Giovanni Cantoni, Cristianità n. 282 (1998)
Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale Il ribaltone «a norma di Costituzione», in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVII, n. 249, 24-10-1998, pp. 1 e 14.
Oltre la moralità e l’immoralità politica: il problema del mandato imperativo
Fra le espressioni più utilizzate nel dibattito politico nei giorni fra la caduta del governo guidato dal professor Romano Prodi e la formazione del Governo D’Alema e oltre, soprattutto da parte di esponenti del centrodestra ma non solo, vi sono state quelle di «tradimento» e di «immoralità politica». In relazione, in genere, al sostegno determinante fornito dall’UDR, l’Unione Democratica per la Repubblica, appunto al governo con a capo l’on. Massimo D’Alema. E, ancor più in generale, è stato segnalato e viene denunciato il fenomeno del trasformismo, la cui quantificazione registrerebbe il cambio di partito, nell’attuale legislatura, da parte di 152 parlamentari (11).
Che cos’è l’UDR? Si dice: una neonata forza politica, ma meglio sarebbe dire «parlamentare», ché non basta neppure definirla «partitica». E non si tratta di sottigliezze, ma di precisazioni, funzionali alle considerazioni che mi appresto a svolgere.
Dunque, parlamentari eletti nel- le liste del centrodestra, perciò anzitutto nella prospettiva di un secondo Governo Berlusconi, quindi per opporsi al governo del centrosinistra, a guida indicata nel professor Prodi, hanno prima abbandonato le forze partitiche d’appartenenza; poi si sono fatti sostenitori del fronte avversario; e, infine, lo hanno sostenuto in una sua versione nella quale la colorazione politica di sinistra è accentuata dal passaggio alla posizione di premier del leader dei Democratici di Sinistra, a tutt’oggi la compagine di maggiore consistenza nata dal processo di trasformazione in cui è immerso il Partito Comunista Italiano dal 1989. Tutto quanto ho rapidamente descritto è avvenuto pressoché esclusivamente in sede parlamentare, e lo stesso nome di «partito» diventa piuttosto sinonimo di gruppo parlamentare che di organizzazione di cittadini elettori.
Le ragioni di scandalo non mancano e non dirò per certo che la loro manifestazione sia segno d’ingenuità o espressione di retorica dozzinale. Ma mi preme indicare i diversi livelli di scandalo, e soprattutto le problematiche soggiacenti.
In primo luogo va ricordato che il regime elettorale maggioritario è stato proposto e introdotto — fra l’altro — non solo per favorire la governabilità, ma per ridurre l’ingerenza e l’ambigua mediazione delle strutture partitiche nella vita politica della Repubblica Italiana. Così, premiando schieramenti portatori di programmi definiti e tendenzialmente alternativi, intendeva affidare all’elettore la determinazione di lunga durata e di grande quadro del progetto di governo dello Stato. Si sarebbe così prodotta una riappropriazione della sovranità da parte della base elettorale, enfaticamente detta «popolo».
Ma il primo vulnus significativo — forse non sufficientemente denunciato come tale, privilegiandone il puro momento di furbizia nella routine della vita politica — al regime maggioritario è venuto dalla cosiddetta «desistenza», cioè dalla pratica di costruire un fronte elettorale non portatore dello stesso programma, ma rappresentativo della pura esigenza di battere l’avversario, in questo modo vanificando preventivamente — o almeno esponendo a prevedibile fallimento — la legittima aspettativa di governabilità. E, quando tale aspettativa è stata concretamente vanificata dalla dirigenza del Partito della Rifondazione Comunista — trascuro le radici storico-culturali di quanto è accaduto e sta accadendo all’ interno di questa forza politica —, la ferita è stata fronteggiata attraverso un’ altra ferita, cioè attraverso l’uso di un cosiddetto nuovo partito, nel caso l’ UDR.
Il comportamento tenuto dai parlamentari che l’hanno costituito viene giustamente stigmatizzato come proditorio rispetto agli impegni assunti nei confronti dell’elettorato, ma il rilievo giuridico — privatistico e pubblicistico — di tale comportamento è assolutamente nullo, sì che si deve ricorrere a una censura morale e limitarsi a essa. Però la censura morale, se non è ribadita da una censura giuridica, ha un vigore tale da colpire in tesi la fama di chi ha ferito la norma morale, quindi da danneggiarne ipoteticamente — nel caso — il cursus politico, la «carriera», ma rimanda ultimamente la certezza della sanzione a una sede superna. Non solo, ma la stessa assenza della censura giuridica indebolisce sulla distanza la consapevolezza della norma morale. Se si riflette sui legami fra morale e diritto, per certo escludendo non solo la loro coincidenza ma anche la loro coestensione, si apprezza il fatto che — per esempio — la depenalizzazione di qualche fattispecie d’aborto ha leso la corretta percezione della criminalità del comportamento abortivo.
Così, il vissuto parlamentare sotto i nostri occhi trova la sua origine nella Costituzione della Repubblica Italiana, che all’articolo 67 vieta il mandato imperativo, cioè ribadisce — grosso modo — che l’eletto rappresenta la Nazione e non i propri elettori (12). Recita infatti tale articolo: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Quale coerenza morale si può immaginare da parte di chi non rappresenta uomini in carne e ossa, ma un ente di ragione? Comunque, per certo tale coerenza non può essere pretesa giuridicamente.
