di Domenico Airoma
Leggo levarsi da più parti peana di ringraziamento al governo per aver elaborato le «[…] linee di un accordo, che consentirà nelle prossime settimane, sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica, di riprendere la celebrazione delle messe con il popolo». Così, per esempio, è scritto nel comunicato della Conferenza Episcopale Italiana.
In tempo di fake news la mia prima preoccupazione è stata quella di verificare la veridicità della notizia. Talmente mi sembrava inverosimile che si potessero formulare ringraziamenti per qualcosa che assomiglia al pacco vuoto che cercano di rifilarti alla stazione ferroviaria di Napoli. E allora, se tutti ringraziano, per quel che vale (cioè molto poco), che ciò non avvenga anche in mio nome. Di cosa, infatti, dovrei ringraziare il governo?
Che, dopo essersi occupato di tutto e di tutti, dal cibo di asporto al footing, abbia concesso “graziosamente” che «nelle prossime settimane» – dunque, senza neppure indicare una data, neanche di massima, a differenza pure dei barbieri – e a condizione che l’«[…] evoluzione della curva epidemiologica» lo consenta – cioè, senza neppure accennare, che so, a quale punto della curva si debba arrivare –, si potrà tornare a Messa, ma comunque, si vedrà?
Di cosa, ancora, dovrei ringraziare il governo? Dell’avere trattato della libertà religiosa, cioè di ciò che di più intimo ha ciascun uomo, come una qualsiasi altra facoltà, che viene concessa o interdetta secondo l’insondabilevolere del governante e dei suoi consiglieri?
Ho tollerato, come tanti altri, queste irragionevoli e sproporzionate restrizioni che hanno finito, in realtà, non con il limitare, ma con il negare la libertà, sacrosanta, di professare la propria fede. Ho obbedito, a fatica. Lo ammetto. Anche dinanzi all’assenza del “fine pena” che chiunque sia privato della libertà ha diritto di conoscere. Ma non mi chiedete l’assuefazione. Non mi chiedete di ringraziare. Questa pandemia ci ha provato e privato di tante cose. Ma non della dignità di uomini, prima ancora che di cristiani. E, soprattutto, della forza di reclamare il rispetto di un diritto, quello di professare e praticare il proprio credo, che non dipende dal riconoscimento dello Stato, ma che portiamo scritto nel nostro cuore, tutti, cattolici e non.
No. Non è questo il momento di ringraziare, ma di porre domande; che reclamano risposte. Serie. E, soprattutto, ora. Come è successo in Germania.
In quel Paese è accaduto che qualcuno non si è piegato ed ha contestato, utilizzando i rimedi concessi dall’ordinamento, le limitazioni poste al culto per ragioni sanitarie. Non arrestandosi neppure davanti alle sentenze dei tribunali di prima istanza, che avevano sostenuto che quelle misure non rappresentassero, invece, una grave violazione della libertà di religione, perché esisteva la possibilità di celebrare le funzioni religiose online e in streaming. Chiedendo alla Corte Costituzionale di pronunciarsi.
Orbene, la pronuncia c’è stata, il 29 aprile scorso. Ed è stata chiara. Non come la risposta del governo italiano. I giudici della più alta Corte tedesca hanno, infatti, statuito che, nel bilanciamento fra libertà religiosa e tutela della salute, è «determinante valutare il peso dell’ingerenza nella libertà religiosa connessa ai divieti» imposti per motivi sanitari, nel senso che questi ultimi non possono spingersi fino a sacrificare del tutto quegli atti di culto nei quali si manifesta, in modo essenziale, la propria fede, come per gli islamici la preghiera del venerdì nel mese del digiuno del Ramadan.
Ed è per questo che, per il momento, il mio grazie va ai giudici tedeschi. E spero di poter ringraziare prossimamente anche i giudici del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio investiti di analogo ricorso promosso dal Centro Studi Rosario Livatino.
Di certo non ho ragioni per ringraziare chi ha mostrato di considerare la libertà più cara e preziosa per un uomo come qualcosa di non proprio essenziale, di cui riparlare. Quando se ne daranno le condizioni. Forse.
Martedì, 5 maggio 2020