
Piccolo cimento su conservatorismo e «liberalismo classico» in morte di un galantuomo coltissimo e di uno studioso serio, che univa rigore intellettuale, saldezza morale e affabilità sincera
di Marco Respinti
Il professor Lorenzo Infantino (1948-2025) ci ha lasciati sabato 18 gennaio, improvvisamente. Spetta certamente ad altri, ben più titolati, il compito di descriverne la figura e il pensiero. Io mi limito a omaggiare il galantuomo coltissimo e lo studioso serio, capace di unire rigore intellettuale, saldezza morale e affabilità sincera e non per questo compagnona, in una sorta di scritto “in onore di” irto di “assertività per sfumature”.
Si definiva «liberale classico» e rivelava alcune importanti inclinazioni conservatrici, ma le definizioni finiscono sempre per calzare sulle persone come un abito stazzonato di sartoria scadente.
Calabrese di Gioia Tauro, mente sveglia e produttiva, è scomparso mentre era all’opera su diversi testi avendo navigato per una vita filosofia, economia, scienze sociali (chissà poi cosa significa davvero questa espressione…) e sociologia, quella disciplina che, nonostante certi sociologi, certi sociologismi e certi “sociologemi”, resta disponibile a elaborazioni entusiasmanti.
Perfezionandosi permanentemente nell’Università di Oxford, dove dal 1983 è stato Senior Member del Linacre College, iniziò l’insegnamento a Scienze politiche, sempre nel 1983, nella Libera università internazionale degli studi sociali «Guido Carli» (LUISS), divenendovi professore di prima fascia di Metodologia delle scienze sociali nel 2001, quindi professore straordinario al termine dell’ordinariato e nel luglio 2024 professore onorario. Con il filosofo e storico della filosofia Dario Antiseri costituì il Centro di Metodologia delle Scienze Sociali alla LUISS, su invito del sociologo francese Raymond Boudon (1934-2013) è stato membro di Commissione del dottorato in Scienze sociali nella Sorbona di Parigi e ha fatto parte del Comitato scientifico di Procesos de mercado: revista europea de economía política, il periodico in spagnolo e in inglese fondato nel maggio 2004 dell’economista spagnolo Jesús Huerta de Soto Ballester, che è pure il fondatore e direttore del Máster Oficial de Economía de la Escuela Austriaca nella Universidad Rey Juan Carlos di Madrid, ateneo dove nel 2006 Infantino fu chiamato in qualità di professore invitato.
Gli «Austriaci»
Numerosi i titoli che Infantino ha firmato e che meritano di tornare a essere approfonditi (diversi dei quali tradotti in inglese e in spagnolo), ma uno dei suoi contributi certamente più duraturi è quello dato allo studio alla cosiddetta «Scuola Austriaca dell’Economia», non da ultimo fondando, promuovendo e curando la collana Biblioteca Austriaca per l’editore Rubbettino di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro. Perché Infantino era convinto ‒ avendo ragione da vendere ‒ che i glossatori siano decisivi per la sorte di un autore, e che gli interpreti possano anche essere imprescindibili (per esempio mettendo al riparo gli stessi autori da se stessi e da quelle loro biografie che ne sfidano le opere, fortunatamente perdendo), dunque che occorra non smarrire mai il legame diretto con gli autori stessi e i loro originali (di pensiero e di lingua), con la loro nuda lettera e i loro testi impliciti, con il loro lessico e la loro sintassi, insomma con quello che ormai fra “gli studiosi”, innamorati dello specchio magico di Biancaneve, fanno in pochi.
Con i classici degli «Austriaci» Infantino si è cimentato di continuo, avendo il merito di portare in Italia, spesso pionieristicamente, gli scritti di Carl Menger (1840-1921), Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914), Ludwig von Mises (1881-1973) e Friedrich August von Hayek (1899-1992). Ho appena scritto «merito» e non è un’espressione di maniera.
La Scuola Austriaca sorse nel cuore della Grande Vienna asburgica che il tramonto di un certo Occidente già si andava lentamente apparecchiando, mentre nell’ampia ballroom al piano di sopra si stavano altrettanto lentamente appendendo i festoni di una Belle Époque tragicamente gaia quanto chi, nel vortice della danza, non si avvede di avere solo un piede saldo sul terreno mente l’altro già pencola sopra il baratro del vuoto. Gli iniziatori, Menger e Böhm-Bawerk, reagirono infatti all’invadenza dello Stato nell’economia nel cuore della Mitteleuropa imperiale, cattolica e “da ancien regime”, con un’azione che può a buon diritto essere descritta anche come una delle offerte di riforma di fronte al male occidentale, la quale, non essendo stata invece (pienamente) accolta, vedrà allora scorrere davanti ai propri occhi la devastazione del Novecento e la fine di un mondo.
