di Salvatore Calasso
Il municipalismo libertario
Nel momento in cui l’Europa si appresta a intensificare i vincoli economici fra gli Stati, stanno emergendo con impeto le esigenze particolaristiche, che mettono in discussione lo Stato nazionale moderno, come si è affermato in Europa e nel mondo, dalla Rivoluzione francese in poi.
Questa forma di compagine statuale è caratterizzata da un forte accentramento, che elimina le realtà intermedie, riducendole a propaggini amministrative dello Stato, da cui derivano i loro poteri, in gran parte residuali. Per questo, mentre il vertice si divide in organi differenziati e contrapposti, la famosa tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario, le amministrazioni periferiche vengono subordinate e controllate dal potere centrale, perdendo quell’autonomia, che per secoli ne aveva caratterizzato la storia. In questo modo lo Stato nazionale moderno ha soppresso tutti i legami spontanei e naturali di attaccamento che gli uomini avevano sempre avuto verso le comunità territoriali più piccole e verso le collettività più grandi della nazione, per impedire che altri legami potessero indebolire la fedeltà assoluta che lo Stato pretendeva dai cittadini. Infatti accanto alla fedeltà al proprio comune, alla propria regione e al proprio re, vi era in Europa la fedeltà alla «Res Publica Christiana», cioè all’unità morale del mondo cristiano che nasceva dalla convinzione di appartenere a una comune società cristiana, nella quale gli elementi di unione erano più forti di quelli di divisione. Con l’affermarsi dello Stato nazionale moderno questa unità viene rotta.
La causa di questa rottura è da ricercarsi nel carattere «rivoluzionario» dello Stato moderno, tanto nella sua forma nazionale, quanto in quella sovranazionale — per esempio l’Unione Sovietica. Esso si crede investito della missione di realizzare la felicità sulla terra, tramite la creazione dell’«uomo nuovo», libero da tutte le contraddizioni sociali, che ne limitano le potenzialità. Per fare questo ha bisogno di tutto il potere possibile, per cui ecco l’affermarsi del carattere totalitario dello Stato moderno, che ha assunto in questo secolo le sue forme più aberranti nel totalitarismo nazionalsocialista e socialcomunista, in cui i diritti dell’uomo sono stati annientati.
Questa esigenza rivoluzionaria ha portato lo Stato moderno a invadere lentamente tutti gli spazi di autonomia e di libertà degli individui, sottoponendoli al suo controllo, iniziando dalla cancellazione delle autonomie locali e di lavoro, per finire con quelle educative e familiari. Per fare ciò si è dotato di strutture burocratiche e di controllo sempre più grandi e dispendiose, che hanno richiesto sempre più ingenti capitali, che vengono prelevati tramite un aumento della pressione fiscale.
Adesso, però, lo Stato moderno è entrato in crisi. Scrive Franco Piperno, ex leader del gruppo extra parlamentare comunista Potere Operaio, nel suo libro Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo sociale: la crisi «[…] esplode oggi perché è venuto meno l’ultimo e non secondario fondamento che conferiva legittimità allo stato, la regolazione del mercato nazionale. […] Quando il luogo delle decisioni si sposta da Roma a Bruxelles, la capitale appare come una spesa inutile, di pura rappresentanza. Ecco allora che lo stato non gode di buona reputazione non solo nel Sud pigro, ma anche nell’operosa Padania» (Piperno, 27).
Davanti a questa crisi, le forze rivoluzionarie propongono di dissolvere la sovranità dello Stato e di sostituirlo con le «municipalità»: sono esse il nuovo orizzonte politico in cui deve muoversi la società post industriale. Ancora secondo Piperno: «Ora che lo stato nazionale è finito compiendosi, e gli italiani sono stati letteralmente fatti, occorre rifare l’Italia. Sogniamo una Italia riappacificata con il suo essere cento, sogniamo cento libere confederazioni tra le città d’Italia» (Piperno, 37). Gli fa eco il pacifista Daniele Archibugi in un saggio dal titolo Dalle Nazioni unite alla Democrazia Cosmopolita: «La crisi degli stati multietnici a cui stiamo assistendo costituisce probabilmente la migliore indicazione della difficoltà di amministrare grandi comunità. L’osservazione empirica di Rousseau secondo cui la democrazia è in grado di funzionare nelle piccole comunità deve essere costantemente tenuta presente» (Archibugi, 101). Infatti la «democrazia rappresentativa» si sta rivelando incapace di gestire la complessità post moderna, da qui la crisi di legittimità che investe il sistema parlamentare e la disaffezione dei cittadini verso la partecipazione politica.
