di Marco Invernizzi
Ho l’impressione che stia ritornando, e con forza, l’odio, quello che credevamo di esserci lasciati alle spalle dopo la fine delle ideologie, con il venir meno del Muro di Berlino, nel 1989.
In quell’epoca (1789-1989) l’odio è stato veramente il motore della storia, tanto che Robert Conquest chiamò il Novecento Il secolo delle idee assassine. Basta ripercorrere il periodo dei due secoli che caratterizzano la modernità per rendersi conto che non è stata soltanto un progresso inarrestabile: si comincia con la ghigliottina della Rivoluzione francese, si continua con la morte portata in Europa dalle baionette di Napoleone, compresa la Russia e addirittura l’Egitto, per quindi arrivare alle due guerre mondiali del Novecento. Ma l’odio non finisce nel 1945 con la sconfitta del nazionalsocialismo, perché il tentativo di costruire un’Europa finalmente pacificata non decolla e invece esplodono nel 1968 nuove manifestazioni di odio, che favoriscono il terrorismo degli Anni Settanta.
Poi è venuta la società cosiddetta post-moderna, dominata dal relativismo e dal pensiero debole e si pensava che questa “debolezza” e questa assenza di interesse per la verità dovessero portare gli uomini a non farsi più del male, alla fine delle guerre. Ma così non è stato, non solo per le guerre che sono puntualmente scoppiate, per esempio nei Balcani durante gli Anni Novanta e in Ruanda nello stesso periodo, non solo per il terrorismo islamista prima e dopo l’11 settembre 2001, ma anche per un clima culturale che mi sembra stia avvelenando proprio i nostri giorni.
E la cosa che più assomiglia agli Anni Settanta consiste proprio nel fatto che oggi come allora l’odio viene diffuso con la scusa di combattere un odio che non c’è. Tutti sapevano chi fossero i portatori d’odio nelle scuole e nelle università negli Anni Settanta, soprattutto nelle grandi città del Nord, dove vigeva il divieto di parola per chi era anticomunista, in nome di un antifascismo così violento e arrogante che tanti antifascisti “storici” si smarcarono da questo antifascismo militante, come veniva chiamato allora. Fu allora che un grande cattolico e profondo studioso, Augusto del Noce, coniò il termine “anti-antifascismo”.
I fascisti c’erano, erano pochi e isolati, non rappresentavano nessun pericolo per la democrazia, ma il pericolo fascista divenne essenziale per spostare il Paese a sinistra negli Anni Sessanta. E allora venne usato, a partire dai fatti di Genova nel 1960, fino alle Brigate Rosse (i “compagni che sbagliano”), con il risultato che molti giovani divennero fascisti sul serio senza sapere che cosa fosse il fascismo, ma come reazione alla violenza subita.
Oggi il pericolo fascista viene rilanciato in tutta Europa, attribuendo questa etichetta, insieme a quella di razzista perché c’è la variante dell’immigrazione a cui dare una risposta, a tutte le forze politiche europee che contestano la politica dell’Unione europea e la vorrebbero cambiare in senso meno burocratico e tecnocratico, più rispettosa delle diverse identità nazionali.
Naturalmente nessuno si preoccupa di verificare che cosa sia stato il fascismo storico e uno dei pochi che lo ha studiato, Renzo de Felice, mi pare che non sia mai stato neppure citato nelle recenti polemiche. Eppure questo storico, certamente antifascista per estrazione culturale, demonizzato in vita, ci ha lasciato una enorme documentazione con la quale possiamo concludere che il fascismo fu soprattutto un fenomeno ideologico rivoluzionario, nato a sinistra nel 1919 per usare questa categoria politica, spostatosi a destra per conquistare il potere e mantenerlo venendo a patti con la Monarchia e la Chiesa, per ritornare a sinistra nel suo epilogo storico durante la Repubblica sociale. Fu un fascio composto da idee diverse e anche contrastanti, tenute insieme dal carisma del condottiero. Il consenso che raccolse negli ambienti conservatori e cattolici fu proporzionale all’assenza o comunque all’incapacità di questi ambienti di opporsi alla violenza rivoluzionaria, al terrore del “Biennio rosso” del 1920/21.
Oggi mi sembra si stia riproducendo uno scenario simile. Se uno ha la forza di leggere ogni giorno la Repubblica trova un linguaggio pieno di odio e di rancore contro chi non crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Europa progressista. Certo i fascisti ci sono, basta mostrare qualche saluto romano in televisione o leggere i titoli del catalogo dell’editore Altaforte vicino a CasaPound. Ma immaginare che il popolo che frequenta i comizi di Matteo Salvini sia imbevuto di fascismo o almeno connivente con una prospettiva di quel tipo è una solenne sciocchezza. Significa non avere capito che cosa sta accadendo o, peggio, significa tornare a pescare nel torbido, come in quegli Anni Settanta, dove i provocatori fascisti se non c’erano bisognava crearli, perché funzionali ai giochi di chi voleva spostare l’Italia allora verso il comunismo, oggi verso una società che disprezzi ed elimini ogni identità non allineata con il pensiero relativista dominante.
Lo stesso discorso vale per il mondo cattolico. Si può legittimamente dubitare delle proposte politiche di Salvini e delle sue esternazioni religiose, ma non ci si può permettere di voltarsi dall’altra parte di fronte ai tanti che applaudono i Pontefici che appaiono sul maxischermo nei suoi comizi, ai tanti che credono convinti al fatto che l’Europa debba rimanere fedele a quelle radici cristiane appena evocate dal palco. Lo dico come fedele che crede nell’obbedienza e nel rispetto verso i propri pastori della Chiesa: quei fedeli sono i vostri fedeli, possono essere corretti se sbagliano o eccedono, ma sono semplicemente cattolici. Come me, come voi che siete stati chiamati a guidare la Sposa di Cristo.
Martedì, 21 maggio 2019