L’eredità di Menger e Böhm-Bawerk fu dunque raccolta, dopo il disastro della Prima guerra mondiale e mentre il lezzo della Seconda già saturava l’aria, da Mises, convinto che la sconfitta di quell’offerta importante non ne avesse affatto cancellato la potenza propositiva. Una volta che il terreno europeo si era oramai fatto invivibile, Mises trasportò “l’Austria” altrove, là dove l’humus fosse più fertile: un altro luogo, dove l’illuminismo e la sua progenie non avessero (ancora) compiuto passi da gigante e compiuto sfaceli, un luogo altro che permettesse ‒ almeno in ipotesi ‒ di ristabilire un contatto diretto con quell’“ancien regime” che in qualche modo era riuscito a sopravvivere un po’ “nell’Austria” alternativa al “nouveau regime”. In America Settentrionale, cioè, da un capo a un altro dell’ecumene non illuministico.
E Hayek, forse il pensatore con cui Infantino si è trovato più in sintonia, una volta portata “l’Austria” a un altro capo di quello stesso ecumene non illuministico, la Gran Bretagna, fece forse più di chiunque altro per garantire cittadinanza comune al pensiero degli «Austriaci».
Il «Libertarianesimo»
Ora, quando Mises la condusse oltre l’Atlantico, la Scuola Austriaca il terreno fertile lo incontrò immediatamente nel tipo di uomo e di pensiero ben rappresentato dal genere del “pioniere”, “un medioevale” fuori tempo e fuori luogo di cui non è difficile constatare affinità antropologiche significative non solo ma anche con il cosiddetto “jeffersonismo di destra” ‒ con riferimento a Thomas Jefferson (1743-1826), uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti, non certo un emblema del conservatorismo ma capace di esercitarvi influenze comunque decisive ‒ e con quell’anarchismo nordamericano non di sinistra che dal pensatore Lysander Spooner (1808-1887) arriva fino al classicista Albert Jay Nock (1870-1945), forte della lezione delle Cato’s Letters, ovvero i saggi pubblicati con pseudonimo a Londra fra il 1720 e il 1723 dall’inglese John Trenchard (1662-1723) e dallo scozzese Thomas Gordon (c. 1691-1750). Si noti il blasone scelto per pseudonimo: il celeberrimo senatore conservatore di Roma antica Marco Porcio Catone (95-46 a.C.), nemico implacabile della tirannia e campione della tradizione avita romana, giusto per dire la stoffa di certi anarchici.
Da quell’incontro, e alla scuola di Mises, sorse così negli Stati Uniti il «Libertarianism», che tradurre in italiano con «Libertarismo» è troppo ambiguo e per il quale è stato proposto ‒ ma le perplessità permangono ‒ il neologismo «Libertarianismo» (o «Libertarianesimo»). Ora, il Libertarianism non esisterebbe senza tanto la Scuola Austriaca dell’Economia quanto il cosiddetto «liberalismo classico». Ma qui si apre un’altra serie di problemi. Ne evoco per ora due: cosa sia, e possa essere, la Scuola Austriaca senza il Libertarianism e cosa sia il «liberalismo classico».
Il primo di questi due problemi può essere descritto anche in questi termini: dire che senza la Scuola Austriaca non esisterebbe il Libertarianism significa dire che la Scuola Austriaca deve per forza finire nel Libertarianism? Infantino diceva no. Lui (con altri) è stato un assertore convinto della Scuola Austriaca, ha dialogato con il Libertarianism, ma da questo ha poi finito per ritrarsi, quasi indispettito. Se non altro dall’elaborazione dell’economista e filosofo Murray N. Rothbard (1926-1995), che per molti versi del Libertarianism può essere considerato il padre. Per Infantino (e per altri) il Libertarianism rappresenta infatti un eccesso inaccettabile e un esito non necessario della Scuola Austriaca. Ma una chiosa va aggiunta.
Libertà e ordine
Il Libertarianism afferma che la Scuola Austriaca considerata per intero mostrerebbe tutta l’insufficienza del «liberalismo classico» e, considerandosi un “liberalismo coerente”, giunge sino a divenire in certa misura anti-liberale e persino reazionario.
Ma la verità è forse un’altra ancora. Gli “eccessi” del Libertarianism possono a buon diritto venire considerati lo stress-test della Scuola Austriaca, vale a dire un laboratorio di possibilità che valuti tenuta e resa sia degli «Austriaci» sia della posta messa in gioco dal loro pensiero: una critica all’idea di modernità.
Il Libertarianism funzionerebbe, insomma, come un paradosso: un esperimento surreale e irreale, persino assurdo, ma che, proprio per questo, è in grado di mettere a nudo il re, evidenziando i punti di forza e di debolezza di una ipotesi. Questo è per esempio il senso di una raccolta di saggi quale Un libertario quasi cristiano. Il percorso culturale di Murray N. Rothbard, curato da don Beniamino di Martino e pubblicato ora per il trentennale della morte del pensatore statunitense.