La crisi della democrazia rappresentativa e il recupero della valenza politica delle piccole comunità, è stata evidenziata anche negli ambienti del cattolicesimo democratico. Infatti già nel lontano 1980 il sociologo Achille Ardigò (1921-2008) pubblicava il testo Crisi di governabilità e mondi vitali, in cui scriveva: «Osservo per contro un po’ in tutta Europa dei tentativi di produzione di senso comune attraverso il recupero di lealismi, di ritualità etniche e territoriali arcaiche, di particolarismi territoriali e dialettali e una ricerca di nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate. È come se si fosse alla ricerca di un nuovo contratto sociale, che ci induce a tornare più vicini alle nostre piccole patrie, se sopravvissute, o di richiamarcene il ricordo di mondo ambiente» (Ardigò, 57). E ancora: «Col declino di legittimazione degli Stati accentrati, la partecipazione si muoverebbe verso l’autodirezione e per problemi specifici di vita anziché verso una continuazione di partecipazioni mobilitatorie sotto la guida di élite e per opzioni generalizzate, globali e ideologiche» (Ardigò, 91). Questa situazione sociologicamente rilevata disegna per Ardigò il cammino da seguire: «Le ormai diffuse manifestazioni di particolarismi etnici, territoriali, locali, il riflusso nel privato, le spinte autogestionarie che rimangono per lo più allo stadio culturale ed esigenziale, la crisi di consenso al modello di welfare degli anni cinquanta e sessanta e l’appello al volontariato e alla mutualità, il riemergere dei sentimenti e dei paretiani residui della persistenza degli aggregati sono tutte indicazioni in una direzione. Quella che non basta una transazione solo infrasistemica sociale all’adattamento. È pertanto alla transazione piena coi mondi vitali quotidiani che conviene disporci» (Ardigò, 113-114).
Il richiamo ai mondi vitali, a ciò che persiste delle piccole patrie, sembra un recupero di una dimensione tradizionale del vivere civile davanti al fallimento della pretesa «rivoluzionaria» dello Stato nazionale moderno. Infatti alcuni caratteri evocati dai sostenitori delle municipalità sembrano richiamare la società tradizionale, la quale però ha dei connotati precisi, come vengono descritti dal filosofo cattolico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970): «La società umana ha all’origine un altare e una tomba. I due primi diritti dell’uomo, nello stesso tempo naturali e storici, sono dunque il diritto di organizzarsi in società familiare e il diritto di organizzarsi in società religiosa. Ma questi due primi diritti ne implicano immediatamente un altro: il diritto di utilizzare i beni materiali per vivere umanamente, cioè da uomo libero […]. Nel diritto di proprietà dobbiamo vedere la conseguenza del diritto alla famiglia, cioè alla discendenza e al focolare. Ma, se l’uomo non è assolutamente solo, neppure la famiglia è assolutamente sola. E anzitutto essa mette rami. Altre famiglie nascono da essa. Essa fa già parte di un gruppo più vasto, il clan, la tribù, la città. All’organizzazione sociale e all’organizzazione religiosa si unisce subito l’organizzazione politica […]. Così, per gradi, attraverso sviluppi concentrici, si vede nascere la società nazionale. La sua origine è in un bisogno originario e in un diritto primordiale di associazione, di difesa, fra uomini della stessa origine, con le stesse credenze, con gli stessi costumi, con gli stessi bisogni, dello stesso posto» (De Reynold, 16).
Totalmente diversa è la descrizione che della società cittadina offre Piperno: «Qui per città si intende la città naturale, per dirla con Marx; la città che ha la facoltà di autoregolarsi. La città è quel luogo speciale, topologicamente singolare, dove si manifesta la potenza dell’intelletto comune nella produzione di parole, sentimenti, leggi che esteriorizzano, per così dire, le qualità specifiche del luogo, il genius loci. La città è quindi una potenza linguistica, capace di interagire con la lingua. […] Questo essere in potenza fa della città il luogo comune dove è possibile vivere l’esperienza di darsi la regola da sé, dell’autoregolazione. Il punto è che esiste, per ogni luogo, una soglia nella cooperazione umana a partire dalla quale l’esperienza urbana, la vita politica, prende forma. Si potrebbe dire che la nascita e la rinascita di una città sia l’emergere delle proprietà collettive che rendono la comunità urbana assai più potente che la somma delle capacità individuali dei suoi componenti. La città è in atto quando insorgono le qualità collettive cioè comuni; e questo stesso insorgere fa sì che sia impossibile comprendere la città a partire dalle condotte o dalle condizioni individuali dei cittadini. La città è una forma di vita biologica, al pari di un alveare o di un termitaio» (Piperno, 89-90).