In breve, il mandato imperativo costituisce la continuazione o proiezione pubblicistica di un rapporto privatistico, quello per cui una parte, il mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra, il mandante, rispettando i termini con lui pattuiti circa la realizzazione di tale o di tali atti; perciò esprime una relazione fra società e Stato, la nascita dello Stato dalla società, la definizione dello Stato come organizzazione della società (13). Non a caso la lotta contro il mandato imperativo ha avuto come passaggio fondamentale il suo divieto quando, in anni lontani ma emblematici, nel 1789, all’inizio della Rivoluzione detta francese, gli Stati Generali si sono trasformati, non sono stati eletti, in Assemblea Nazionale, cioè i rappresentanti dei corpi sociali, della pluralità sociale, si sono dichiarati rappresentanti dell’«unione degli individui» (14): di tutti, cioè di nessuno; quindi, responsabili verso tutti, cioè non responsabili nei confronti di nessuno. E la Costituzione della Repubblica Italiana, redatta «alla francese» dalla Nazione rappresentata dall’Assemblea Costituente — «concentrata», «ridotta» a tale assemblea o da essa fittiziamente sostituita? — ha recepito tale divieto.
Merita di essere notato che l’articolo che enuncia questo divieto fu votato senza discussione; nella seconda sottocommissione — deputata ai lavori relativi all’ordinamento costituzionale — vi fu chi sostenne che la norma non dovesse far parte del testo. Il presidente della sottocommissione, il comunista on. Umberto Terracini (1895- 1983), affermò che la disposizione poteva avere la sua ragion d’essere nei tempi passati, vigente il collegio uninominale, quando il deputato si sentiva anche rappresentante di interessi di classe e quando la rappresentanza era circoscritta al collegio; oggi, in ogni caso, una norma costituzionale «non varrebbe — a suo dire — a rallentare i legami tra l’eletto e il partito che esso rappresenta o l’eletto e il comitato sorto per sostenere la sua candidatura». Si convenne tuttavia sull’opportunità d’inserire la norma, perché il silenzio — l’osservazione fu del liberale on. Aldo Bozzi (1909-1987) — avrebbe potuto avere un significato molto diverso dagl’intendimenti della sottocommissione. L’accordo venne raggiunto facilmente per la prima parte, «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione», mentre per la seconda, relativa all’esclusione del mandato imperativo, vi fu qualche contrasto, e particolarmente il comunista on. Ruggero Grieco (1893-1955) vi si dichiarò contrario, perché «i deputati sono tutti vincolati a un mandato: si presentano difatti alle elezioni sostenendo un programma, un orientamento politico particolare». Parole sante, vanificate però dall’esclusione del mandato imperativo, esclusione i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti e costituiscono punto non insignificante per ogni attività di revisione costituzionale, quindi — in primis et ante omnia — per un’Assemblea Costituente allo scopo eletta e non per qualsiasi organismo collegiale che si autointitoli volontaristicamente tale. Tenendo conto che la correzione «imperativa» del mandato latamente rappresentativo è espressione del principio di sussidiarietà applicato alla vita politica; in altri termini, è condizione perché il cittadino — l’uomo — conti, non sia semplicemente contato. E «democrazia» non sia né espressione di cattiva retorica né formula derisoria, ma dica relazione almeno a un momento della gestione della cosa pubblica, sinonimo di bene comune.
Note:
(11) Cfr. Corriere della Sera, 21-10-1998.
(12) Cfr. un primo accostamento, in La Costituzione della Repubblica italiana, a cura di Vittorio Falzone, Filippo Palermo e Francesco Cosentino, ed. aggiornata a cura di Sergio Bartole, Mondadori, Milano 1991, pp. 202-203. Tutti i riferimenti seguenti senza rimando sono tratti da quest’opera.
(13) Sulla rappresentanza politica, cfr. JOSÉ PEDRO GALVÃO DE SOUSA (1912-1992), Da representação política, Saraiva, San Paolo 1971, trad. it. in Cristianità, anno XX, L’idea di rappresentanza nel diritto, n. 204, aprile 1992, pp. 5-9; La rappresentanza della società politica/1, n. 205-206, maggio-giugno 1992, pp. 5-11; La rappresentanza della società politica/2, n. 207-208, luglio-agosto 1992, pp. 5-12; La rappresentanza politica nello Stato dei partiti e nella società di massa, n. 209-210, settembre-ottobre 1992, pp. 15-22; Autorità e rappresentanza, n. 211, novembre 1992, pp. 19-23; La rappresentanza come valore simbolico che manifesta un ordine trascendente, n. 212, dicembre 1992, pp. 15- 22; e anno XXI, Origine e significato delle istituzioni rappresentative, n. 213-214, gennaio-febbraio 1993, pp. 11-19.
(14 ) Cfr. EMMANUEL-JOSEPH SIEYÈS (1748- 1836), Che cosa è il terzo stato?, trad. it., a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 82.