Il 20 settembre 1793 in Francia fu approvato il Calendario Rivoluzionario, e due giorni dopo fu proclamata la Repubblica. Lo ricordiamo proponendo questa recensione, pubblicata nel febbraio del 1989.
Luigi Casalini, Cristianità n. 166 (1989)
Pierre Gaxotte, La Rivoluzione Francese, Mondadori, Milano 1989, pp. 480, L. 14.000
Pierre Gaxotte nasce nel 1895 a Revigny, nel dipartimento della Mosa, da un’antica famiglia lorenese. Studia all’École Normale Supérieure e diventa professore di storia, quindi si dedica al giornalismo giungendo a essere redattore capo dei settimanali Candide e Ric et rac. Eletto all’Académie Française nel 1953, muore a Parigi nel 1982.
Cultore di storia, soprattutto francese, fra le sue opere si possono ricordare Frédéric II, roi de Prusse (Albin Michel, Parigi 1959), Louis XIV (Flammarion, Parigi 1974), Le siècle de Louis XV (Fayard, Parigi 1974), Histoire de l’Allemagne (Flammarion, Parigi 1975) Louis XV (Flammarion, Parigi 1980) e Paris au XVIIIe siècle (Arthaud, Parigi 1982).
Lo studio a cui è principalmente legato il suo nome, e non solo in Francia, è La Rèvolution Française, pubblicata per la prima volta nel 1928, più volte riveduta e aumentata dall’autore, fino all’ultima edizione da lui curata nel 1975; di essa Jean Tulard, docente all’École Pratique des Hautes Études e alla Sorbona, ha preparato un’edizione critica per le Editions Complexe di Bruxelles nel 1988. Più volte pubblicata anche in Italia, l’edizione proposta da Mondadori nella collana Biografie e storia degli Oscar è quella edita da Fayard nel 1970.
La Rivoluzione Francese si divide in sedici capitoli, quattro dei quali sono dedicati ai prodromi della Rivoluzione, nove al periodo che va dai primi di maggio del 1789 al 28 luglio 1794 – giorno dell’esecuzione capitale di Maximilien Robespierre e di Louis Saint-Just – e tre descrivono il tempo fra la fine del Terrore e l’avvento al potere di Napoleone Bonaparte nel 1799, anche se di quest’ultima fase del processo sono date solamente le grandi linee dal momento che i due terzi dello studio sono dedicati ai primi cinque anni della Rivoluzione.
Dopo una Breve cronologia degli avvenimenti principali dal marzo 1789 al 1796 (pp.5-8), l’opera inizia con un capitolo su L’Antico Regime (pp. 11-28), una descrizione del regno di Francia con brevi cenni anche sulla sua storia medioevale – a proposito della quale vengono mess in evidenza i ruoli rispettivi della Chiesa e della monarchia nell’edificazione dell’unità nazionale –, sottolineando come lo Stato che precede la Rivoluzione sia sostanzialmente organico, cioè lasci ampi spazi di autonomia ai singoli, alle famiglie e ai corpi intermedi.
Nel secondo capitolo – Lo Stato povero nel Paese ricco (pp. 29-51) – Pierre Gaxotte sfata il mito secondo cui la Francia prerivoluzionaria sarebbe stata in miseria: di contro, infatti, nel 1789 la ricchezza di tutti i ceti sociali era in crescita, fatta eccezione per la nobiltà rurale; l’industria era in grande espansione e il movimento commerciale nel 1788 verrà uguagliato soltanto nel 1848. In particolare, i contadini possiedono più della metà delle campagne francesi e una gran parte dell’altra metà, in mano ai nobili, al clero e alla borghesia, è costituita da boschi e da terreni improduttivi. Le tasse feudali in numerose provincie sono molto basse, talora irrisorie, comunque non superano mai il 10-12% del reddito del fondo; la stessa struttura feudale, inoltre, offre ai più poveri la possibilità di far legna, foraggio e letame gratuitamente, sì che appunto i più poveri saranno i più danneggiati dalla trasformazione in senso capitalistico del regime agrario nei periodo successivo al 1789. In una nazione così ricca, lo Stato è invece povero e in esso – soprattutto dopo l’ascesa al trono di re Luigi XVI – si verifica un tracollo senza precedenti delle finanze statali, una crisi il cui principale responsabile è il ministro delle Finanze Jacques Necker, realizzatore di una serie di operazioni che portano il bilancio pubblico allo sfascio.
