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Non è Salvini

21 Maggio 2019 - Autore: Domenico Airoma

di Domenico Airoma

No, non è Matteo Salvini il problema. Salvini, in realtà, ha solo fatto venir fuori una questione molto più seria, che riguarda il rapporto fra religione e politica.

Se è vero che «Dio è di tutti», come ha ammonito il cardinale Pietro Parolin, è anche vero che non tutti gli uomini politici intendono essere di Dio; anzi, gli uomini che hanno patito i campi di concentramento nazionalsocialisti ed il GuLag comunista, così come oggi il povero Vincent Lambert in Francia, non sono altro che le icone sanguinanti di un Cesare che si è fatto Dio. Ed è altrettanto vero che ancor meno sono gli uomini politici che confessano pubblicamente di non estromettere Dio e i Suoi diritti dall’orizzonte del bene comune. Sicché quando il nome di Dio viene evocato da un uomo politico, il clamore è inevitabile e il sospetto che quel nome sia stato pronunziato invano altrettanto legittimo.

Invocare Dio da parte di chi è chiamato a governare «è sempre molto pericoloso», dice ancora una volta il cardinale Parolin. Ma perché? Che succede quando un uomo politico dichiara pubblicamente di tenere in conto Dio nell’esercizio delle proprie funzioni?

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 2147, è molto chiaro: «Le promesse fatte ad altri nel nome di Dio impegnano l’onore, la fedeltà, la veracità e l’autorità divine. Esse devono essere mantenute, per giustizia. Essere infedeli a queste promesse equivale ad abusare del nome di Dio e, in qualche modo, a fare di Dio un bugiardo». Insomma, se è vero che la gravità di un’offesa si misura dal soggetto che la subisce, altrettanto può dirsi per una promessa non mantenuta quando viene fatta a Dio. Il quale non si lascia ingannare, magari pensando che basti istituire un ministero per la Famiglia, e dinanzi al quale è difficile giustificarsi appellandosi al “contratto di governo”.

Ma la questione, come detto, è molto più seria. E non a caso divide i cattolici e non solo. Perché non è solo la politica partitica che divide. Ciò che divide è il fine della politica e, quindi, il fine del governo della cosa pubblica. Perché se davvero Dio deve essere di tutti, allora la questione è come rispettare il piano di Dio sugli uomini, cioè fare in modo che le istituzioni rispettino, innanzitutto, la legge che è scritta nel cuore degli uomini.

«Non si tratta di per sé di imporre particolari “valori confessionali”, ma di concorrere alla tutela di un bene comune che non perda di vista il riferimento vincolante della ‘sfera pubblica’ alla verità della persona e alla dignità della convivenza umana», come ha ricordato la Commissione Teologica Internazionale nel recente documento La libertà religiosa per il bene di tutti, approvato da Papa Francesco. Ed è proprio questo che divide: prendere atto che la modernità ideologica ha fallito pretendendo di costruire un mondo contro Dio che è finito che ritorcersi contro l’uomo, oppure continuare a flirtare con questo mondo, illudendosi – i cristiani in primis ‒ di potersi concepire «come membri di una “società neutrale” che, nei principi e nei fatti, non lo è», avverte ancora la Commissione Teologica.

In definitiva, la questione è se il fine della politica, e del cristiano in politica, sia la civiltà cristiana oppure un filantropismo annacquato, che può servire, forse, per fare propaganda per l’otto per mille. Che però non convince. Non scalda i cuori. Non spinge a costruire cattedrali.

Martedì, 21 maggio 2019

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