Marco Respinti, Cristianità n. 349-350 (2008)
1. Il 4 novembre 2008 gli Stati Uniti d’America hanno celebrato le elezioni per la designazione del 44° presidente federale — nell’impossibilità, per legge federale, di confermare in carica il 43°, nella fattispecie George Walker Bush jr., eletto già per due mandati, dal 2000 al 2004 e dal 2004 al 2008 — e del 47° vicepresidente federale, unitamente a quelle per assegnare 35 dei 100 seggi di cui si compone il Senato federale, tutti i 435 seggi di cui si compone la Camera dei deputati federale e 11 governatori in altrettanti Stati dell’Unione più 2 capi di governo locale in altrettanti territori che, a diverso titolo, si trovano in unione politica con il Paese nordamericano. Nella stessa data si sono inoltre celebrate numerose altre consultazioni per l’elezione di membri delle assemblee legislative di Stati componenti l’Unione e di rappresentati al Congresso federale statunitense di territori uniti politicamente al Paese nordamericano, altre elezioni amministrative o locali in Stati dell’Unione, nonché 153 referendum, pure svoltisi in singoli Stati, che hanno portato a 174 il numero complessivo dei referendum votati nel corso dell’anno 2008 in un totale di 37 dei 50 Stati. I referendum, infatti, che si celebrano sempre solo a livello di singoli Stati, hanno calendarizzazioni autonome rispetto a ogni altro tipo di elezioni statunitensi così che a volte coincidono con esse e altre volte si svolgono indipendentemente da esse.
2. Il 4 novembre è stato eletto alla presidenza federale Barack Hussein Obama II — nato nel 1961 a Honolulu, nelle Hawaii —, espresso dal Partito Democratico, che ha scelto per la carica di vicepresidente federale Joseph Robinette “Joe” Biden — nato nel 1942 a Scranton, in Pennsylvania —, pure espresso dal Partito Democratico. Obama e Biden hanno battuto il ticket antagonista, la “coppia” composta dal candidato alla presidenza federale espresso dal Partito Repubblicano John Sidney McCain III — nato nel 1936 a Coco Solo, base navale nella Zona del Canale di Panama, territorio controllato dagli Stati Uniti d’America, nella Repubblica di Panama — e da Sarah Louise Heath Palin — nata nel 1964 a Sandpoint, nell’Idaho —, pure espressa dal Partito Repubblicano, per la candidatura alla vicepresidenza federale. Dopo l’espressione del voto popolare il 4 novembre 2008, il Collegio Elettorale composto dai “grandi elettori” in quella data designati dai cittadini degli Stati Uniti d’America si è riunito a Washington il 15 dicembre 2008 per esprimere i voti elettorali, che sono stati resi pubblici dal Senato federale il 6 gennaio 2009. Il 20 gennaio Obama ha giurato pubblicamente, nelle mani del presidente della Corte Suprema federale John Glover Roberts jr. — e tradizionalmente nel Campidoglio di Washington, il palazzo che è sede del Congresso federale statunitense —, di preservare, difendere e proteggere la Costituzione degli Stati Uniti d’America insediandosi ufficialmente come 44° presidente federale del Paese; nella medesima data e con analogo giuramento Biden si è insediato come 47° vicepresidente federale. Obama e Biden resteranno in carica fino al 20 gennaio 2013, mentre le prossime elezioni per la presidenza e la vicepresidenza federali si svolgeranno il 6 novembre 2012.
Il 4 novembre 2008 è stato eletto anche il 111° Congresso degli Stati Uniti d’America, che ha inaugurato i propri lavori il 6 gennaio 2009 e che resterà in carica per un biennio. Le elezioni del 112° Congresso si svolgeranno il 2 novembre 2010. Nel 111° Congresso è stato peraltro eletto per la prima volta anche il delegato senza diritto di voto in aula che alla Camera dei deputati federale rappresenta le Isole Marianne Settentrionali, Stato Libero Associato dell’Oceano Pacifico occidentale in unione politica con gli Stati Uniti d’America.
Il ticket Obama-Biden ha vinto le elezioni federali con 69.456.897 voti popolari, pari al 52,9% dei suffragi espressi, e con 365 voti elettorali, conquistando cioè 28 Stati dell’Unione nordamericana più il Distretto di Colombia e il secondo distretto congressuale del Nebraska, Stato in cui — cosa analoga avviene del resto nel Maine — due voti elettorali vengono assegnati al ticket che ottiene la maggioranza del voto popolare espresso dai cittadini dello Stato e altri tre voti elettorali vengono assegnati al ticket che rispettivamente ottiene più voti popolari nei tre distretti congressuali in cui è suddiviso il suo territorio.
Il ticket McCain-Palin ha ottenuto 59.934.786 voti popolari, pari al 45,7% dei suffragi espressi, e 173 voti elettorali, conquistando cioè 22 Stati.