Ma «il dramma del Settecento non risiede, in verità, nelle guerre, né nelle Giornate della Rivoluzione ma nella dissoluzione e nel capovolgimento delle idee […]. Sommosse e massacri ne saranno solo la manifestazione più clamorosa e violenta. Quando avverranno, il vero danno sarà stato già da lungo tempo compiuto» (p. 53). E al «vero danno» sono dedicati il terzo e il quarto capitolo, La dottrina rivoluzionaria (pp. 52-71) e La crisi dell’autorità (pp. 72-104). Infatti, con la dissoluzione delle idee tradizionali e con l’avvento dei «nuovi filosofi» illuministi e razionalisti si diffonde una concezione «immacolata» dell’uomo e dilaga lo spirito del dubbio e dell’inquietudine, mentre la cultura emergente, che si esprime organicamente nell’Encyclopèdie, fa proprio l’ateismo, il liberalismo economico e l’utopia dello stato di natura. Purtroppo – verificando il noto adagio secondo cui piscis a capite foetet, «il pesce comincia a puzzare dalla testa» – i primi a ribellarsi alle idee tradizionali sono proprio i nobili e le «mille testoline incipriate si inebriano delle teorie che le faranno rotolare nel paniere di Sanson» (pp.73- 74), cioè sotto la ghigliottina. François-Marie Arouet, più noto come Voltaire, e Jean-Jacques Rousseau hanno come mecenati nobili di altissimo rango, e gli stessi aristocratici fanno a gara per mettere in ridicolo la religione cattolica e il re. Pierre Gaxotte non manca di far notare che «questi nobili non sono dei semplici privati. Sono servitori dello Stato, magistrati, ufficiali, ambasciatori, ministri. La loro fìlosofia è, in certo qual modo, un tradimento: come potranno infatti difendere il re e la monarchia se sono persuasi che la miglior forma di governo è la democrazia?» (pp. 77-78). Quasi tutte le leve di comando sono nelle mani di questi «illuminati»: basti dire che, attorno alla metà del Settecento, molti difensori dell’autorità avevano avuto noie giudiziarie per aver osato criticare Voltaire e l’Encyclopèdie. Lo stesso re Luigi XVI è infatuato delle «nuove idee»: di carattere debole e sentimentale, si iscrive a una loggia massonica di Corte dopo un solo anno di regno e cade in balia dei «nuovi filosofi» ascoltando i loro consigli e costringendo alle dimissioni i ministri lealisti. Un comitato centrale, il Club dei Trenta – una lobby sul tipo della Commissione Trilaterale –, di cui fanno parte «patrioti» come Charles-Maurice Périgord de Talleyrand, vescovo di Autun, Honoré-Gabriel Mirabeau, Marie-Joseph La Fayette e l’abbé Emmanuel-Joseph Siéyès, influenza il governo in modo determinante.
Nel quinto capitolo – L’anarchia (pp. 105-142) – vengono descritti i prodromi della Rivoluzione immediatamente precedenti l’assalto alla Bastiglia. Dopo le elezioni degli Stati Generali nel marzo del 1789 e la loro apertura a Versailles il 5 maggio, il 10 giugno il Terzo Stato si ribella e il 24 dello stesso mese Louis-Philippe-Joseph, duca d’Orléans, e quarantasette nobili massoni si uniscono ai ribelli. Il 12 luglio scoppia la rivolta a Parigi e due giorni dopo – in quel 14 luglio divenuto memorabile – una folla ubriaca di sangue assale la Bastiglia, dalla quale vengono liberati «sette prigionieri: quattro falsari, un giovane debosciato rinchiuso su richiesta della famiglia e due pazzi» (pp. 128-129); vengono inoltre sequestrati due presunti attrezzi di tortura, rivelatisi poi un’armatura medioevale e «una pressa da stampa sequestrata nel 1786 a un certo François Lenormand» (p. 129). Il 22 luglio viene massacrato l’intendente di Parigi: un soldato gli strappa il cuore e un altro gli stacca la testa per issarla su un bastone e portarla in giro come un trofeo. Il 5 ottobre manifestanti invadono il Castello di Versailles attaccando i soldati posti a difesa della residenza: «alcune guardie del corpo vengono ferite, altre trucidate, i loro cadaveri fatti a pezzi e trascinati nel.fango. Le donne li calpestano; c’è qualcuno che raccoglie grumi di sangue e se li sfrega sulle braccia e sul viso. Si grida: “Vogliamo il cuore della regina!”, “Vogliamo tagliarle la testa, strapparle il cuore, ,friggerle il fegato, fare nastri con le sue budella, e farla finita!”» (p. 141).
