dalla parola “setta”, sinonimo nell’opinione pubblica di gruppo socialmente pericoloso, gli studi universitari sul tema l’hanno largamente abbandonata sostituendola con le espressioni più neutre “nuovo movimento religioso” e “nuova religione”. Tutte queste etichette coprono una molteplicità di gruppi diversi, che hanno in comune soltanto gradi diversi di estraneità rispetto alle tradizioni religiose maggioritarie in Occidente: si tratterà di movimenti di origine cristiana, ma con una teologia peculiare e nuova – come i testimoni di Geova -, ovvero di origine orientale – come gli Hare Krishna -, o ancora nati in Occidente, soprattutto nell’ambito del cosiddetto movimento del potenziale umano – come la Chiesa di Scientology – o della tradizione esoterica e magica: in questo caso si potrà parlare di “nuovi movimenti magici”. Complessivamente, nel mondo, i nuovi movimenti religiosi – intendendo questa categoria in senso ampio – sono oltre ventimila. I sociologi e gli storici dubitano che vi sia stata negli ultimi decenni una vera “esplosione delle sette”. Infatti, in nessun paese dell’Occidente gli aderenti ai nuovi movimenti religiosi superano l’1% della popolazione, il che significa che alla proliferazione di sigle – e, nel contempo, d’interesse accademico e mediatico, peraltro giustificato dal valore di “segno dei tempi” del fenomeno, sintomo di una ben più ampia “nuova religiosità” diffusa – non corrisponde il coinvolgimento di percentuali significative della popolazione.
2. I movimenti anti-sette e il mito del “lavaggio del cervello”
Ritenendo al contrario che ci si trovasse di fronte a una “invasione delle sette” di proporzioni allarmanti – e, in ogni caso, sconcertati dalla decisione dei loro figli di aderire a un gruppo religioso nuovo, spesso con un impegno a tempo pieno – i genitori di giovani maggiorenni, che erano diventati membri di nuovi movimenti religiosi, si organizzano nei primi movimenti anti-sette, comparsi alla fine degli anni 1960 negli Stati Uniti d’America. Questi movimenti sostenevano che non era verosimile che giovani di buona famiglia si fossero convertiti a una religione “strana” in modo spontaneo: doveva essere accaduto qualche cosa di singolare e di imprevedibile, una sorta di incantesimo, che aveva condotto questi giovani a scelte dannose e irrazionali. Viene così elaborata la spiegazione del “lavaggio del cervello” o della “manipolazione mentale”, secondo cui le “sette” sarebbero state in possesso di tecniche di persuasione sinistre e irresistibili. Le “sette”, pertanto, non potevano essere combattute sul piano della semplice polemica dottrinale, ed è questa la differenza fondamentale fra i movimenti anti-sette laici e quelli contro le sette religiosi di ispirazione protestante o cattolica: erano necessari interventi dello Stato che impedissero le loro attività di “manipolazione mentale”, che le avrebbero altrimenti portate a esercitare in breve tempo un potere inimmaginabile. L’espressione “manipolazione mentale” – insieme ad altre analoghe come “persuasione coercitiva” e “destabilizzazione mentale” – veniva adottata dalle teorie del lavaggio del cervello cosiddette “di seconda generazione”, successive alle critiche che avevano attaccato come non scientifica l’espressione “lavaggio del cervello”, che veniva così abbandonata cercando tuttavia di mantenere, sotto altra etichetta, lo stesso contenuto.
3. La campagna per una legislazione anti-sette
Negli anni 1970 il movimento anti-sette riesce a espandere le sue attività dagli Stati Uniti d’America a quasi tutti i paesi dell’Occidente e al Giappone. I tentativi di reclamare interventi da parte degli Stati rimangono tuttavia senza esito, tanto che alcuni gruppi anti-sette preferiscono ricorrere alla pratica illegale della “deprogrammazione”, cioè al rapimento, su istruzioni dei loro genitori, degli aderenti ai nuovi movimenti religiosi e al loro “trattamento”, in condizioni di privazione della libertà di movimento, da parte di “deprogrammatori”, che in genere non sono né medici né psichiatri, ma che hanno acquisito una certa esperienza nell’uso di tecniche, quasi sempre violente, volte a persuadere gli adepti ad abbandonare i movimenti di cui fanno parte. Nel 1978 il suicidio-omicidio collettivo di oltre novecento membri del gruppo americano del Tempio del Popolo a Jonestown, nella Guyana – in realtà, più che un movimento religioso, un gruppo marxista, il cui unico dio era il socialismo – offre agli ambienti anti-sette un’occasione insperata per ottenere udienza presso lo Stato. La tragedia di Jonestown diventa l’occasione per proporre, in diversi Stati, misure legislative oppure amministrative contro le “sette”. Nessuna proposta di misure anti-sette viene però tradotta in legge, né negli Stati Uniti d’America né altrove. Le ipotesi dei movimenti anti-sette erano state infatti sistematicamente smontate dai sociologi della religione e dalla grande maggioranza dei docenti universitari di psicologia e di psichiatria, i quali avevano concluso – sulla base, in particolare, di analisi di tipo statistico – che, anche se alcuni nuovi movimenti religiosi adottavano strategie di propaganda abbastanza sofisticate e relativamente nuove, nessuno di loro era in possesso di tecniche di persuasione irresistibili o magiche, dal momento che anche nei gruppi più controversi soltanto una minima percentuale delle persone che avevano accettato di partecipare a un primo incontro si convertiva. Anche fra i convertiti, il numero di coloro che abbandonavano il movimento spontaneamente – senza bisogno di “deprogrammazioni” – nel giro di due o tre anni era straordinariamente elevato. Più che prigioni eterne, i nuovi movimenti religiosi sembrano porte girevoli o stazioni ferroviarie, dove vi sono continuamente persone che arrivano, ma anche persone che partono.
