Non entro nel merito della sentenza della Cassazione che ha annullato un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna a proposito di Totò Riina. La Cassazione ha ritenuto non sufficientemente motivato il provvedimento che aveva rifiutato i benefici chiesti nell’interesse di Riina, collegati al suo stato di salute. Il Tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà ora nuovamente pronunciarsi, nel solco dei principi indicati dalla Cassazione. Nella circostanza la Cassazione ha affermato il “diritto di morire dignitosamente”, che va assicurato al detenuto. Ammetto di non capire: è già difficile contemperare le esigenze di sicurezza che finora hanno tenuto Riina al regime del 41 bis con le norme che impongono di garantire la salute di ogni recluso, soprattutto quando l’età è avanzata e le patologie sono serie. Ma che c’entra il “diritto” di morire con dignità? Il parametro della valutazione che andrà rivista sarà la compatibilità delle condizioni di Riina col regime penitenziario, non che egli chiuda l’esistenza nel proprio letto, “circondato dall’affetto dei suoi cari”. L’espressione “diritto di morire dignitosamente” finora è stata usata per giustificare la legge sull’eutanasia. Ma l’espressione è così entrata nell’interlocuzione quotidiana che viene ripresa in un contesto nel quale i beni e gli interessi da comparare sono altri. E’ l’ennesimo sintomo – qualificatissimo, vista la fonte – di quanto leggi come quella sulle dat non spuntino come funghi sul letame della storia, ma costituiscano la ricaduta di una battaglia culturale iniziata da tempo, che proprio sul piano giurisprudenziale ha avuto risultati che oggi si vorrebbero sacralizzare in norme. E’ la conferma di quanto prima degli articoli e dei commi ci si debba preoccupare dei principi di riferimento.