Quando si chiude il 1789, dopo soli pochi mesi dall’inizio della Rivoluzione, lo Stato è alla completa bancarotta, descritta da Pierre Gaxotte nel sesto capitolo – Gli assegnati (pp. 143-170) – mentre nel settimo – Varennes (pp. 171-195) – si tratta della confisca dei beni del clero e delle disposizioni che a essa si accompagnano: il 12 luglio del 1790, con la Costituzione Civile del Clero stesso, vengono destituiti quarantotto vescovi ed è permessa la presenza di un parroco ogni diecimila abitanti, mentre il 27 novembre dello stesso anno l’Assemblea Costituente decide che tutti gli ecclesiastici devono giurare di osservare la Costituzione che li riguarda, pena la sostituzione e la persecuzione legale. Papa Pio VI dichiara sacrileghe le consacrazioni di quei vescovi che avessero giurato fedeltà a tale Costituzione – saranno sessanta alla fine di aprile del 1791 –: nasce così una Chiesa clandestina, fedele al Sommo Pontefice, a fronte di una «Chiesa costituzionale», formata da quanti hanno accettato o sono venuti a compromessi con la Rivoluzione e le sue pretese.
A partire dalla seconda metà del 1790, di fronte all’aumento delle astensioni nelle competizioni elettorali, una minoranza «pura e coraggiosa» – sono parole di Maximilien Robespierre – incrementa il proprio potere a spese della «maggioranza imbecille e corrotta» (p.199): il sindaco di Parigi viene eletto, nel novembre del 1791, con 6.728 suffragi su 80.000 iscritti a votare e 10.000 votanti. In questo clima, il 20 aprile 1792 i «patrioti» decidono la guerra.di aggressione contro l’Impero asburgico e contro il Regno di Prussia, dando così inizio a un conflitto che praticamente terminerà soltanto ventitrè anni dopo con la battaglia di Waterloo.
Dopo aver esposto gli avvenimenti relativi nell’ottavo capitolo, intitolato appunto La guerra (pp. 196-225), Pierre Gaxotte dedica il nono capitolo a Il crollo della monarchia (pp. 226-248). In seguito allo scoppio della guerra, infatti, la Rivoluzione cerca nemici interni da neutralizzare: Jacques-Pierre Brissot de Warville lancia il grido «Abbiamo bisogno di grandi tradimenti», e «ben presto, i club sparsero e confermarono la voce che il nemico avesse dei complici in Francia: gli aristocratici, i generali, gli ecclesiastici, il “comitato austriaco”» (p. 227). Il 27 gennaio 1792 viene fatto votare un nuovo decreto sulla cui base «ogni prete refrattario [al giuramento di fedeltà alla Costituzione Civile del Clero] denunciato da venti cittadini attivi sarebbe stato espulso d’ufficio dal territorio francese» (ibidem). A questo punto re Luigi XVI ha un salutare soprassalto e congeda i ministri rivoluzionari, ma segna così anche la propria condanna: infatti, il 10 agosto viene dato l’assalto al Palazzo Reale, massacrati i difensori e lo stesso Luigi XVI imprigionato con la famiglia. Jean-Paul Marat, uno dei capi rivoluzionari, ripete ossessivamente «[…] sopprimete i vostri nemici, sterminate le vostre vittime. Colpite quelli che hanno carrozze, servitori, vestiti di seta. Visitate le prigioni, massacrate i nobili, i preti, i ricchi. Non lasciate dietro di voi che cadaveri e sangue» (p. 245). Sulla base di queste indicazioni inequivoche il «macello» viene organizzato con metodo.