4. Dagli Stati Uniti d’America all’Europa
Nel 1987 l’American Psychological Association, dopo un’indagine sollecitata dagli stessi psicologi vicini al movimento anti-sette, decide, in un documento particolarmente autorevole, che le teorie del lavaggio del cervello e della manipolazione mentale applicate a nuovi movimenti religiosi non sono scientifiche e non possono essere citate come tali. Questa decisione ha avuto un enorme impatto negli Stati Uniti d’America, e ha portato negli anni 1990 i tribunali americani da una parte a condannare severamente i “deprogrammatori” e i movimenti anti-sette, che in qualche caso li sostengono, dall’altra a rifiutare sistematicamente le testimonianze di esperti che vorrebbero sostenere teorie relative alla manipolazione mentale. Il fallimento nel 1996 della più importante organizzazione anti-sette mondiale, il Cult Awareness Network, dopo una severa condanna in un caso di deprogrammazione, è emblematico della crisi del movimento anti-sette negli Stati Uniti d’America.
Sostanzialmente sconfitti negli Stati Uniti d’America, i movimenti anti-sette hanno cercato una rivincita in Europa e in Giappone, dove gli episodi relativi al suicidio-omicidio dell’Ordine del Tempio Solare, nel 1994 e nel 1995, e all’attentato al gas nervino nella metropolitana di Tokyo, di cui è accusato un gruppo di dirigenti del movimento religioso Aum Shinri-kyo, nel 1995, hanno giocato un ruolo simile a quello che ha avuto negli Stati Uniti d’America la tragedia di Jonestown del 1978. Il 10 gennaio 1996 una commissione parlamentare francese ha pubblicato un rapporto sul tema Le sette in Francia che, ignorando completamente le conclusioni dell’ampio dibattito svoltosi negli Stati Uniti d’America, riprende e diffonde tutte le tesi tipiche dei movimenti anti-sette e costruisce una categoria di “setta pericolosa” – accompagnata da una lista di ben centosettantadue “sette” di questo genere – sulla base di dieci criteri quantitativi, fra cui spicca la “destabilizzazione mentale”, tipica versione di seconda generazione della vecchia teoria del lavaggio del cervello. Il rapporto parlamentare francese ha causato vivaci reazioni critiche da parte degli ambienti universitari – completamente ignorati nelle audizioni, peraltro segrete, che hanno preparato la stesura del rapporto – e una reazione pacata ma critica della conferenza episcopale cattolica francese. Nonostante queste critiche, l’impostazione anti-sette del rapporto parlamentare ha ispirato una serie di misure amministrative, che si vanno susseguendo in Francia. Grazie, in particolare, agli sforzi di alcuni partiti aderenti all’Internazionale Socialista, che in vari paesi sono peraltro riusciti a coinvolgere anche esponenti politici di centro-destra, commissioni parlamentari – i cui mandati sembrano ispirarsi, pure con sfumature diverse, al modello francese – sono state costituite in Belgio, in Germania e nel Cantone di Ginevra, mentre un forte movimento politico pensa di utilizzare le strutture comunitarie per dar vita a iniziative consimili in tutti i paesi dell’Unione Europea.
5. Verso l’instaurazione di un “diritto di persecuzione”?
Non vi è dubbio che, nel mondo dei nuovi movimenti religiosi, esistano gruppi che si rendono sistematicamente colpevoli di reati. Per colpire questi gruppi non sono però necessarie leggi speciali – e su questo perfino il rapporto francese è d’accordo – né misure amministrative generalizzate, che facciano riferimento a un ambiguo concetto quantitativo di “setta”, legato al parametro non scientifico e screditato della manipolazione mentale. In presenza di violazioni del diritto comune i codici penali sono più che sufficienti. Le misure amministrative che vorrebbero invece limitare la libertà di centinaia di gruppi sospettati di praticare tutti l’elusiva “destabilizzazione mentale” – è il termine preferito dal rapporto francese – sono invece pericolose per esperienze religiose di tutti i generi – non di rado vengono infatti attaccate anche realtà che fanno parte a pieno titolo della Chiesa cattolica o di comunità protestanti -, che hanno il solo torto di essere più esigenti e più capaci di coinvolgere tutta la vita della persona, di quanto il moderno laicismo consideri accettabile in una società secolarizzata. In un momento in cui la lobby anti-sette cerca di scatenare una campagna senza precedenti in tutta Europa, si deve avere il coraggio di rispondere che, contro i gruppi veramente pericolosi, bastano e avanzano il diritto comune e i codici penali, mentre le generalizzazioni legislative o amministrative mettono in pericolo la libertà religiosa di tutti e rischiano di introdurre negli ordinamenti, in maniera subdola, un vero e proprio “diritto di persecuzione”.
Per approfondire: sulla problematica della libertà religiosa, del rapporto parlamentare francese e delle misure amministrative anti-sette proposte oggi in Europa, vedi Giovanni Cantoni e Massimo Introvigne, Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici, Cristianità, Piacenza 1996; e M. Introvigne, Il fantasma della libertà. Le controversie sulle “sette” e i nuovi movimenti religiosi in Europa, in Cristianità, anno XXV, n. 264, aprile 1997, pp. 13-26; sui movimenti anti-sette nel contesto del passaggio dall’epoca moderna a quella postmoderna, vedi Idem, Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996; e Idem, La questione della nuova religiosità. In appendice la relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991 di S. Em. Il card. Francis Arinze, Cristianità, Piacenza 1993; nonché – quanto alle problematiche psichiatrice sollevate – Ermanno Pavesi, La psichiatria e i movimenti anti-sette, in Cristianità, anno XXV, n. 263, marzo 1997, pp. 7-21.