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Opportunità o iniquità?

6 Novembre 2020 - Autore: Chiara Mantovani

Maternità solidale: un inganno semantico.

di Chiara Mantovani

Il timore che, una volta imboccata la strada dei diritti fondati sul desiderio, i fatti e le leggi imbocchino una discesa precipitosa e accidentata spesso è tacciato di oscurantismo.

Il 3 novembre 2020, l’avvocato Filomena Gallo — coordinatrice e difensore nel collegio difensivo di Welby e Cappato e Segretario Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni — pubblica l’articolo «La “gravidanza solidale” è un’opportunità, non un reato», e io di colpo ripasso tutta la strategia e la retorica rivoluzionaria, quella che ha consentito e alimentato la spinta inerziale verso l’abisso. Il giorno è lo stesso in cui la Camera dei Deputati licenzia il DDL Zan, dopo un dibattito, non solo culturale, lungo e faticoso nel quale le argomentazioni spesso sono state autoreferenziali (del tipo: “se osi pensare che il matrimonio è solo uomo-donna sei omofobo e mi danneggi”) e le posizioni di coloro che difendevano la realtà (del tipo: “la natura umana impone la dualità maschio-femmina per la sopravvivenza”) sono state derise e accusate di obsolescenza.

C’è un nesso tra il ddl Zan e l’utero in affitto? Più di quanto non appaia a prima vista. Al netto delle sensibilità etiche e delle convinzioni partitiche, fatto salvo il dovere di rispettare ogni essere umano prima di tutto in quanto umano, se si decide che non esiste una consequenzialità tra “come si è” e “come è bene comportarsi per sé e per la società”, l’unico ostacolo che resta al compimento del “tutto per tutti, a prescindere da tutto” è solo la procreazione. La quale resta tenacemente, pervicacemente sorda alle aspirazioni e invincibilmente legata alla biologia. Perciò, la soluzione viene cercata nella possibilità tecnica di procedere alla riproduzione umana con le stesse tecniche già collaudate in veterinaria. Credo che, se si smarrisce l’evidenza della sostanziale differenza tra i binomi apparati/ funzioni e corporeità/significato, ne possa derivare solo un equivoco colossale. Questo iniziò il 25 luglio 1978, quando nacque la prima persona umana concepita fuori dal corpo di sua madre, Louise Brown.

Perché dunque, giusto il giorno in cui in Parlamento si porta a casa la prima (forse decisiva, forse no) vittoria su un tema così sensibile (“se quel che affermi va contro i miei gusti ti punisco”), si apre lo scenario enorme della maternità surrogata? E perché si inizia dichiarandola, in positivo, una «opportunità»?

La strategia comunicativa è tanto familiare da essere ovvia. Fotografia accattivante: pancione in primo piano (che tenerezza!), sfocata sullo sfondo una coppia (giovani, carini, sorridenti, politicamente correttissimi: lei africana-lui caucasico). Casi “pietosi” citati come impellenti: la coppia vuole un bambino ma non può a causa di una malattia oppure per avere/essere dello stesso sesso. Il desiderio fonda il diritto, tanto c’è modo di aggirare l’ostacolo: la tecnica, la nuova parola talismano.

All’avvocato Gallo, invece, non sembra rilevante la corposa, spesso violenta discussione tutta intra-femminista (comprendente anche pesanti accuse di “fobie” variegate) che sta scuotendo la Francia sul significato e sull’utilizzo del corpo delle donne; né, forse, l’altrettanto violenta e, spesso, devastante guerra nelle aule di tribunale su chi sia tra le “madri” quella che ha il “diritto” o il “dovere” di abortire in caso di malformazione di un feto, che dopo il suo articolo chiameremo “solidale”; e nemmeno pare interessata alla tragedia quotidiana di giovani donne ucraine, tailandesi, bangladesi, indiane e, purtroppo, tante altre ancora.

Si inizia così: «io voglio…» e, invece di ragionare sulla fondatezza del desiderio, si pensa a come piegare la medicina e il diritto per ottenerlo.

Sono convinta che sia improrogabile una presa di posizione seria, determinata, documentata, non timorosa, ben persuasa delle ragioni indiscutibili che rendono la maternità surrogata, per terzi, solidale — o comunque la si voglia chiamare per nascondere il veleno insito nel suo stesso pensarla — più di un reato: un atto osceno di vilipendio della donna, della maternità e della civiltà. Sono già in tante le donne che si sono mosse con questo sentire, e occorre che siano sostenute, ma è di un pensiero ragionevole e umano, a misura della verità della persona, quello di cui tutti abbiamo bisogno per agire con responsabilità.

E dire che un tempo l’erba voglio non cresceva neppure nel giardino del re e oggi viene coltivata nelle speculazioni intellettuali, nei laboratori scientifici e nelle aule parlamentari.

Venerdì, 6 novembre 2020

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