Le concomitanti elezioni del 111° Congresso federale hanno designato i 33 senatori di classe seconda e due senatori di classe prima i cui seggi sono stati interessati da elezioni supplettive. Le elezioni dei senatori federali si celebrano attraverso un meccanismo di rotazione che ne rinnova circa un terzo ogni due anni: una volta un terzo dei senatori viene eletto in concomitanza delle elezioni per la presidenza e per la vicepresidenza federali, quindi un secondo terzo è eletto, due anni dopo, alle elezioni di “medio termine”, infine l’ultimo terzo viene eletto in concomitanza delle nuove elezioni per la presidenza e per la vicepresidenza federali, quattro anni dopo le precedenti. La seconda classe di senatori degli Stati Uniti d’America, 33, è stata eletta il 4 novembre 2008 in concomitanza delle elezioni per la scelta del 44° presidente federale. La terza classe, composta di 34 senatori, verrà scelta dai cittadini statunitensi a metà del mandato del presidente ora eletto, quindi nel 2010; e la prima classe, composta di 33 senatori, verrà eletta nel 2012, in concomitanza delle consultazioni che confermeranno in carica gli attuali presidente e vicepresidente degli Stati Uniti d’America oppure che designeranno il ticket presidenziale successore.
Ha vinto il Partito Democratico, che ha portato a 57 il numero dei propri senatori; a questi si aggiungono quindi due senatori indipendenti impegnatisi, sin da prima delle elezioni, a votare in aula sempre insieme alla maggioranza dei Democratici. Il totale, 59, non raggiunge peraltro il numero di 60 senatori auspicato alla vigilia del voto dai Democratici, maggioranza che avrebbe permesso di aggirare sempre ogni operazione di ostruzionismo parlamentare architettata dagli avversari. Ottenendo 33.994.860 voti popolari, pari al 51,3% dei suffragi espressi, il Partito Democratico ha incrementato di otto seggi la maggioranza al Senato federale che già deteneva nel 110° Congresso eletto il 7 novembre 2006, ovvero 49 seggi, a cui si aggiungevano sempre due indipendenti. Il Partito Repubblicano, che ne contava 49, ha invece ridotto a 41 il numero dei propri senatori, ottenendo 30.057.338 voti popolari, pari al 45,4% dei suffragi espressi.
Dei 435 deputati della Camera federale eletti nel 111° Congresso, il Partito Democratico ne conta 257 — alle elezioni per il 110° Congresso del 2006 ne elesse 233, numero che, per effetto di elezioni suppletive successive, è poi salito a 236 — contro i 178 del Partito Repubblicano — alle elezioni per il 110° Congresso del 2006 ne elesse 202, numero che, per effetto di elezioni suppletive successive, è poi sceso a 199 —, ovvero facendo registrare il primo un incremento e il secondo un decremento di 21 seggi. Il Partito Democratico ha vinto con 59.713.061 voti popolari, pari al 53.04% dei suffragi espressi, mentre il Partito Repubblicano ha perso con 49.717.154 voti popolari, pari al 44,16% dei suffragi espressi.
Negli Stati Uniti d’America, il 4 novembre 2008 si è votato anche per l’elezione dei governatori di 11 dei 50 Stati dell’Unione federale. Nel computo complessivo dei governatori di Stato attualmente in carica, 29 sono quelli eletti dal Partito Democratico e 21 quelli eletti dal Partito Repubblicano. La proposta però di conferire a Janet Napolitano, governatrice Democratica dell’Arizona, la carica di Secretary of Homeland Security — ovvero ministro della Sicurezza Interna degli Stati Uniti d’America, un dicastero istituito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 —, candidatura avanzata ufficialmente dal presidente eletto Obama il 1° dicembre 2008, ha comportato, dopo la conferma, come richiede la legge, del Senato federale, la nomina di Janice Kay “Jan” Brewer, Repubblicana, attualmente Segretario di Stato dell’Arizona — a differenza del Segretario di Stato nel governo federale, il Segretario di Stato dei singoli Stati componenti l’Unione federale ha incarichi particolari di coadiuvamento del governatore e, nel caso specifico dell’Arizona, è anche il luogo dov’è la seconda figura in ordine di successione in caso di morte o d’impedimento del governatore —, alla carica di governatore dell’Arizona. Il numero dei governatori espressi dal Partito Repubblicano sale dunque a 22 e quello dei governatori espressi dal Partito Democratico scende a 28.
Gli Stati dell’Unione federale nordamericana che il 4 novembre 2008 hanno votato per eleggere i propri governatori sono Delaware, Indiana, Missouri, Montana, New Hampshire, North Carolina, North Dakota, Utah, Vermont, Washington e West Virginia, a cui si sono aggiunti le Isola Samoa statunitensi e Porto Rico, che hanno eletto i capi dei rispettivi governi locali.
3. Il 4 novembre 2008 l’affluenza alle urne è stata una delle più alte della storia politica del Paese, la più alta, sembra, dal 1960. Hanno infatti votato 131,2 milioni di cittadini statunitensi, ovvero una percentuale compresa fra il 61,6 e il 63%. La differenza è data dalle diverse stime del numero complessivo dei cittadini che hanno diritto al voto, la quale oscilla fra 213.005.467 — e in questo caso l’affluenza alle urne del 2008 sarebbe la più alta solo dal 1968 — e 208.323.000 su una popolazione che il censimento federale del 2000 conta in 281.421.906 abitanti e che per il 2009 è prevista attestarsi su 306.189.000.
