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OPINIONI SUL “PARADISO” CUBANO

25 Ottobre 1973 - Autore: Giovanni Cantoni

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 1 (1973)

 

Il padre Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù, ha recentemente visitato Cuba. Al termine della permanenza di sei giorni nell’isola, una agenzia di stampa francese ha diffuso una intervista con il massimo esponente dei gesuiti. Così la riferisce il Corriere della Sera: “[…] il generale dei gesuiti […] ha manifestato la propria soddisfazione per la situazione attuale della Chiesa e della Compagnia di Gesù nell’isola caraibica” (1).

Il giorno seguente il padre Arrupe ha precisato, tramite l’ufficio-stampa della Compagnia di Gesù, di non aver “manifestato la sua soddisfazione per le condizioni della Chiesa e della Compagnia a Cuba”, ma di avere “soltanto detto testualmente: “Non ho potuto non ammirare la serietà con la quale la Chiesa cubana ha condotto una riflessione teologica e apostolica sui profondi cambiamenti sociali intervenuti nel paese”” (2).

Certo, se la dichiarazione attribuita al padre gesuita dall’agenzia francese era tale da lasciare perplessi, la dichiarazione “autentica” non è da meno, per il suo tono gergale che sembra voler coprire, sia pure ambiguamente, una situazione drammatica.

Quale sia la condizione di Cuba – paese-modello per alcune frange del clerico-marxismo nostrano – è stata recentemente indicata da mons. Eduardo Tomás Boza Masvidal, vescovo titolare di Vinda, già vescovo ausiliare dell’Avana e attualmente vicario generale di Los Teques in Venezuela, in una limpida lettera inviata a mons. Sergio Méndez Arceo, il famigerato “vescovo rosso” di Cuernavaca, in Messico, che di ritorno da un viaggio nell’isola ne aveva lodato il regime ateo e schiavistico.

Mons. Boza Masvidal scrive: “[Vostra Eccellenza] enumera una serie di istituzioni che ha visitato, ma nella sua elencazione non compaiono le carceri in cui vivono decine di migliaia di prigionieri politici. Ignoro se ha visitato tali carceri. Non so, quindi, se ha potuto verificare le terribili condizioni in cui vivono i prigionieri, specialmente quelli che rifiutano di farsi indottrinare dal marxismo.

“Non dice neppure se ha visitato i campi di lavoro forzato, nei quali devono passare, per uno o due anni, coloro che chiedono di lasciare Cuba.

“Non so se ha fatto le lunghe file, di ore, davanti ai negozi, per comprare qualche cosa da mangiare, e non so neanche se ha assistito a qualche fucilazione” (3).

Quando il padre Arrupe parla della “serietà con la quale la Chiesa cubana ha condotto una riflessione teologica e apostolica sui profondi cambiamenti sociali intervenuti” nell’isola, intende forse riferirsi a queste considerazioni di mons. Boza Masvidal, vescovo cubano in esilio? Mi riesce difficile crederlo, anche se vorrei sperarlo. È comunque terribile dover constatare che dichiarazioni come quelle del generale dei gesuiti non servono in nessun modo a cambiare la situazione di Cuba, ma piuttosto a distogliere lo sguardo da questa martoriata nazione e a vivere serenamente recitando un tranquillizzante: “L’ordine regna a Cuba”; cioè a diventare complici, almeno per omissione, degli aguzzini e dei carnefici.

 

 

Note:

(1) Corriere della Sera, 5-9-1973.

(2) Ibidem, 8-9-1973.

(3) Riprendo il testo dall’articolo Prelado brilhante pela ausência di Plinio Correa de Oliveira, comparso sulla Fôlha de Paulo il 17 giugno 1973; l’Autore lo ricava da Cruzado Español di Barcellona, che a sua volta lo riporta dal quotidiano venezuelano La Religión, su cui la lettera in questione è stata pubblicata per la prima volta! Scrivo tutto questo non per puro amore di filologia – anche se la precisione non fa mai male -, ma perché il lettore si renda conto di come bisogna inseguire un certo tipo di notizie, trascurate inspiegabilmente dalla stampa “indipendente”, che abbonda invece in informazioni su vescovi “emarginati” come l’abate Franzoni, ma tace dei vescovi realmente esiliati.

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