La sera del 2 aprile 2005, Giovanni Paolo II veniva chiamato al cielo. Sicuramente il papa polacco, beatificato da Benedetto XVI il 1° maggio 2011 e canonizzato da Papa Francesco il 27 aprile 2014, lasciava un monumentale magistero per niente sorpassato, anzi, esso è come una luce che illumina i pontificati successivi e il cammino della Chiesa. Il suo insegnamento, pertanto, rimane una pietra miliare, inserita nel trapasso di un’epoca che da un lato ha visto cadere le ideologie, esito ultimo della modernità, con la caduta del Muro di Berlino e, dall’altro, ha dovuto affrontare la diffusione di nuove sfide quali il relativismo e la rivoluzione antropologica.
Da questo punto di vista, ferma restando la differenza autoritativa, delle due produzioni non solo è fondamentale non dimenticare il Magistero di San Giovanni Paolo II, ma è utile – facendo qualche passo indietro rispetto alla sua elezione al soglio pontificio (16 Ottobre 1978) – considerare l’eminente valore dei suoi scritti filosofici – soprattutto Amore e Responsabilità (1960) e Persona ed Atto (1969) – incentrati principalmente sul valore della persona umana e sulla luminosa esperienza dell’amore.
Se, infatti, il problema dell’ora presente può essere compreso in un’incapacità di rispondere alla domanda: “chi è l’uomo?” – a partire dalla sua identità sessuale – con le conseguenti: “da dove viene?” e “dove va?”, il pensiero filosofico wojtyliano diventa una via sicura per poter reimpostare, alla luce della metafisica tomista e con un significativo dialogo con la fenomenologia, il discorso sull’uomo a partire dalle domande prime che ogni persona si pone. Ne deriva una metafisica della persona che, a partire dall’esperienza dell’uomo, l’apre alla trascendenza della verità, quale suo nucleo irrinunciabile.
Dopo secoli di individualismo, causato in origine dallo spostamento dell’oggetto della filosofia dall’essere al cogito ad opera di René Descartes (Cartesio), Wojtyla aiutato dalla tradizione tomista, conosciuta attraverso il suo maestro dell’Angelicum, padre Garrigou-Lagrange (1877-1964), e in dialogo con il fenomenologo realista polacco Roman Ingarden (1893-1970), si pone un chiaro programma: “ritornare all’uomo come persona”. La modernità filosofica, infatti, nelle sue due correnti principali ha considerato l’uomo ora come mero pensiero (linea razionalistica-idealistica) ora come mera materia (linea empirista e materialista). Ritornare all’uomo come persona significa, per Wojtyla, non ripetere sic et simpliciter la perenne lezione boeziano-tomista, ma far sì che tale realtà possa emergere a partire dal confronto con le filosofie contemporanee, marxismo compreso, sempre manchevoli di una visione realista.
Attenzione alla realtà, nella filosofia di Wojtyla, significa principalmente attenzione verso l’esperienza della persona nel mondo che viene prima di ogni prospettiva filosofica, in modo da poter scongiurare le vecchie e nuove visioni ideologiche. Dire persona significa fare appello alla natura dell’uomo – corpore et anima unus – quale essere capace di ricercare e riconoscere la verità, interiorizzandola tramite la coscienza, perché possa diventare massima espressione della sua libertà. Rifiutare la verità, in altri termini, significa rifiutare se stessi in quanto persone, ovvero l’intima identità di creature aperte alla trascendenza.
Se una tale concezione sfidò il totalitarismo – anche filosofico – del sistema marxista, è in senso propositivo ancora oggi attuale per riunire i cocci prodotti dalla catastrofe antropologica dell’uomo del nostro tempo e risvegliarlo al riconoscimento della sua intima dignità.
Daniele Fazio