Rothbard è certamente discutibile, e molti lo discutono; ma ciò che merita discussione è il contrario di ciò che nemmeno merita considerazione.
Il padre della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, Russell Kirk (1918-1994), si è trovato in pieno disaccordo, e persino ai ferri corti, con Rothbard, e di questo occorre essere coscienti e portare sempre memoria. Ma ciò non significa ignorare Rothbard e persino fatti innegabili come il suo giungere a un accordo nei fatti con Kirk nel valutare l’importanza storica e persino teoretica dell’epoca coloniale nordamericana, ponte fra mondo antico e mondo nuovo, quanto al rapporto fra ordine e libertà. E poi anche nel riscoprire la centralità della Scuola di Salamanca della scolastica spagnola, nel ricuperare il pensiero economico medioevale, nel riabbeverarsi al tomismo. Rothbard (mi dissero alcuni che gli erano vicini) morì studiando la Summa theologiae di san Tommaso d’Aquino (1224/1226-1274) e riscoprendo, dietro il pensiero di essa, la cifra di un’antropologia autenticamente di libertà, oltre che di ordine, connaturata a quella cara alla Scuola Austriaca, di fatto agli anarchici anglofoni non di sinistra e pure ai “pionieri” americani.
Il «liberalismo classico»
Con tutto questo Infantino è stato in dialogo per tutta la durata della sua carriera scientifica, a volte portando fiori, a volte portando il fioretto. Ma questo riporta al secondo dei due problemi cui conduce l’incontro-scontro fra Scuola Austriaca e Libertarianism: il «liberalismo classico». Cosa infatti esso sia è difficile dire. Un poco più semplice è dire cosa non sia: non è il liberalismo giacobino alle volte razionalista e sempre relativista, alla bisogna persino statalista (benché paia un ossimoro), immancabilmente costola del pensiero di sinistra al punto di dare vita anche al liberal-socialismo.
Proprio alla scuola di Hayek, a cui Infantino deve molto, si potrebbe persino ipotizzare di abbandonare l’uso del termine, tanto esso è inservibile (ma forse qui Infantino non sarebbe d’accordo).
Consegno ad altra occasione l’onere dell’approfondimento. Qui mi limito a ricordare che Hayek, ne La società libera (1960), precisa di non considerarsi un conservatore. Preferiva infatti dirsi «old whig» alla scuola del pensatore e statista irlandese Edmund Burke (1729-1797). Ma gli old whig, distinti e distanti dai «new whig» con cui Burke polemizzò seriamente, sono alla base del conservatorismo anglosassone moderno, almeno in politica. Una distinzione importante, questa, da tenere presente quando si ragiona di «liberalismo classico»: ché fra i «liberali classici», un conto sono gli old whig, un conto è un Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) e un conto un Lord Acton (John Emerich Edward Dalberg-Acton, 1834-1902), critico severo di Cavour e della Rivoluzione Francese (1789-1799).
Un’ultima cena
Infantino è una figura che non smetterà mai di offrire spunti preziosi di ragionamento, stimoli imprescindibili di riflessione e studi da studiare davvero.
Dei percorsi del pensiero attuale, alcuni dei quali accennati in questa sede, di quanto la civiltà contemporanea sia immemore e ingrata, della poca messe cresciuta in certi campi pur fertilissimi e del rischio del nulla che incombe oggi dietro l’angolo Lorenzo Infantino discusse a una tavola privata in una bella villa romana il 13 maggio. Era preoccupato ma senz’angoscia, conscio di avere tentato di fare quanto in proprio potere fare, lasciando inevitabilmente il resto a dinamiche impossibili da controllare o anche solo prevedere, ma ancora senza smettere di pensare, elaborare, scrivere. Gli altri commensali erano interlocutori e figure importanti del conservatorismo statunitense, studiosi di vaglia italiani e persino, da ultimo, il sottoscritto.
Ne conservo cara la memoria, quella che per sopravvivere all’ingiuria del tempo gode soltanto di due supporti: i ricordi, purtroppo però facilmente preda dell’usura, appartenendo alla sfera delle cose caduche umane, e i libri, fortunatamente un po’ più duraturi. Al che consola un passo nelle Epistolae Metricae (I, 6, 188-189) di Francesco Petrarca (1304-1374), di cui Lorenzo Infantino avrebbe percepito e apprezzato la profondità per nulla solo romantica: «Nunc hos, nunc illos percontor; multa vicissim / Respondent, et multa canunt et multa loquuntur», «Ora questi, ora quelli interrogo, e a propria volta molti rispondono, molti cantano e molti parlano». Il soggetto sono appunto i libri che sì, a volte rispondono, soprattutto quando bene interrogati.
Lunedì, 20 gennaio 2025