di Chiara Mantovani
A leggere solo i titoli dei giornali di stamattina, come del resto ogni giorno fanno davvero in tanti, il Convegno a inviti della World Medical Association tenutosi ieri, 16 novembre 2017, nell’Aula Vecchia del Sinodo in Vaticano sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, sarà sembrato un avvenimento epocale. Tanto per avere una piccola misura, ecco una carrellata: la Repubblica, Fine vita, svolta del Papa: “Evitare accanimento terapeutico non è eutanasia”; La Stampa, Fine vita, l’apertura di papa Francesco ; il Giornale, Anche la Chiesa può cambiare ; e La Gazzetta del Sud, Fine vita, papa Francesco: “Moralmente lecito stop a cure sproporzionate”.
Peccato che nulla di quello che c’è scritto nel messaggio di saluto del Santo Padre ai convegnisti presenti il benché minimo accenno di novità o di cambiamento rispetto al pensiero cattolico di sempre: ogni ammalato, quali che siano la sua condizione di gravità o il tipo di malattia, ha nella propria dignità di persona il titolo per essere accudito, rispettato, aiutato, ascoltato, soccorso e, fino in fondo, amato. Che il cosiddetto “accanimento terapeutico” sia una condotta deplorevole e illecita è stato scritto nel Codice deontologico dei medici da molto tempo, e comunque successivamente all’ampia e competente disamina del Venerabile Papa Pio XII (1876-1958). Siamo sinceri e mettiamo da parte la faziosità stessa della denominazione: i nostri amici, i nostri cari, noi stessi talvolta, siamo stati più facilmente subissati di cure non volute o abbiamo arrancato per ottenere ciò che ci era necessario, in termini sia quantitativi sia qualitativi?
Non è il caso che i senatori a vita tifino per la proposta di legge appoggiandosi ai titoloni dei giornali su Papa Francesco: va bene che ora, con l’Italia fuori dai Mondiali di calcio, bisognerà pure tifare spasmodicamente per qualcosa. Ma il DDL in discussione sulle problematiche di fine-vita non è la traduzione legislativa del messaggio papale. Tutt’altro. L’autodeterminazione là contemplata è la mortificazione del rapporto paziente-medico, che si vorrebbe stabilito sul contratto stipulato attraverso la firma di un consenso. Nelle parole del Pontefice è ribadito che l’atto medico è fondato su una relazione umana che ascolta, spiega, si prende cura e non abbandona nessuno. Possiamo interrogarci sull’unità di misura dell’unico termine “difficile”, quel proporzionato che da un po’ facciamo fatica a spiegare, ma che non ha cambiato senso, se abbiamo qualche dimestichezza con il magistero bioetico. Messa da parte la rivendicazione di fare ciò che ci pare a prescindere, che è un tema importante ma che esula dalla competenza clinica e che non deve coinvolgere la medicina, se il nostro fine è sinceramente tutto il bene di chi soffre, la misura è data dall’armonizzazione tra sollievo dal dolore, speranza di salute (e di salvezza), reali traguardi raggiungibili, disponibilità delle risorse, desiderio di condivisione e di riservatezza insieme, bisogno di senso.
Quel miscuglio, inestricabile nell’umano, di “qui e subito” nonché di “oltre e per sempre”.