Incamminatosi sulla strada del nuovo califfato, l’aspirante sultano gioca la carta religiosa. Vedremo se avrà successo.
di Silvia Scaranari
“Era il mio più grande desiderio fin da bambino” ha detto il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan dopo aver partecipato alla preghiera del venerdì lo scorso 24 luglio presso Santa Sofia a Istanbul. Come è a tutti noto il Museo, voluto da Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938) nel 1935, è tornato ad essere luogo di preghiera islamica.
Progettata a partire dal 350 d.C., più volte distrutta e ricostruita con significativi cambi di stile, deve l’aspetto attuale all’imperatore Giustiniano che ne ordina la nuova progettazione nel 532, dopo l’ennesimo incendio che l’aveva distrutta quasi completamente, affidandone il progetto a Isidoro di Mileto. Sempre Giustiniano (482-565) la fa consacrare nel 537 e da quel momento diventa la sede del Patriarcato di Costantinopoli e delle cerimonie imperiali bizantine.
Dopo lo scisma fra cattolici e ortodossi del 1054 resta ovviamente di rito ortodosso tranne un breve periodo in cui è trasformata in cattedrale cattolica durante la IV crociata e il successivo Regno Latino d’Oriente (1204-1261), divenendo anche luogo per l’incoronazione a imperatore di Baldovino I (1058-1118).
Ritornata in mano ai bizantini nel 1261 subisce un nuovo e radicale cambio di destinazione nel 1453 dopo la conquista della città da parte dei musulmani guidati da Muhammad II (1432-1481). Nella sua decisa avversione verso i cristiani, il sultano ordina subito che venga convertita in moschea con il nome di Aya Sofya o Hagha Sofya.
Fa costruire all’esterno i minareti che ancora oggi la circondano e coprire con calce bianca gli affreschi interni. Inoltre la dota di un ricco mihrab, la tipica nicchia che indica la direzione della Mecca e di fronte alla quale i fedeli musulmani compiono le preghiere rituali. Molti elementi tipici dell’arte ottomana sono stati aggiunti nel tempo per rispondere al desiderio dei sultani di abbellire questo luogo sacro, luogo di preghiera ma soprattutto simbolo della sconfitta dei cristiani.
Sotto Mustafa Kemal, il primo presidente della Repubblica turca, nata dallo smembramento dell’Impero ottomano a seguito della sconfitta subita nella I guerra mondiale, la struttura viene trasformata in Museo e tale rimane fino a poche settimane fa.
Pochi giorni fa Santa Sofia è stata riconvertita in moschea come auspicato e fortemente caldeggiato dal Presidente Erdogan che così ha spinto il Consiglio di Stato a deliberare di mutare lo status della più famosa struttura architettonica della città.
Venerdì 24 luglio si è svolta la prima preghiera musulmana alla presenza del Presidente Erdogan e di varie autorità anche straniere. Erdogan aveva invitato anche il Papa, non è chiaro se in segno di rispetto o di sfida ma, a quanto sembra, nessuna risposta è pervenuta dalla Santa Sede.
In questi giorni si verifica un nuovo momento storico per l’ex basilica ed ex museo: migliaia di fedeli convergeranno presso la rinata moschea per festeggiare non solo la fine del pellegrinaggio (per altro non compiuto per le norme prudenziali in presenza della persistente emergenza Covid) ma anche la fine dell’anno lunare e soprattutto per il ritorno alla piena “islamicità” del luogo.
Sono in effetti giorni di festa per tutto il mondo islamico. Dal pomeriggio del 30 luglio in Turchia, dal 31 in altri Paesi, inizia Id al-Adha, la grande festa del sacrificio. Durerà fino al 2/3 agosto. E’ la festa che segna la fine del pellegrinaggio legale, quello che ogni fedele musulmano deve compiere almeno una volta nella vita e che, per essere valido, deve svolgersi nel mese del pellegrinaggio, Dhu al-Hajj, il 12° mese dell’anno lunare del calendario islamico. Il pellegrinaggio è uno dei cinque arkan al-dan (i pilastri della fede, le cinque pratiche religiose che il fedele deve compiere: la professione di fede, shahada; la preghiera cinque volte al giorno, salat; l’elemosina legale, zakat; il digiuno del mese di ramadan, sawm; il pellegrinaggio alla Mecca, hajj) ma la festa che lo segue suggella anche la conclusione dell’anno.
