MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 282 (1998)
Il problema
L’attenzione con cui l’opinione pubblica mondiale segue — giustamente — i drammatici problemi della pedofilia riporta periodicamente alla ribalta anche episodi, antichi o recenti, in cui sono stati purtroppo coinvolti sacerdoti o religiosi cattolici. Alcuni casi statunitensi e canadesi hanno avuto grande risonanza, e hanno indotto singole diocesi e le conferenze episcopali nordamericane ad avviare inchieste e a proporre misure preventive. La letteratura, il cinema e la televisione si sono impadronite del tema. Non vi è congresso scientifico di sociologia religiosa — da ultimo quello dell’Association for Sociology of Religion tenuto a San Francisco nell’agosto del 1998, dove sono stato relatore — nel quale l’argomento non susciti interesse e controversie. Queste ultime non riguardano certamente l’esistenza del fenomeno ma la sua prevalenza. Siamo chiari: anche un solo caso di pedofilia nel clero sarebbe un caso di troppo, nei confronti del quale le autorità civili e religiose hanno non solo il diritto, ma il dovere di intervenire energicamente. Tuttavia stabilire quanti sono i preti e i religiosi cattolici pedofili non è irrilevante. Le tragedie individuali sono difficilmente descritte dalle statistiche, ma il quadro statistico può aiutare a capire se si tratta di casi isolati o di epidemie, o se vi è qualche cosa nello stile di vita del clero cattolico che rende questi episodi più facili a verificarsi di quanto non avvenga, per esempio, fra i pastori protestanti o fra i maestri di scuola laici.
Tre tesi: 1. l’unicità della Chiesa cattolica
Tre tesi si contrappongono nel mondo di lingua inglese, il più toccato dal fenomeno. La prima — largamente pubblicizzata da opere giornalistiche di grande diffusione e da inchieste televisive — è che, benché problemi esistano occasionalmente anche in altre denominazioni e Chiese, la Chiesa cattolica — almeno in Nord America — ospita una percentuale di pedofili elevata e unica rispetto a tutti i gruppi religiosi dotati di un clero o di religiosi. Le statistiche che sono fatte circolare — spesso senza troppo preoccuparsi delle fonti — parlano di migliaia di casi (1). Si è sentito dire, per esempio ripetutamente in talk show televisivi americani, che il cinque o il sei per cento dei preti statunitensi sono “pedofili”. Le spiegazioni che sono offerte per questa situazione sono di due tipi opposti. L’idea prevalente — non soltanto nei media ma anche nell’analisi di intellettuali influenti come Andrew Greeley, egli stesso sacerdote cattolico e autore nel 1993 di un romanzo best seller sul tema, Fall from Grace (2) — è che responsabile del problema sia il celibato — o il voto di castità dei religiosi —, non più tollerabile nella società contemporanea. Attivisti contro il celibato, a una riunione del 1996 della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d’America, protestavano per la presunta esplosione della pedofilia in clergyman con slogan come “La Chiesa è il vero sodomita”. All’estremo opposto della polemica ideologica, ambienti conservatori prendono per buone le statistiche dei media e denunciano la tolleranza delle diocesi americane nei confronti degli omosessuali o il lassismo dei seminari. È un fatto — affermano, senza aver torto — che si abusa di bambini molto più che di bambine. Ne deducono che la mancata vigilanza nei confronti dei sacerdoti omosessuali è la principale responsabile della pedofilia.
2. La “criminalità clericale”
La seconda posizione è rappresentata da Anson Shupe, sociologo dell’Indiana-Purdue University, e dai suoi collaboratori. Shupe, un noto esperto di nuovi movimenti religiosi, sostiene da anni che la “criminalità in colletti bianchi” è oggi affiancata, per una serie complessa di ragioni, da una “criminalità clericale”, diffusa presso ministri di tutte le confessioni che comprende anche — se non soprattutto — reati economici e finanziari (3). In tema di abusi sessuali Shupe sostiene — ancora in uno studio inedito presentato al convegno di San Francisco — che questi sono più diffusi fra il clero cattolico che altrove, anche se le cifre correnti sono certamente esagerate. Il sociologo dell’Indiana peraltro non è convinto che il celibato o la tolleranza dell’omosessualità spieghino il fenomeno: infatti alcune denominazioni al cui clero non viene richiesto il celibato — episcopaliani, avventisti — o che attaccano in modo militante le campagne per i diritti degli omosessuali — mormoni — avrebbero percentuali di rischio simili alla Chiesa cattolica. Il problema, ritiene Shupe, è che la Chiesa cattolica — come la Chiesa mormone o quella episcopaliana — è una struttura piramidale, gerarchica, con un sistema che tende naturalmente, a prescindere dalle buone intenzioni individuali, a proteggere una figura religiosa quando è attaccata dall’esterno. Questa dinamica, se ha portato in altri settori vantaggi alle Chiese organizzate in modo più gerarchico, avrebbe anche permesso ai pedofili di sentirsi in qualche modo protetti e tutelati. Shupe pensa che i casi di pedofilia clericale cattolica nell’ultimo trentennio negli Stati Uniti d’America e in Canada siano un paio di migliaia, e coinvolgano intorno all’uno per cento dei sacerdoti e dei religiosi. Ma ammette che le statistiche sono difficili perché, a partire da poche centinaia di condanne, occorre estrapolare e speculare sulla base di sondaggi su quanti casi non sono denunciati — oggi, certo, meno di ieri — per malintesa lealtà verso la Chiesa, per vergogna o per timore di conseguenze negative.