Tenendo presente questo dato di affluenza record alle urne il 4 novembre 2008, se si comparano i voti ottenuti in quella data rispettivamente dai ticket Obama-Biden e McCain-Palin, e quindi questi ultimi con i voti ottenuti nelle elezioni per la presidenza e per la vicepresidenza federali del 2 novembre 2004 dal ticket composto da Bush jr. e da Richard Bruce “Dick” Cheney per il Partito Repubblicano, ovvero 62.040.610, nonché da John Forbes Kerry e da Johnny Reid “John” Edwards per il Partito Democratico, ovvero 59.028.111, si nota che il ticket Obama-Biden ha vinto con 9,5 milioni circa di voti in più rispetto al ticket McCain-Palin, che esso ha fatto guadagnare al Partito Democratico circa 10,5 milioni di voti rispetto al 2004, che, sempre rispetto al 2004, il ticket McCain-Palin ha fatto perdere al Partito Repubblicano circa 2 milioni di voti e che il risultato da esso conseguito sarebbe stato comunque sufficiente per surclassare, con il vantaggio di quasi un milione di voti, la performance offerta dal Partito Democratico nel 2004.
Cioè, il successo del Partito Democratico nel 2008 è stato in amplissima parte un successo personale del ticket presidenziale proposto agli elettori statunitensi ed è stato dovuto in massima parte a Obama, per più di un aspetto un candidato-simbolo — cioè, in qualche misura, un candidato che ha saputo conquistarsi anche un elettorato in prima istanza non convinto della sua proposta politico-ideologica o non convinto solo da essa —, oltre che, comunque, un rappresentante deciso dell’ideologia progressista e relativista. Obama ha insomma saputo sommare attorno alla propria figura sia il voto militante di una certa parte dell’elettorato statunitense, sia il voto “sentimentale” di un’altra parte di quell’elettorato. Il numero vincente di voti ottenuto dal ticket Obama-Biden è stato infatti solo in minima parte determinato dal cambiamento di orientamento partitico dell’elettorato statunitense, ma in massima parte deciso da una riserva di voti nuovi, precedentemente “congelati” nel non-voto e il 4 novembre 2008 finalmente “sbloccati”; lo testimonia il dato dell’affluenza alle urne del 2004, che fu di 122,3 milioni di cittadini statunitensi. L’aumento del numero dei votanti registrato fra 2004 e 2008, che appunto costituisce la chiave di volta principale, sotto questo aspetto, della vittoria del ticket Obama-Biden, ha del resto contato sensibilmente anche sull’aumento del numero di votanti statunitensi di origine afroamericana, passati dall’11,1% del 2004 al 13% del 2008, il 95% circa dei quali, stando agli exit poll, avrebbe votato per i candidati presidenziali del Partito Democratico.
La capacità di Obama di “scongelare” il non-voto deve del resto tutto all’azione capillare, svolta porta a porta in certi casi da Obama stesso, con cui per mesi il suo staff e il suo entourage hanno saputo stanare aree di elettorato che in numerosi casi non avevano, per scelta, mai votato prima in una elezione presidenziale. Un fattore, questo, che ha inciso sia sul voto militante per lui espresso, sia sul voto “sentimentale”.
Oltre che sfruttare la posizione oggettivamente di vantaggio che gli ha garantito l’essere un cittadino statunitense di origine, per parte di padre, africana — la ragione principale del suo status di candidato-simbolo e il motore preminente del voto “sentimentale” per lui espresso —, Obama ha saputo intercettare con grande sagacia e con enorme efficacia — mescolando in questo caso ragioni militanti e ragioni “sentimentali” — un mondo di opinione, un universo d’interessi e una galassia di lobby che fino a quel momento nessun uomo politico del Partito Democratico aveva saputo forse riconoscere, per certo attivare. Obama, i suoi spin-doctor e i suoi maître à penser hanno cioè scoperto un bacino di utenza tanto vasto quanto vergine che, esterno alle fila canoniche del Partito Democratico, sa fare la differenza se solleticato adeguatamente e mobilitato intelligentemente.
È, questa, la storia speculare a quella che, dagli anni 1950 in poi, racconta il rapporto intercorso fra il Partito Repubblicano e l’universo conservatore statunitense, un rapporto che ha ovviamente conosciuto i suoi alti e i suoi bassi, che ha avuto le sue crisi e i suoi punti di forza, che è sempre stato controverso, ma che pure alla fine ha partorito la “famosa” “Right Nation” (1). E questo porta a chiedersi che fine abbiano fatto i circa 2 milioni di voti, calcolati in relazione ai risultati delle elezioni federali del 2004, persi nel 2008 dal Partito Repubblicano.
4. Il fatto che, appunto, nel 2008 e rispetto al 2004 il Partito Repubblicano abbia perso “solo” 2 milioni di voti circa e che il Partito Democratico ne abbia invece guadagnati 10,5 milioni circa, cioè che il primo abbia perso “poco” e il secondo guadagnato molto, pone anzitutto l’accento sull’incapacità del Partito Repubblicano di avere saputo crescere elettoralmente, magari anche cercandosi nuovi elettorati come ha fatto il Partito Democratico.