Nel decimo capitolo – intitolato La Gironda (pp. 249-286) – viene descritta la morte di re Luigi XVI, ghigliottinato il 21 gennaio 1793 dopo un processo-farsa, avvenimento che costituisce l’inizio ufficiale del periodo del Terrore, al quale è dedicato l’undicesimo capitolo, La rivoluzione vittoriosa (pp. 287-315), in cui – sulla base tragicamente incontrovertibile delle atrocità commesse a Lione e a Tolone e di quello che non si può chiamare diversamente da «genocidio vandeano» – si prova che «il Terrore è divenuto l’essenza stessa della Rivoluzione, poiché la Rivoluzione non è stata un semplice cambiamento di regime, ma un’organizzazione di esproprio e di sterminio» (p. 315): cioè il Terrore ha semplicemente organizzato in modo razionale quello che in precedenza veniva fatto non sistematicamente.Allo stesso modo si mostra che la persecuzione anticattolica non nasce in questa fase, ma in essa diventa brutale e blasfema: vengono infatti abbattute croci, profanate chiese, bruciati Vangeli e crocifissi, e sono inscenate processioni con asini in cappa e mitria.
Il dodicesimo capitolo tratta de Il terrore comunista (pp. 316-354) cioè del periodo che va dalla fine del 1793 fino all’esecuzione di Maximilien Robespierre nel 1794. Lo Stato diventa sempre più accentratore e resta l’unico importatore dall’estero, oltre a controllare tutte le esportazioni; vengono imposte corvée obbligatorie agli operai che avevano già perduto il diritto di associazione e di sciopero; vengono nominati commissari con compiti di controllo e «Saint-Just proclama alla Convenzione la necessità di portare a compimento la rivoluzione sociale con una nuova distribuzione delle ricchezze» (p. 338); vengono costituiti i Comitati di Sorveglianza, incaricati di separare i «buoni» dai «cattivi», di distribuire certificati di civismo e di compilare le liste dei sospetti: viene infine inaugurato un calmiere dei prezzi, ma il risultato è che tutte le derrate spariscono e la Francia è ridotta alla fame. Lo stesso Louis Saint-Just, a quanti gli obiettano «che i rivoluzionari non sono la comunità […], risponderà che la Volontà Generale non è la volontà della maggioranza, ma è la volontà dei puri, che hanno il compito di rivelare alla nazione i suoi veri desideri e la sua vera felicità» (p. 339). E la ghigliottina uccide, nella sola Parigi e in poco più di un mese,1376 persone, mentre enormi carneficine si consumano in tutta la Francia.
Nel capitolo seguente – è il tredicesimo ed è intitolato Robespierre (pp. 355-393) – Pierre Gaxotte tratta dell’istituzione di un nuovo calendario, imposto dai «patrioti» e diviso in decadi e non più in settimane, nel quale scompaiono le domeniche, le festività religiose e le ricorrenze dei santi; le «nuove autorità» incarcerano le persone che non lavorano alla domenica, ordinano ai sacerdoti di prender moglie, vietano loro di indossare la talare fuori dalle chiese e sugli ingressi dei cimiteri viene incisa la frase «La morte è un sonno eterno» (p. 370). Anche i preti «costituzionali», cioè quelli che hanno accettato la Costituzione Civile del Clero, vengono messi a morte e il 23 novembre 1793 il Comune decreta la chiusura di tutte le chiese di Parigi, mentre viene fatto il tentativo di fondare una nuova religione democratica e panteista: «Il poeta Dorat-Cubières fu incaricato di tradurre in italiano i decreti e i discorsi antireligiosi, che sarebbero poi stati inviati al papa “per guarirlo dei suoi errori”» (p. 373). L’8 giugno 1794, già domenica di Pentecoste e ora festa dell’Essere Supremo, Maximilien Robespierre presiede il nuovo rito al Campo di Marte, raggiunge il vertice della popolarità ma attira su di sé l’invidia degli altri «Patrioti» e ne eccita la rivalità, sì che questi, temendo anche per la propria vita, gli si ribellano, lo arrestano e lo mettono in stato d’accusa: quindi lo stesso Maximilien Robespierre, non essendo riuscito a sedare la rivolta, il 28 luglio 1794 viene ghigliottinato insieme a Louis Saint-Just e a centotrè complici.
