di Daniele Fazio
Le cronache quotidiane della scuola italiana spesso restituiscono una sorta di bollettino di guerra in cui le classi diventano teatro di violenze e di sopraffazione fino alla destituzione pratica di ogni rapporto positivo e rispettoso nei confronti dei formatori. Allo stesso tempo, però, sembra che sulla questione ancora non si sia messo per niente, come si suol dire, il dito nella piaga, restando molto lontani sia dall’isolamento del virus che corrode il corpo scolastico sia da una terapia adeguata.
Un esempio emblematico della crisi scolastica è quanto accaduto qualche tempo fa in Sicilia. Il 2 febbraio 2007, al termine della partita di calcio fra le squadre del Catania e del Palermo, le tifoserie si scontrarono pesantemente. Nella confusione, l’ispettore capo di polizia Filippo Raciti rimase ucciso. I responsabili furono Antonio Speziale, allora minorenne, e Daniele Natale Micale, allora ventitreenne. Gli studenti del rinomato Liceo Spedalieri di Catania, impressionati, rivolsero ai propri professori un appello pubblicato poi sul quotidiano La Sicilia il 4 marzo. I fatti del 2 febbraio, scrissero i ragazzi, «[…] ci pongono diversi interrogativi, ci chiamano in causa e ci invitano a una riflessione riguardo alla coscienza che abbiamo della realtà, a un’identità vera con la quale ci impegniamo dentro le circostanze della vita e a una speranza fondata con cui possiamo guardare il nostro futuro». E ancora: «abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità. […] Per questo chiediamo innanzitutto ai prof e alla scuola intera che ci prendano più sul serio, che prendano sul serio le nostre vere esigenze. Che non debba accadere che un ragazzo finisca male o che comunque perda il gusto del vivere perché a scuola s’è trovato attorno, soprattutto tra gli educatori gente rassegnata, opportunista e vuota».
Qualche giorno dopo, il preside e 28 docenti dell’istituto risposero con una lettera sostanzialmente ricalcante il consueto clichè relativista che “la società” sfodera in un caso così, ovvero rinunciando a fornire qualsiasi indicazione con il pretesto di servire la democrazia e la laicità, o al massimo ammannendo qualche vago riferimento al pensiero critico, alla libertà di espressione e alle nozioni di educazione civica. «Non possiamo, né vogliamo, darvi delle risposte», scrivevano gli educatori, «ma prepararvi affinché siate voi non solo a chiedervi quale sia il senso della vita ma anche a riuscire ad individuare, tramite lo studio del cammino culturale dell’uomo sociale, le risposte adeguate al vostro percorso. Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica. Vi rispettiamo troppo per sventolarvi Verità rivelate».
A dire il meno, la domanda dei ragazzi e la risposta dei professori vanno in direzioni opposte. È il succo di quello che in campo educativo stiamo vivendo. In nome di una renitenza dominante, si rinuncia sempre più a insegnare l’alfabeto dell’umano e così facendo i giovani riempiono come possono il desiderio di verità e di felicità. Sintetizza bene mons. Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste, osservando che «[…] sui grandi temi la scuola come tale si astiene e si rifugia nell’educare alla tolleranza, allo spirito critico e alla democrazia. È una scuola educativamente debole» (Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa, Cantagalli, Siena 2010, p. 145).
Sin dalla Rivoluzione sessantottesca, che quest’anno compie cinquant’anni, le giovani generazioni sono state massicciamente allenate all’odio per il principio di autorità, a una vita libertina e a dare sfogo, contro ogni principio morale, ai propri desideri. Il nucleo della Rivoluzione del Sessantotto, infatti, sta in uno stravolgimento antropologico che vuole gli istinti, le pulsioni, le emozioni a guida della persona a scapito della ragione e dominandone la volontà. Lo slogan «né Dio, né maestri, né padroni» ben sintetizza la sovversione culturale che si dipana come un grande “no” a quanto le istanze classica e cristiana nei secoli hanno costruito e tramandato.
Il risultato di tale indottrinamento è quello di ritrovarsi oggi a fare i conti con generazioni di ragazzi disorientati che cercano di riempire il vuoto esistenziale con l’utilizzo di droghe sin dall’età pre-adolescenziale, dando sfogo agli istinti di sopraffazione e di cattiveria nei confronti dei compagni più deboli o addirittura degli insegnanti. A ogni generazione la società è invasa da nuovi “barbari”, che hanno bisogno di essere orientati, di essere aiutati a scoprire la bellezza dell’essere uomo e donna, di essere indirizzati nel discernimento del bene – il solo che rende felici – e nel rifiuto del male, che porta alla tristezza esistenziale. A tutto questo, da tempo, un’agenzia educativa importante quale è la scuola, specchio comunque di una società disintegrata, sembra proprio avere rinunciato. Si privilegiano tecniche, competenze, scartoffie burocratiche a fronte della trasmissione di princìpi umani realmente rispondenti alla crescita sana della gioventù. Il primo e più importante rimedio, ad oggi, è dunque diagnosticare con precisione la malattia