Il Partito Repubblicano si è infatti venuto indebolendo e non ha saputo trovare personale politico credibile né schierare uomini e donne di spessore e di rilievo che risultassero sia convincenti verso il proprio elettorato tradizionale sia in grado di spingersi oltre esso. L’andamento delle elezioni primarie nei primi sei mesi circa del 2008 lo ha dimostrato ampiamente e così alla fine il Partito Repubblicano si è trovato “costretto” a candidare alla presidenza federale “quel che è rimasto”, McCain, e questo soprattutto per “abbandono del campo” degli altri contendenti.
È inoltre successo che il Partito Repubblicano, forse attardato sui propri allori, si è di fatto concesso il lusso di rinunciare all’efficacissima macchina elettorale messa a punto nel 2004 dallo stratega del presidente Bush jr., Karl Rove, le cui lezioni evidentemente sono state accuratamente studiate dal Partito Democratico, o se non altro dai collaboratori di Obama, e messe a frutto dopo la “prova generale” costituita dalle elezioni di “medio termine” del 2006 (2). Nelle file del Partito Repubblicano, del resto, serpeggiano da tempo la divisione e la disunione determinate da un lato — in generale — dall’incapacità, o dalla nolontà, di quella formazione politica di decidere una volta per tutte quale sia l’identità della propria anima politica, dall’altro — in specifico — di sapersi o di volersi confrontare adeguatamente con le linee politico-culturali che hanno caratterizzato una presidenza “forte” qual è stata quella del presidente Bush jr.
Del Partito Repubblicano costituisce infatti un elettorato importante e persino decisivo il mondo conservatore, ma questo solo a patto che il partito se ne faccia carico. I conservatori non votano cioè il Partito Repubblicano sempre e comunque; lo votano se i candidati da esso proposti si piegano sulle aspettative e sul credo dei conservatori, e se offrono, in questo senso, un livello di credibilità almeno accettabile. Questo andamento a “fisarmonica” è descritto proprio dalla storia dei rapporti fra il Partito Repubblicano e il mondo conservatore nella seconda metà del secolo XX, dal momento, cioè, in cui il conservatorismo prende coscienza culturale di sé e inizia a strutturarsi in un “movimento” di opinione coeso e in cui il Partito Repubblicano, anche contro le proprie origini e la propria storia, comincia, almeno in parte, a inclinare a destra, mentre specularmente il Partito Democratico, analogamente contro le proprie origini e la propria storia, già da tempo inclina a sinistra: se in qualche misura il personale politico proposto dal partito sa dialogare con il mondo conservatore, questo appoggia, anche apertamente e con decisione e con passione, quel personale politico, altrimenti il mondo conservatore si allontana dal partito pure “alzando la voce” e “sbattendo la porta”. Poche cose sono infatti chiare nella politica statunitense dell’ultimo sessantennio circa quanto il fatto, bene illustrato per esempio dallo storico statunitense Donald Thomas Critchlow (3), che il Partito Repubblicano vince se sposa — per tempo, con il dovuto savoir faire e con una dose sufficiente di convinzione, o quanto meno di ben confezionato farisaismo — il mondo conservatore, ma perde se se ne allontana.
Ebbene, su questo piano, le carenze strutturali accumulate in anni recenti dal Partito Repubblicano si sono nel 2008 combinate alle debolezze gravi del candidato McCain formando una vera e propria miscela implosiva. Nel corso degli anni McCain ha infatti accumulato un numero cospicuo di nemici dentro lo stesso Partito Repubblicano in ragione delle sue campagne moralizzatrici spesso percepite dai colleghi di partito — a torto o a ragione — come semplicemente moralistiche. Ha tenuto troppo spesso, nel corso delle amministrazioni Bush jr. e anche durante le elezioni primarie dei primi sei mesi circa del 2008, a rimarcare le proprie differenze politiche e addirittura le proprie distanze dalla “dottrina Bush jr.”, la quale, nonostante tutto, è stata capace di generare un seguito importante e convinto, in alcuni momenti storici addirittura enorme, e che comunque è stata sempre percepita dai suoi sostenitori, spesso numerosi, come poggiante su solidi fondamenti etici e persino religiosi. Ed è sempre stato considerato poco credibile dal mondo conservatore proprio su temi di natura etica o persino religiosa, quindi sui cosiddetti “princìpi non negoziabili”, e comunque mai una figura politica alleata su cui fare affidamento.