3. Il panico morale
I dati di Anson Shupe non sono tanto contestati quanto piuttosto rovesciati nell’interpretazione da altri sociologi come Philip Jenkins, professore alla Pennsylvania State University e autore nel 1996 di un testo importante sul tema, Pedophiles and Priests (4). Philip Jenkins ammette che vi siano diverse centinaia — forse più di un migliaio — di casi in cui sacerdoti o religiosi cattolici nordamericani sono stati coinvolti in casi di pedofilia negli ultimi trent’anni. Una percentuale realistica potrebbe essere dello 0,2% rispetto all’insieme del clero e dei religiosi maschi. Se si vuole arrivare a percentuali più alte bisogna dare una definizione di “pedofilia” non tecnica e includere sia tutti i casi di rapporti sessuali con minori di diciotto anni, sia tutti i casi di molestie di minore gravità. Una relazione fra un sacerdote di venticinque anni e una ragazza di diciassette può essere, secondo la legge americana, un abuso di minore, ma è fuorviante classificarla come pedofilia. In anni recenti i tribunali degli Stati Uniti d’America hanno punito come molestie anche battute allusive e insulti a sfondo sessuale, certo reprensibili in bocca a un sacerdote ma da non confondersi con la violenza carnale. La Chiesa cattolica — non da sola, ma insieme ad altre Chiese la cui organizzazione è piramidale e gerarchica, il che esclude la rilevanza determinante del celibato — ha certamente una percentuale maggiore di casi di pedofilia portati in tribunale con successo. Non si può però valutare questo dato prescindendo ingenuamente dagli aspetti economici. Gli studi legali specializzati in questo campo — oggi talora di grandi dimensioni — e le grandi società di assicurazioni che spesso determinano l’esito delle cause civili — talora preferendo pagare e alzare il premio della polizza, anche quando l’accusato è presumibilmente innocente (5) — attaccano più volentieri la Chiesa cattolica. Qui si può attingere per i danni alle ricche casse delle diocesi, al di là delle parrocchie, mentre nelle denominazioni a struttura congregazionalista, dove ogni comunità è indipendente, non si può sperare di ottenere più di quanto è sufficiente a vuotare le casse di una congregazione locale. Jenkins propone un modello basato sulle teorie sociologiche della costruzione sociale. Le teorie “costruzioniste” non postulano che determinati problemi sociali — i quali generano i cosiddetti “panici morali” — siano inventati: alla base vi è un disagio reale. Ma questo disagio è amplificato da statistiche fasulle e da esagerazioni mediatiche, anche per opera di “imprenditori morali” che hanno ragioni e interessi da difendere. Jenkins cita un anticattolicesimo latente in settori importanti della società nordamericana, ambienti di psicologi e di terapisti convinti che tutto quanto i loro pazienti raccontano, magari sotto ipnosi, sia sempre e necessariamente vero — episodi passati in tema di satanismo e di incesto mostrano che non sempre è così — e una mentalità liberal per cui il celibato o i voti non sono politicamente corretti. Le analisi di Jenkins — a mio avviso meritevoli di grande interesse — non negano certamente la presenza di casi dolorosi, sulle cui cause la Chiesa giustamente indaga e s’interroga. Ma aiutano a guardarsi dalle generalizzazioni e dall’analisi “urlata” di problemi che vanno invece affrontati, insieme, con coraggio e con discrezione.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. la tesi principalmente in Jason Berry, Lead Us Not into Temptation, Doubleday, New York 1992; e in Elinor Burkett e Frank Bruni, A Gospel of Shame, Viking, New York 1993.
(2) Cfr. Andrew Greeley, Fall from Grace, G.P. Putnams, New York 1993.
(3) Cfr. la tesi, con particolare riferimento alla pedofilia, riassunta in Anson Shupe, In the Name of All That’s Holy. A Theory of Clergy Malfeasance, Praeger, Westport (Connecticut) 1995.
(4) Cfr. Philip Jenkins, Pedophiles and Priests. Anatomy of a Contemporary Crisis, Oxford University Press, New York-Oxford 1996.
(5) Sul ruolo di una grande società di assicurazioni in casi relativi alla Chiesa cristiana avventista del Settimo Giorno, cfr. Bonnie Dwyer, The Six-Million Dollar Man, in Spectrum: The Journal of the Association of Adventist Forums, vol. 24, n. 5, giugno 1995, pp. 30-37.