Come si può notare questa idea di città «collettiva» annulla l’individuo e le articolazioni sociali a cui dà origine. Esse infatti vengono viste come un ostacolo alla realizzazione dell’autentica democrazia che, sempre secondo Piperno «[…] è una forma politica della città-stato dove i poveri sono in maggioranza numerica sì da poter governare la città in ragione dei loro interessi» (Piperno, 57). Il teorico anarco-ecologista Murray Bookchin, autore del volume Democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario, ammonisce: «Bisogna tenere in seria considerazione il fatto che né il decentramento, né l’autosufficienza sono in sé necessariamente democratici […]. Una società decentrata può tranquillamente coesistere con gerarchie estremamente rigide. Ne è un esempio lampante il feudalesimo europeo ed orientale: ordini sociali in cui le gerarchie nobiliari erano basate su comunità estremamente decentrate» (Bookchin, 88-89).
Per sfuggire a questo rischio, la sinistra prospetta la soluzione della «democrazia diretta», cara agli anarchici del secolo scorso come Max Stirner (1806-1856), Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) e Piotr Kropotkin (1842-1921), la quale per definizione non può funzionare che nelle piccole comunità cittadine. «È allora necessario elaborare una nuova alternativa che non sia parlamentare, né esclusivamente marginale o contro-culturale. L’azione diretta dovrebbe fondersi con una nuova politica, in una sorta di autogestione municipale fondata su una democrazia pienamente partecipativa» (Bookchin, 37). Murray Bookchin, autore di questa affermazione, chiama tale alternativa «municipalismo libertario». Questa definizione è costituita da due termini: un sostantivo, «municipalismo» e un aggettivo, «libertario». Il sostantivo indica il nuovo luogo della conflittualità sociale: non più le grandi istituzioni statali, oramai acquisite alla logica della «Rivoluzione», ma la comunità cittadina, il quartiere, dove ancora esiste una resistenza popolare all’accettazione delle idee rivoluzionarie. Osserva Bookchin: «Sarebbe ingenuo anche credere che forme come le assemblee popolari di quartiere, di città, di villaggio siano in sé sufficienti a costituire una vita pubblica libertaria, cioè che possano dar la luce ad un corpo politico libertario in assenza di un movimento libertario estremamente cosciente» (Bookchin, 49-50). Questo movimento «[…] vuole liberarsi dalla gerarchia sociale, dal dominio classista e sessista e dall’omogeneizzazione culturale» (Bookchin, 56). Il soggetto politico principale non deve essere né l’individuo, né la famiglia, né tanto meno lo Stato: «La Cellula vivente che costituisce l’unità primaria della vita politica è la municipalità ed è da quella che deve discendere ogni altra cosa» (Bookchin, 59). In questo nuovo soggetto sovrano potrà realizzarsi la nuova forma politica che prevede il superamento della famiglia: «É a questo livello che diviene possibile oltrepassare il privato e la grettezza di una vita familiare celebrata per la sua separatezza, per sperimentare quelle istituzioni pubbliche tese alla partecipazione ed alla associazione» (Ibidem). Anche la proprietà privata sarà nuovamente messa in discussione: «Il municipalismo libertario […] prevede anche un diverso approccio all’economia, il cui requisito minimo è appunto quello di proporre una municipalizzazione della struttura economica; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese nazionalizzate» (Bookchin, 81). La diversità, rispetto all’esperienza storica del modello socialcomunista consiste nell’atomizzazione del sistema economico, improntato sempre, però, al collettivismo: «Il municipalismo libertario propone una forma di economia radicalmente differente in cui territorio ed imprese vengono affidate alla gestione dei cittadini riuniti in libere assemblee» (Bookchin, 82). Questa nuova riedizione dei «soviet» sarà guidata ancora da idee marxiste, come dice il testo in questione: «La massima “da ciascuno secondo le proprie capacità ed a ciascuno secondo i propri bisogni” può essere una guida sicura per una società economicamente razionale» (Bookchin, 82-83). E ancora: «La municipalizzazione dell’economia non solo assorbe le differenze professionali che potrebbero militare contro un’economia pubblicamente controllata, ma assorbe altresì i mezzi materiali di vita nelle forme comunitarie di distribuzione. “Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”, viene adesso istituzionalizzato come parte della sfera pubblica e cessa così di apparire fragile auspicio per diventare una prassi, una modalità di funzionamento politico incardinata nella struttura comunitaria» (Bookchin, 85).