5. Nota il sociologo delle religioni Massimo Introvigne che “[…] per la prima volta il voto di quel quaranta per cento di americani che si dichiara religioso e praticante non è andato prevalentemente ai repubblicani, ma ai democratici” (4), e “[…] che — se tra i protestanti evangelical, cioè conservatori, ha vinto McCain (ma non con i margini bulgari che ebbe Bush nel 2004) — tra gli ebrei e tra i cattolici (praticanti) ha prevalso Obama. Le spiegazioni di questo evento decisivo per le elezioni sono sostanzialmente quattro. La prima è che le persone religiose non votano tutte e solo in base alla religione, e che le crisi economiche gravissime portano sempre a votare contro i partiti di governo, considerati in prima battuta — non importa se spesso a torto — responsabili delle crisi (“Piove, governo ladro”). La seconda è che il battista McCain, come la stampa ha spesso notato, benché schierato in modo gradito alla maggioranza delle persone religiose sui valori non negoziabili, non viene dal mondo dell’attivismo religioso e ha qualche imbarazzo a parlare di religione in pubblico. Al contrario il riformato (calvinista) Obama si presenta come l’erede di una tradizione afro-americana dove i politici — buoni, cattivi o pessimi — sono sempre venuti dal mondo delle comunità religiose, dal reverendo Martin Luther King Jr. (1929-1968) al reverendo Jesse Jackson, e in tutti i suoi discorsi è costante il riferimento appassionato alla fede e alla preghiera”.
In terzo luogo, prosegue Introvigne, “[…] i protestanti evangelical, componente maggioritaria della coalizione religiosa determinante per i passati successi repubblicani, hanno sbagliato nell’opporsi alla candidatura alla vice-presidenza dell’ex-governatore del Massachusetts Mitt Romney lasciando intendere piuttosto chiaramente di non volere un candidato di fede religiosa mormone (meno chiaramente — ma chi doveva capire ha capito — si sono opposti anche alla scelta come vice-presidente di Joe Lieberman, di provenienza democratica ma schierato con McCain, perché si tratta di un ebreo ortodosso e gli evangelical non volevano un candidato non cristiano, o più precisamente non protestante). A prescindere da ogni altra considerazione, questo ha trasmesso ai soci di minoranza della famosa coalizione dei quattro decisiva per le vittorie di Bush — protestanti evangelical, cattolici fedeli al Papa, ebrei ortodossi e mormoni (questi ultimi molto importanti sul piano elettorale perché concentrati in quattro o cinque Stati — non solo nello Utah — dove fanno la differenza) — il messaggio secondo cui per gli evangelical la coalizione funziona se gli altri portano i voti ma il candidato è comunque protestante. Dal punto di vista dei valori non negoziabili la pentecostale Sarah Palin era peraltro la migliore delle candidate possibili: ma questi antefatti spiegano perché i non evangelical non l’abbiano forse difesa quanto meritava di fronte a un’autentica aggressione della stampa liberal, che ha mostrato ai (numerosissimi) pentecostali statunitensi come la tolleranza verso forme religiose con un culto entusiastico e un riferimento insistito ai demoni e alle profezie sia un traguardo ancora lontano per i grandi media americani imbevuti di pregiudizi laicisti e razionalisti”.
Ma, afferma il sociologo delle religioni, è “[…] tuttavia il quarto motivo per cui il mondo di chi va nelle chiese e nelle sinagoghe (per non parlare delle moschee, dove i parenti musulmani di Obama hanno avuto il loro ruolo) ha messo tra parentesi i valori non negoziabili e ha votato per il senatore di Chicago — a mio avviso, non meno decisivo del primo, quello legato alla crisi economica — è, molto semplicemente, che Barack è un afro-americano. Con eccezioni marginali e quasi irrilevanti, le Chiese e comunità religiose americane nel XX secolo hanno considerato una loro battaglia cruciale quella per i diritti civili della popolazione di colore degli Stati Uniti (dopo essere state in maggioranza nel XIX secolo contro la schiavitù — anche se non necessariamente a favore della Guerra Civile [1861-1865] né della successiva criminalizzazione del Sud). I non statunitensi spesso non si rendono conto di quanto questa battaglia abbia formato gli americani che erano giovani negli anni 1960, in particolare quelli religiosi, un numero sorprendente dei quali è andato in Alabama e altrove, prendendo anche qualche manganellata, per manifestare affinché gli afro-americani potessero salire sugli stessi autobus dei bianchi e votare senza essere intimiditi. Per tutti costoro (per esempio per molti amici del sottoscritto, che nel 2004 avevano votato per Bush ma nel 2008 hanno scelto Obama) eleggere un afro-americano alla presidenza negli Stati Uniti chiude un lungo ciclo della storia del loro Paese, iniziato con la schiavitù e la lotta delle Chiese per la sua abolizione, e ha un significato insieme epico e di riconciliazione nazionale che trascende ogni altra considerazione, travolgendo anche il primato dei valori non negoziabili invano ricordato dalle autorità religiose”.
A tali considerazioni Introvigne rivolge due obiezioni. “La prima […] è che la sinistra americana (e quella internazionale) ha speculato in modo strumentale sull’etnicità di Obama, mentre non si è emozionata per la nomina a segretario di Stato prima di Colin Powell e poi di Condoleeza Rice, afro-americani anche loro. La Rice in particolare, che sarà ricordata checché se ne dica come brillante artefice di un modo nuovo di fare politica estera, è stata presa a pesci in faccia dalla sinistra nonostante fosse afro-americana. Tutto questo è vero: e tuttavia, come notava già nel XIX secolo Alexis de Tocqueville (1805-1859), gli Stati Uniti sono una monarchia che elegge il suo re ogni quattro anni. C’è una mistica della presidenza assai simile alla mistica delle monarchie. Non c’è, con tutto il rispetto, una mistica del segretario di Stato, così che solo l’elezione di un afro-americano alla presidenza (non la sua nomina a una carica ministeriale, per quanto prestigiosa) poteva essere percepita come un evento epocale e come il coronamento di due secoli di battaglie che hanno avuto anche, se non soprattutto, una dimensione religiosa.
