Il senso di una protesta, quella degli agricoltori, sempre più determinante per il futuro europeo
di Gabriele Fontana
A cominciare dalla Germania nello scorso 8 gennaio il mondo agricolo europeo si è mobilitato in una forma di protesta, civile per quanto ingombrante e rumorosa, mettendo in moto i trattori per percorrere strade e occupare luoghi nevralgici. L’occasione scatenante per gli agricoltori tedeschi è stata il taglio dei sussidi al gasolio agricolo.
La protesta, replicando le modalità tedesche, si è rapidamente estesa nel mese di gennaio in Polonia, Belgio, Spagna, Romania, Francia, Lituania, Grecia, Portogallo, Paesi Bassi e Italia, ma echi di azioni anche più forti vengono dalla lontana India.
Le motivazioni si assortiscono in modo diverso e con differente priorità nei diversi Paesi, ma in generale fanno riferimento alla compressione fra costi e ricavi, dovuti al minore sostegno tramite gli incentivi riservati all’agricoltura, alla pressione fiscale, al potere di condizionamento degli industriali e della grande distribuzione che spinge verso il basso i prezzi d’acquisto delle derrate all’origine, all’effetto concomitante dell’inflazione e alla concorrenza di importazioni a prezzi bassi. Altro aspetto ampiamente e fortemente condiviso è il rigetto delle utopiche politiche ambientali dell’Unione, che vorrebbe condizionare l’uso di alcuni mezzi tecnici, concimi chimici e antiparassitari secondo quanto previsto da Farm to Fork, e il rifiuto dell’imposizione a non coltivare parte della superficie aziendale prevista dalla PAC (Politica Agricola Comune) nella cosiddetta «condizionalità» ambientale, che consente di accedere ai contributi. Ovviamente anche le misure ambientali sono viste come minaccia al reddito, senza contare che aggiungono peso a un carico burocratico già gravoso.
In Italia si è aggiunta la contestazione verso la cosiddetta «carne sintetica» e il consumo alimentare di insetti, aspetti sostanzialmente di nessun rilevo attuale (e forse nemmeno futuro) in termini di competizione con le produzioni agricole, ma cavalcati con enfasi da più parti. Non manca, fra gli argomenti più emozionali che reali, il richiamo alla difesa del «made in Italy».
Sia per quanto riguarda gli aspetti prettamente economici, sia per la crescente pressione ambientalista, accompagnata dalla colpevolizzazione della categoria, la protesta è il risultato di una tensione crescente negli anni, di cui la marcia dei trattori è stata l’esplosione liberatoria.
Il movimento di protesta ha chiaramente caratteristiche di spontaneità, come dimostra il fatto che si è organizzato in comitati autonomi, collegati via social media, per altro divisi fra loro su alcuni aspetti, non decisivi in termini di contenuti, ma certamente per quanto riguarda le modalità di confronto e i rapporti con le autorità.
Il fronte della protesta, leggendo le cronache di questi giorni, vede la posizione più radicale rappresentata dalla sigla «C.R.A. (Comitati Riuniti Agricoli) Agricoltori Traditi», che ha annunciato la mobilitazione per una manifestazione (il 15 febbraio) che vorrebbe coinvolgere altre categorie, non solo agricole. Più «dialogante», anche se con frange scettiche sull’esito degli incontri con le autorità politiche, appare la sigla «Riscatto Agricolo».
Le storiche organizzazioni sindacali agricole rappresentative del settore non sono state coinvolte dai manifestanti, anzi, qualche volta sono state contestate, per quanto anch’esse abbiano nel recente passato manifestato nelle sedi istituzionali i motivi di disagio della categoria.
Quanto agli esiti della protesta, a livello nazionale, sembra acquisito il rinnovo della proroga degli sgravi IRPEF per le fasce di reddito più basse, ma di fatto la leva fiscale è il solo strumento di un qualche rilievo in pieno possesso del governo e di possibile immediata attuazione. Non appare, invece, di facile soluzione il problema degli accresciuti costi di produzione che non trovano riscontro nei prezzi di vendita delle derrate, stante anche la probabile scarsa efficacia di interventi dirigistici sui rapporti di filiera.
A livello europeo un successo notevole è rappresentato dal ritiro del regolamento sull’uso sostenibile degli agrofarmaci, pilastro del Farm to Fork, grazie anche a un’intensa attività parlamentare, precedente alla protesta, che ha visto protagonisti parte del Partito Popolare e i gruppi dell’opposizione di destra nel Parlamento Europeo. A coronamento dell’esito è giunta la dichiarazione della presidente UrsulaVon der Leyen, che ha giustificato la mossa sostenendo che la proposta si è dimostrata causa di «polarizzazione» (forse la versione laica del «divisivo» clericale?). Anche l’obbligo di non coltivare una parte della superficie aziendale è rientrato. Il protrarsi di questo indirizzo «ambientalista» dipenderà delle prossime elezioni europee, ma intanto non sembra uscito dalle intenzioni «ideologiche» di chi rappresenta l’attuale maggioranza.
In conclusione, la protesta dei «trattori» ha il carattere spontaneo del «ritorno al reale» da parte di una categoria sociale certamente in difficoltà a causa di un complesso quadro economico e di debolezze strutturali del settore, fortemente sovvenzionato per garantirne la sopravvivenza nel quadro della competizione globalizzata e per assicurare, almeno in parte, l’autonomia di approvvigionamento alimentare dell’Unione, che per altro rimane fortemente dipendente dalle importazioni. Tanto le situazioni economiche contingenti, a partire da quelle di natura fiscale, quanto il rigetto dell’approccio «verde» degli indirizzi strategici dell’Unione e della PAC, costituiscono le motivazioni di fondo della protesta. Per altro il disagio per le politiche ambientaliste si manifesta anche in relazione ad altri progetti legislativi europei, come, ad esempio, l’adeguamento degli immobili agli standard di isolamento termico, la sostituzione del riciclo degli imballaggi con il riuso, la regimentazione del flusso dei corsi d’acqua, il «ripristino della natura».
Merita considerazione un recente commento del politologo Giovanni Orsina (apparso su La Stampa del 29 gennaio scorso):«“Non dimentichiamo l’ovvio”, scrive Pascal Chabot nel suo saggio di cronosofia Avere tempo: “non si può piantare un chiodo su Internet”. “Ci sono ora due umanità”, continua il filosofo belga, “quella che preme pulsanti, che ticchetta tutto il giorno, e quella per la quale questi segmenti significanti diventano ordini per fare, muovere, toccare, incollare, assemblare, sollevare, trasportare, guidare, ordinare, piantare, innaffiare, raccogliere, sanguinare, squartare, tagliare. Il buon vecchio mondo, dove esiste il sudore, dove il colpo della strega minaccia più del sovrappeso: il mondo della materia, senza il quale le meraviglie della tastiera non potrebbero sopravvivere a lungo”. Sono anni che ci interroghiamo sulle radici del cosiddetto populismo e che andiamo chiedendo risposte all’economia, alla geografia, alla cultura. La risposta — o per lo meno una risposta — forse va cercata proprio in questa citazione di Chabot: l’umanità che sta tutto il giorno davanti alla tastiera e abita sistemi globali e astratti, tende a votare per i partiti dell’establishment; quella che solleva e squarta in contesti locali e concreti, per i partiti della protesta».
Giovedì, 15 febbraio 2024