Le municipalità, quali cellule di base della società civile, non devono avere strutture politiche superiori a cui essere subordinate, ma devono essere come isole collegate tra loro in una rete globale. Ciò pone alla Rivoluzione, secondo Archibugi, «il problema del superamento dell’istituzione statuale» (Archibugi, 71), che però «[…] non significa necessariamente che ci debba essere un trasferimento del potere da parte degli stati alle nuove istituzioni. […] La sfida del modello cosmopolitico non è quella di sostituire un potere con un altro potere, ma al contrario quella di ridurre la funzione del potere nel processo politico» (Archibugi, 118). L’attuale progetto rivoluzionario è quindi quello di una società civile globale, ossia di una rete mondiale di telecomunicazioni che colleghi la massa delle piccole comunità interdipendenti. Dice Richard Falk, esponente di spicco del movimento liberal statunitense, nel saggio Raccomandazioni positive per il prossimo futuro: una prospettiva di ordine mondiale: «L’intero sforzo dovrebbe essere concepito all’interno di circostanze storiche in cui emerga una società civile globale collegata da tecnologie della comunicazione, che renda possibile lo sviluppo di un insieme di informazioni comuni, per quanto differenziato, e di una crescente consapevolezza transnazionale dell’identità e della partecipazione globali» (Falk, 130).
Lo scopo dell’azione politica è quindi quello di contribuire alla demolizione dell’istituzione statale in tutte le sue forme, per sostituirlo con una rete orizzontale di comunicazione fra municipalità.
Il fine della rivoluzione delle municipalità, spiega Piperno, è quello di formare il cittadino come individuo sociale: «[…] che consiste nella capacità di divenire multiplo pur restando uno, senza rompersi psichicamente» (Piperno, 107), e questo può avvenire «[…] solo che prenda collettivamente coscienza della natura animale della cooperazione cittadina» (Piperno, 100). Questa municipalità si pone in antitesi alla concezione naturale della socialità umana, dove gli uomini si organizzano in corpi sociali differenziati, partendo dalla famiglia. Per essa «la formazione del cittadino come individuo completo e perciò multiplo, all’altezza del genere perché capace di tenere insieme almeno sette personalità, suonatore di flauto e cacciatore di funghi, è la ragione stessa per la quale, tanto tempo fa, la città ha avuto origine» (Piperno, 107). Ciò vuol dire che ai corpi sociali differenziati ed organizzati in comunità, capaci di venire incontro alle esigenze dell’uomo, il municipalismo libertario sostituisce l’individuo multiplo, capace di fare tutto. Infatti solo negandosi come io personale, limitato, si può raggiungere una condizione dove tutte le tensioni si dissolvono e tutte le differenze sono abolite. L’individuo che ha più personalità ha perso la sua falsa identità parziale e ne ha acquistata una nuova, quella del tutto, quella collettiva.
Salvatore Calasso
21 ottobre 2018
Per approfondire
Ardigò 1982. Achille, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna.
Archibugi 1993. Daniele, Dalle Nazioni unite alla democrazia cosmopolita, in Cosmopolis. È possibile una democrazia sovranazionale?, manifestolibri, Roma, pp. 91-122.
Boockin 1993. Murray, Democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario, trad. it., Elèuthera, Milano.
De Reynold 1996. Gonzague, Il federalismo e la sua filosofia, trad. it. in Cristianità, anno XXIV, n. 356-257, agosto-settembre, pp. 7-16.
Falk, 1993. Richard Anderson, Raccomandazioni positive per il prossimo futuro: una prospettiva di ordine mondiale, in Cosmopolis. È possibile una democrazia sovranazionale?, cit., pp. 123-157.
Piperno 1997. Franco, Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo sociale, manifestolibri, Roma.