“La seconda obiezione è che Obama non è davvero un afro-americano. I suoi antenati vivevano in Kenya e non hanno conosciuto l’esperienza della schiavitù che connota in modo decisivo e profondo l’esperienza dei veri afro-americani. L’obiezione ha avuto un peso nelle prime fasi della campagna di Obama: ma alla fine ha prevalso la sua auto-identificazione (che non nasce con le elezioni, ma risale agli albori della sua carriera professionale e politica a Chicago) con la comunità afro-americana e il fatto che, comunque la si metta, non si tratta di un bianco anglo-sassone.
“Nella storia culturale e sociale degli Stati Uniti — anche qualora, come i più pessimisti prevedono, la sua presidenza si riveli debole sul piano economico e della politica estera, quasi un remake dei disastri di Jimmy Carter, e mettendo in conto gli inevitabili scontri con le Chiese in materia di principi non negoziabili — la chiusura dei conti e la riconciliazione nazionale in materia di diritti civili rimarranno comunque un frutto dell’elezione di Obama. Chiuso finalmente questo antico dossier, le Chiese e comunità religiose potranno tornare alle loro priorità. Sui temi dell’aborto e della famiglia (anche se Obama si dichiara contrario al matrimonio omosessuale — ma non così il suo partito) la strada da oggi è più in salita. Ma questo non significa che non debba essere percorsa con coraggio e determinazione. L’elettorato religioso statunitense non è certamente sparito: le voci di una sua morte sono, per dire il meno, premature, anche se il suo modo di esprimersi nel 2008 è stato influenzato da una serie di fattori probabilmente irripetibili”.
6. McCain non ha saputo insomma compattare attorno alla propria candidatura quel “popolo delle Chiese” che invece nel 2004 Bush jr. seppe radunare con grande efficacia e in un modo che addirittura non ha precedenti, se si considera che “per la prima volta un candidato democratico ha perso la maggioranza del voto dei cattolici praticanti, tradizionalmente orientato verso i democratici per ragioni sociali” (5) e a fronte per di più del fatto che il suo diretto antagonista, Kerry, era cattolico: ma, osserva Introvigne a proposito di Kerry, “[…] non basta andare a qualche messa in campagna elettorale dopo che si è da anni abbandonata la Chiesa su temi come l’aborto o il matrimonio degli omosessuali”.
Nel 2004, infatti, Bush jr. è “[…] il primo candidato repubblicano che vince tra gli ebrei che frequentano le sinagoghe ortodosse, da non confondersi con gli ebrei “culturali” non religiosi e con gli ebrei riformati, appartenenti a denominazioni “progressiste” importanti in America ma decisamente minoritarie nell’ebraismo internazionale (e in quello israeliano).
“E la maggioranza di Bush 1 [la prima vittoria alle elezioni presidenziali di Bush jr. nel 2000] tra i protestanti conservatori, detti “evangelical”, è diventata valanga (sembra intorno al 90%) per Bush 2 [la seconda vittoria alle elezioni presidenziali di Bush jr. nel 2004], mentre in quattro anni i protestanti conservatori sono diventati più del doppio dei protestanti delle denominazioni “storiche” orientate in senso progressista.
“Quanto ai mormoni, la religione in più rapida crescita negli Stati Uniti, il loro Stato — lo Utah — ha fatto vincere Bush 2 con la maggiore percentuale di tutto il paese. E si conferma che anche molti musulmani americani hanno votato Bush facendo prevalere la morale sulla politica, conformemente alle previsioni accademiche e contro i sondaggi che confondevano “musulmano” e “arabo” (molti musulmani americani non sono arabi)”.
7. L’unico vero “colpo da maestro” messo a segno da McCain nel 2008 è stata la designazione, in autunno, della Palin come propria candidata alla vicepresidenza. Antiabortista dichiarata e nota, la Palin ha offerto al mondo conservatore statunitense, a cui del resto appartiene, garanzie forti quanto al rispetto dei “princìpi non negoziabili”, dando l’impressione di poter anche alla bisogna moderare, o comunque condizionare, alcune inclinazioni più possibiliste dello stesso McCain (6).
McCain ha quindi scelto la Palin certamente per coprirsi il fianco destro, piuttosto sguarnito, e la candidatura della Palin, affatto debole come alcuni hanno insinuato — fra i quattro candidati finali in lizza per la presidenza e per la vicepresidenza federali, Obama, Biden, McCain e Palin, solo la Palin era governatore di Stato, abituata cioè a responsabilità servata distantia riconducibili a quelle di un presidente federale —, ha certamente impedito — se è vera com’è vera l’analisi dei rapporti di forze elettorali intercorsi lungo un sessantennio circa fra Partito Repubblicano e movimento conservatore proposta per esempio da Critchlow — che la sconfitta del Partito Repubblicano nel 2008 fosse ancora numericamente più ingente, ovvero che il partito perdesse, rispetto al 2004 di Bush jr., più dei 2 milioni di voti circa che ha perso.
