di Oscar Sanguinetti
Sono addolorato dalla scomparsa di Antonio Paolucci (1939-2024), un grande critico d’arte che lascia un vuoto dietro di sé. Premetto che non sono un cultore di estetica, né coltivo una passione per la storia dell’arte, ma amo la bellezza artistica e ritengo che la capacità di capire e di ammirare i mille capolavori che circondano il fortunato abitante della nostra Penisola sia una parte essenziale di un decente curriculum culturale. Ricordo, per inciso, che le cattedrali gotiche non le hanno fatte gli “archistar” o i critici d’arte ma artigiani provenienti dal popolo e animati dal senso della bellezza come “splendor Veritatis”, coniugato quindi con una profonda fede e altrettanta fiducia nell’immagine come veicolo di evangelizzazione.
Ebbene, Paolucci esprimeva al massimo grado questa missione dell’arte e della lettura dell’arte: la pedagogia del bello stile, che completava e acuiva il giudizio sul reale, nonché la diffusione, attraverso il bello, dell’idea di Bello, che rimandava a sua volta a quello di Bene e di Vero, cioè, in sintesi, a Dio.
Era nato a Rimini alla vigilia della guerra mondiale da una famiglia di antiquari, dove aveva iniziato a “respirare” il bello artistico. Poi la sua carriera si era svolta in un crescendo ininterrotto di successi portandolo ai massimi vertici della cultura istituzionale del nostro Paese. È morto a Firenze, in una delle capitali dell’arte italiana, il 4 febbraio scorso.
Discepolo del grande critico e storico della pittura, Roberto Longhi (1890-1970), Paolucci si è prodigato instancabilmente per svolgere la missione di promuovere il senso artistico nei ruoli di docente, di scrittore, di funzionario dello Stato e del Vaticano, di divulgatore televisivo. Anche quando si vedranno chiaramente in lui i segni di una grave patologia superata, ma che aveva lasciato lo strascico della paralisi di parte del suo corpo, egli continuerà a illustrare agli spettatori televisivi abbazie, chiese, musei, mostre, singole opere d’arte pittoriche e scultoree, nonché a introdurre lo spettatore nelle splendide sale dei suoi diletti Musei Vaticani.
La mia frequentazione della sua persona è pressoché limitata a quest’ultimo genere di discenza e ai suoi ultimi anni di vita: purtroppo le sue opere editoriali, mai eccessivamente sontuose e sempre affascinanti, che pure mi attiravano, erano visibilmente indirizzate a un pubblico limitato, cioè specialistico ed elitario.
Ricordo ancora il piacere, quando non un principio di commozione, nell’udire dalla sua voce calda, anche se di persona ormai anziana, però ancora vibrante di passione civile e religiosa, la spiegazione dei più grandi capolavori che la nostra Italia come uno scrigno, anche nei luoghi meno noti — per esempio le chiese e i palazzi delle Marche ex pontificie — racchiude. Con parole semplici ma dense, ne dava prima una spiegazione estetica e, quindi, in un certo senso “laica”, poi non mancava mai di aggiungere una riflessione sull’oggetto e sull’artista in prospettiva cristiana. Le sue letture delle forme e degli stili non erano mai banali: Paolucci sapeva “confezionare” anche le ipotesi più scientificamente “audaci” o interlocutorie in termini privi della iattanza del sapiente e più vicini all’umiltà — essere umili non equivale a strisciare, ma a riconoscere i talenti di cui il Signore arricchisce ognuno di noi — del cristiano.
Ora, dopo una vita piena e ricca di anticipata visione della Bellezza nelle opere dei suoi figli terreni, il suo elevato gusto estetico può contemplare e godere con tutta l’anima il principio, l’essenza suprema di quel “bello” che è stato il Leitmotiv della sua lunga e feconda esistenza.
Giovedì, 8 febbraio 2024