Con il tredicesimo capitolo, e con la morte di Maximilien Robespierre, si chiude la parte centrale dell’opera di Pierre Gaxotte, anche se nei tre capitoli conclusivi – La convenzione termidoriana (394-414), Il Direttorio (pp. 4 15-444) e Brumaio (pp. 445-467) – lo storico francese riesce a fornire un’idea adeguata della continuità delle misure repressive nei confronti dei contro-rivoluzionari e della Chiesa dal 1795 al 1799, mostrando come il Terrore non finisce ma si cela «[…] manovrato da degli ipocriti, dei Tartufes. La Convenzione, almeno, aveva rizzato il patibolo nel mezzo di Parigi. Quando il Direttorio fucila, è di nascosto, a Grenelle. […] Non uccide: fa morire» (p. 446). In un anno 1.448 sacerdoti francesi e 8.235 sacerdoti belgi vengono deportati e lasciati morire a Caienna, la capitale della Guiana Francese; si giunge perfino a vietare la vendita del pesce nei giorni di astinenza, e, se non si osa imporre un’uniforme obbligatoria, si impone a tutti di portare la coccarda tricolore: ritorna anche la persecuzione contro i commercianti e gli industriali, finché, sostenuto da alcuni moderati timorosi del risorgere del giacobinismo, Napoleone Bonaparte prende il potere con il colpo di Stato del 9 e 10 novembre 1799, salutato come il salvatore della patria.
La Rivoluzione fa un passo indietro: presto assumerà un abito «imperiale», e Pierre Gaxotte conclude: «In dieci anni, la Rivoluzione aveva sconvolto ogni calcolo e deluso ogni speranza. La gente si era aspettata un governo ordinato e stabile, delle finanze sane, delle leggi sagge, la pace con le altre nazioni e la tranquillità in patria. Aveva avuto invece l’anarchia, la guerra, il comunismo, il Terrore, la carestia e due o tre bancarotte. La dittatura napoleonica conciliò il bisogno di autorità con l’ideologia democratica. Fu un espediente ideato da teorici senza vie di scampo. Gli ideologi del 1789 volevano rigenerare l’umanità e ricostruire il mondo. Per sfuggire ai Borboni, gli ideologi del 1799 furono ridotti ad affidare il potere a un soldato» (p. 467).
Se La Rivoluzione Francese è descrizione accurata dei «dieci anni che sconvolsero il mondo», in essa i fatti ben documentati operano un’abbondante demitizzazione della Grand Révolution. Anzitutto, Pierre Gaxotte prova che – pur esistendo un indubbio sviluppo del fatto rivoluzionario dal 1789 al 1799 – sono fin dall’inizio presenti i tratti dispotici che troveranno la loro realizzazione nel periodo del Terrore: per esempio, i caratteri anticattolici della Rivoluzione si manifestano già il 2 novembre del 1789, meno di quattro mesi dopo la presa della Bastiglia, quando, con la legge Talleyrand, «i beni del clero vennero dichiarati a disposizione della nazione» (p. 162), mentre quattro giorni prima, «il 28 ottobre 1789, un decreto a sorpresa in fine di seduta aveva sospeso a titolo provvisorio l’emissione dei voti solenni nei monasteri. il 13 febbraio del 1790, il divieto diventava definitivo» (p. 172). E gli avvenimenti del primo anno successivo alla presa della Bastiglia provano, in genere, che non è fondata una contrapposizione fra un preteso carattere pacifico del periodo iniziale della Rivoluzione e la successiva fase giacobina, quella che va sotto il nome di Terrore.
Quanto, poi alla cosiddetta «struttura di classe» del fenomeno rivoluzionario, si dimostra che la maggior parte delle vittime è costituita da operai, da contadini e da persone appartenenti al popolo minuto: per esempio, secondo calcoli riportati dell’autore, il 28% degli uccisi ad opera dei «patrioti» è rappresentato da contadini, mentre gli operai, gli artigiani e i commercianti formano il 41%.
Insomma, nel bicentenario dell’Ottantanove, mentre la retorica commemorativa ha il più delle volte la meglio sulla corretta informazione storica, l’opera di Pierre Gaxotte – qualificata da Jacques Godechot, autore di ben diverso orientamento, come «intelligente, ben informata, ben scritta» (Le Rivoluzioni, trad. it., Mursia, Milano 1985, p. 236) – costituisce – nonostante inadeguati giudizi su argomenti a margine di quanto in essa trattato, come per esempio sul regime feudale – strumento privilegiato per accostare un avvenimento complesso e ricco di conseguenze ancora operanti.
Luigi Casalini