Perché invece, oltre a non perdere quei 2 milioni di voti circa, l’”effetto Palin” — che comunque c’è stato, quantificabile nella tenuta di una buona parte di quei quasi 60 milioni di voti conquistati dal Partito Repubblicano nel 2008 — non abbia incrementato i consensi per il Partito Repubblicano in misura sufficiente a sconfiggere il ticket Obama-Biden è spiegato con il fatto che la mossa più o meno a sorpresa decisa da McCain nel nominare la Palin per la vicepresidenza federale è stata comunque — o così i conservatori l’hanno percepita — tardiva, non preparata per tempo da dichiarazioni etico-politiche qualificanti, forse persino “disperata” di fronte alla “carica” degli avversari. Avvertita, da una parte cospicua del mondo conservatore statunitense, come semplice “foglia di fico” posta in extremis a coprire le vergogne di McCain, la Palin è riuscita “solo” a trattenere una buona parte dei quasi 60 milioni di voti che nel 2008 gli elettori statunitensi hanno dato al Partito Repubblicano e a contenerne le perdite.
8. Negli Stati Uniti d’America le elezioni federali del 4 novembre 2008 hanno decretato un “monocolore Democratico”. Se non è automatico dire — né a un esame delle sue origini storiche, né a un attento scrutinio del suo DNA culturale — che il Partito Democratico sia la “sinistra” della politica statunitense, è però incontestabilmente vero affermare che è facile — attualmente più facile, addirittura consueto, anzi una costante, persino un “classico” — trovare in esso esponenti che vengono schierati — o addirittura promossi, se non persino premiati — proprio in ragione del loro progressismo. Il contrario avviene invece nel Partito Repubblicano, che, specularmente — anch’esso per ragioni storiche e per DNA culturale — non è certo un partito automaticamente conservatore, ma che oggi, soprattutto oggi, si mostra certamente “più conservatore” della media dei Democratici.
Tutto farebbe dunque pensare a un forte spostamento “a sinistra”, in senso politico ma soprattutto morale, degli Stati Uniti d’America, data la propensione dei Democratici eletti verso posizioni culturali di tipo relativistico. In certa misura ciò è vero per quanto riguarda una parte importante dell’elettorato che il 4 novembre 2008 ha votato — negli Stati Uniti d’America è infatti assai diffuso il non-voto, praticato soprattutto da quei conservatori che non si sentono rappresentati dai Repubblicani in lizza —, ma vi sono alcune forti contraddizioni.
Il 4 novembre 2008 sono stati infatti votati numerosi referendum, alcuni dei quali relativi a istanze altamente sensibili dal punto di vista etico e riguardanti i “princìpi non negoziabili”: cioè l’aborto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane, l’eutanasia e le unioni civili fra persone omosessuali. Nei tre Stati interessati da referendum sull’aborto, California, Colorado e South Dakota, il fronte pro-life ha perso. Nel Michigan ha vinto il referendum che consente la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane. E nello Stato di Washington ha vinto il referendum a favore di una forma di eutanasia.
Vanno però considerate alcune “attenuanti”. Gran parte del successo di queste consultazioni si deve alla formulazione dei quesiti referendari. Proporre la “morte dignitosa”, come è stato fatto nello Stato di Washington, in alternativa positiva al “suicidio assistito” è cosa che esercita pressioni psicologiche capaci d’influire sensibilmente sulle urne. Quanto alle cellule staminali embrionali umane, molti percepiscono — purtroppo — la questione come “meno grave” dell’aborto. Le cellule staminali embrionali umane, persino lo stesso embrione umano, “non si vedono” e la loro distruzione risulta meno “appariscente” per esempio dell’aborto, se si eccettua quello cosiddetto chimico: è quindi “più facile”, anche se evidentemente triste, che molti osservino un greve “due pesi, due misure” rispetto appunto all’aborto. Inoltre, proporre la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane “per scopi medici”, come fatto nel Michigan, esercita ancora una volta effetti psicologici capaci davvero d’influenzare il voto.
Si dirà però che anche i referendum sull’aborto sono stati sconfitti. È vero, ma anche qui molto è certamente dipeso dai quesiti. I tre referendum proposti agli elettori il 4 novembre 2008 chiedevano di accorciare i termini temporali entro cui è consentito praticare legalmente un aborto, non il divieto dell’aborto. Cosa evidentemente buona e giusta, giacché comporta la riduzione del numero degli aborti e ostacola la diffusione della mentalità abortista, ma poco gradita ai “duri” dell’antiabortismo, i quali, mirando alla cancellazione immediata e diretta dell’interruzione volontaria della gravidanza, giudicano il gradualismo un compromesso inaccettabile e finiscono oggettivamente per favorire gli avversari.