Il pellegrinaggio alla Mecca ha tradizioni antichissime. Già nella società arabica pre islamica esisteva la pratica religiosa di rendere omaggio al pantheon di divinità presente nella ka‘ba, con pellegrinaggi e sacrifici di animali. La nuova norma coranica ha convertito queste tradizioni nel ricordo del sacrificio di Abramo che, chiamato da Dio a offrire il proprio figlio (Isacco per la tradizione biblica, Ismaele per la tradizione coranica), viene bloccato all’ultimo momento dall’angelo e quindi uccide un capretto. Il gesto di Abramo indica la sua totale sottomissione al volere divino e viene quindi rivissuto dai fedeli musulmani come festa della fede e obbedienza nei confronti di Allah.
Sono giorni di letizia, giorni in cui è vietato qualsiasi sacrificio e ogni tristezza, sono giorni in cui si festeggia con i parenti più stretti sgozzando un capretto o una pecora o un montone (in mancanza può essere usato anche un cammello o un bovino). L’uccisione dell’animale deve essere fatta dal capo famiglia e deve essere “rituale” ovvero con un taglio netto alla giugulare per far defluire tutto il sangue che, essendo il simbolo della vita, non può essere mangiato.
Ingenti forze di polizia sono state schierate nell’area cittadina perché certamente ci sarebbe stato un numero significativo di persone tra quelle rimaste in città (moltissimi altri hanno colto l’occasione della festa – che comprende anche il sabato e la domenica – per una breve vacanza o per riunirsi alle famiglie rimaste in provincia), ma anche per evitare contestazioni.
Se i mass media hanno proposto immagini di giubilo intorno a Santa Sofia, indice di un islam che vede la riconversione da museo a moschea come una vittoria religiosa e politica, molte sono state le contestazioni a questo provvedimento. Note di biasimo sono giunte dal mondo occidentale ma anche correnti politiche turche e leader del mondo arabo hanno condannato la decisione del Consiglio di Stato come inutilmente provocatoria.
Era proprio necessaria questa decisione? Apparentemente no. Certamente non mancano le moschee in Turchia e, per altro, nelle grandi città non sono neanche molto affollate.
In verità nell’ottica del Presidente Erdogan questo gesto era invece molto importante per dare un segnale all’area più religiosa della sua repubblica e per guadagnare un consenso internazionale da parte delle fazioni più conservatrici. Le sue intenzioni erano state esplicitate da tempo e partecipando alla preghiera del 24 luglio ha affermato che “era il mio più grande desiderio fin da bambino”. Desiderio del cuore, forse da bambino, desiderio di uomo politico oggi. I suoi gesti non lasciano dubbi. Finita la preghiera si è recato sulla tomba del sultano Mehmet II, il conquistatore di Costantinopoli. L’immagine che vuole fornire al mondo di nuovo Sultano non ha più bisogno di essere nascosta, vuole presentarsi sempre di più come il legittimo ricostitutore del califfato.
Erdogan sta vivendo problemi molto seri. La Turchia sta attraversando una delle più serie crisi economiche degli ultimi 100 anni e l’emergenza Covid ha ulteriormente aggravato la situazione. Si trova a ospitare milioni di profughi sul suo territorio e non sa come risolvere il problema. Per il momento li usa come ricorrente minaccia verso i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ma questo gioco non potrà durare in eterno.
Il consenso molto ampio al suo partito, l’AKP, negli anni 2005-2010, si sta esaurendo a grande velocità. Ad Ankara, Smirne e Antalya ha vinto il CHP, il partito popolare repubblicano, mentre in località minori come Mardin, Diyarkabir e Van ha vinto il Partito Democratico dei Popoli (HDP).
Negli ultimi anni Erdogan ha giocato la carta della politica internazionale per cercare di rendere la sua presenza indispensabile. E’ intervenuto massicciamente nel Corno d’Africa, si è mostrato indispensabile nella lotta all’Isis dal 2014 al 2018, oggi è presente in Libia e vuole riappropriarsi di isole del Mar Egeo per allargare i confini dell’attuale Turchia. Ma il problema serio è il consenso della sua base elettorale da sempre sensibile alle tematiche religiose. In questa ottica si può inserire anche una delle diverse letture della sua politica di parziale allontanamento dagli USA, grandi nemici dell’islam conservatore e ultra conservatore ma allo stesso tempo tradizionali alleati della Turchia, per avvicinarsi alla Russia putiniana.
La folla presente il 24 luglio a Aya Sofya sembra dargli ragione: la sua mossa ha riscaldato i cuori, ha dato un segnale di forza contro l’Occidente (come sempre troppo timido per produrre qualcosa di più serio di laconiche rimostranze) e contro i cristiani turchi e mediorientali ma, allo stesso tempo, non è stata vista di buon occhio a Mosca, ha sollevato polemiche in alcuni Stati del Golfo e in diverse aree intellettuali musulmane.
Vedremo con il tempo se l’operazione “Santa Sofia” porterà frutti o se l’albero del nuovo sultano perderà qualche altra fogliolina.
Sabato, primo agosto 2020