Il 4 novembre 2008, però, tre referendum celebrati in altrettanti Stati dell’Unione hanno eliminato ogni possibilità d’introdurre nel proprio ordinamento giuridico la liceità dell’unione civile fra persone omosessuali. E questo con un provvedimento tanto netto e inequivocabile quanto lo è l’introduzione nella Costituzione di ciascuno di detti Stati di un emendamento che ribadisce che il matrimonio è solo quello monogamico fra un uomo e una donna. Si è votato così, in Arizona, in California e in Florida, dove il fronte a difesa del matrimonio naturale ha ottenuto rispettivamente il 56,4%, il 52,2% e il 62,1% dei consensi. Risultati, questi, assai significativi e dal peso specifico enorme, ai quali si aggiunge il 57% dei consensi ottenuto nell’Arkansas dal referendum che ha vietato le adozioni a coppie non sposate.
In questo caso, infatti, di fronte a materia non solo grave ma pure visual — come dicono gli statunitensi —, addirittura graphic — se si pensa alle manifestazioni pubbliche sul tipo delle parate dei cosiddetti “Gay Pride” —, cioè quanto si vede quotidianamente per le strade e viene ostentato con sicumera anche di fronte ai minori e ai piccoli — quindi oggettivamente scandaloso —, e magari pure poi portato nelle scuole — s’immagini il professore che si presenta alle feste comunitarie con il “consorte” dello stesso sesso, o agli asili dove la maestra può “fidanzarsi” con la collega di sostegno —, gli statunitensi hanno risposto in modo tranchant: tre su tre.
A ciò si devono aggiungere due dati fondamentali. Il primo è che il “matrimonio” omosessuale ha perso sonoramente non solo nell’Arizona che ha votato i Repubblicani, ma con numeri grandi anche in Florida e in California, che hanno votato i Democratici. Il secondo è che la famiglia naturale ha vinto soprattutto nell’assai liberal California, dove la lobby omosessualista è forte, ricca e molto potente. La vera notizia del 4 novembre 2008 è insomma questa: prima del voto la famiglia naturale ha avuto la possibilità concreta e storica di vincere in California tanto che il referendum è stato convocato, poi la famiglia naturale ha concretamente e storicamente vinto in quella California che intanto premiava Obama e i Democratici.
Obama, che in ampia parte è stato votato in quanto “simbolo”, è indubbiamente di orientamento progressista e non mancherà di farlo comprendere anche a chi lo ha premiato esprimendo, il 4 novembre 2008, un voto “sentimentale”. La sua linea in politica estera sarà infatti, con tutta probabilità, votata, salvo aggiustamenti e differenze di toni e d’intensità, a una certa continuità con l’Amministrazione precedente e a questo lo costringerà di fatto la situazione internazionale. La sua linea in politica interna, invece, sarà certamente assai diversa da quella espressa dal presidente Bush jr. e questo anzitutto e soprattutto per quanto riguarda i “princìpi non negoziabili”.
Ma alcuni fatti restano. Per esempio il fatto che negli Stati Uniti d’America, dove vige una legge federale a difesa del matrimonio, le unioni omosessuali sono attualmente vietate da emendamenti alla Costituzione di 30 Stati su 50 e in 42 il matrimonio è giuridicamente definito l’unione fra un uomo e una donna (7), e questo grazie anche al voto di referendum espresso da alcuni cittadini statunitensi che hanno contribuito a eleggere Obama alla presidenza federale. La “Right Nation”, cioè, continua a esistere, in attesa che il Partito Repubblicano se ne accorga.
Marco Respinti
Note:
(1) Cfr., dei giornalisti britannici John Micklethwait e Adrian Wooldrige, La destra giusta. Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra, trad. it., Mondadori, Milano 2005.
(2 ) Cfr. il mio 7 novembre 2006: “Gli Stati Uniti d’America sono ancora un paese conservatore”, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, pp. 3-14.
(3) Cfr. Donald Thomas Critchlow, The Conservative Ascendancy. How the GOP Right Made Political History, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 2007.
(4) Massimo Introvigne, Obama, diritti civili e religione, in Il Corriere del Sud. Periodico indipendente culturale-economico di formazione ed informazione, anno XVII, n. 10, Crotone 20-11-2008, p. 13. Fino a diversa indicazione, tutte le citazioni senza ulteriore riferimento sono tratte da questa fonte.
(5) Idem, Il voto religioso vale la Casa Bianca (ma non è gratis), in Il Giornale, Milano 6-11-2004, p. 10. Fino a diversa indicazione, tutte le citazioni senza ulteriore riferimento sono tratte da questa fonte.
(6) Cfr., del politologo statunitense Michael Novak, Comunque vada il 4 novembre, il “fattore Sarah” è irreversibile, in cronache di “liberal”, anno XIII, n. 206, Roma 28-10-2008, pp. 1 e 14.
(7) Cfr. Giovanni Cantoni, “The Missourians”: un fatto, non una “fiction”, in Cristianità, anno XXXII, n. 324, luglio-agosto 2004, pp. 3-4, oggi raccolto in Idem, Per una civiltà cristiana nel Terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 115-119.