MARIO CICALA, Cristianità n. 299 (2000)
Forsan et haec olim meminisse juvabit*
1. Il comitato di storici guidato dal professor Andrea Riccardi e incaricato dalla Santa Sede d’individuare, per quanto possibile, i “martiri” del XX secolo, ha inserito in tale triste e glorioso elenco i giudici Rosario Livatino e Paolo Borsellino (1).
La circostanza sollecita una riflessione sui doveri dei cristiani nei confronti dello Stato, sull’attuale situazione del nostro Paese.
Quando, il 31 marzo 2000, Agnese Borsellino — la vedova del magistrato — ha consegnato al Santo Padre Giovanni Paolo II il bozzetto originale del manifesto con cui sono stati ricordati e onorati i ventiquattro magistrati che in questi ultimi anni sono stati assassinati a causa della loro dedizione alla giustizia, non ha compiuto solo un gesto di doveroso ringraziamento. La consegna di questo simbolico dono è stata infatti accompagnata da un incisivo indirizzo di saluto ed è avvenuta in presenza di un folto gruppo di giudici, convenuti a Roma per partecipare al congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati (2). La cerimonia ha così costituito la naturale conclusione di un cammino iniziato nel 1993, quando il presidente dell’ANM ebbe a sottolineare il patrimonio spirituale che l’esempio di Rosario Livatino (1952-1990), di Paolo Borsellino (1940-1992) e dell’avvocato Giorgio Ambrosoli (1933-1979) rappresenta per tutta la comunità civile e cristiana.
Giorgio Ambrosoli, Paolo Borsellino e Rosario Livatino hanno, con il loro sacrificio, smentito la diffusa opinione secondo cui i cattolici italiani sarebbero buoni padri, discreti mariti, volenterosi operatori sociali, ma funzionari distratti e, in definitiva, mediocri cittadini.
Avevano una vita familiare e religiosa intensa ed esemplare, ma non sono stati uccisi a causa di queste virtù. I loro provvedimenti, che hanno colpito interessi potenti e omicidi, non erano diversi da quelli redatti da colleghi che non nutrivano una fede religiosa, e che hanno parimenti affrontato la morte come prezzo della fedeltà alle regole di giustizia.
Il martirio non separa o divide i credenti dai non credenti perché l’adesione ai valori della giustizia costituisce un terreno comune per tutti gli uomini di buona volontà. L’apostolo Paolo riconosce e quasi codifica questa comunione fra chi crede nel valore trascendente dei testi evangelici e tutti gli uomini retti, che sono “circoncisi nel cuore” (3), circoncisi di una circoncisione non fatta da mano d’uomo (4). A fianco di quelli che osservano la legge perché la conoscono attraverso la Rivelazione si collocano dunque coloro che “[…] sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (5).
È di conforto pensare che ai caduti per la giustizia si attaglino le parole di Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor: “Nel martirio come affermazione dell’inviolabilità dell’ordine morale risplendono la santità della legge di Dio e insieme l’intangibilità della dignità personale dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio” (6). Chi li ha uccisi con ogni probabilità non nutriva rancore verso la fede cattolica, ma era certamente animato da odio verso le virtù umane e cristiane. E san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) ebbe ad affermare che è martire “[…] non solo chi patisce a causa della confessione della fede, che si fa con le parole, ma anche chiunque patisce per compiere qualunque buona opera […] per Cristo” (7). Del resto, la Chiesa da sempre onora come martire san Giovanni Battista, imprigionato e ucciso da Erode (14 a. C.-39 d. C.) perché aveva osato puntare il dito contro di lui ed Erodiade pronunciando l’ammonimento che tanto spiace a tutti i potenti della terra: “Non ti è lecito” (8). A sua volta, già il documento sull’impegno sociale e politico, elaborato nel III convegno ecclesiale tenuto a Palermo nel 1995, sottolinea il sacrificio dei cristiani che in Italia hanno dato “numerose testimonianze di carità politica, alcune giunte sino al martirio” (9).
Tutti i caduti per la legalità, credenti e non credenti, senza distinzione, hanno testimoniato quella legge universale che s’impone a ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia. “Per perfezionarsi nel suo ordine specifico — afferma Papa Giovanni Paolo II sempre nell’enciclica Veritatis splendor —, la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza” (10).
2. Qualcuno ha detto: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” (11), o di martiri. E certo la presenza di eroi in una società, e in specie nel mondo della giustizia, è sintomo di crisi e di disagio.
L’obbedienza alla legge nelle società pacifiche e ben ordinate raramente attinge i vertici dell’eroismo, cioè richiede la capacità di anteporre il senso del dovere a propri rilevanti interessi, e talvolta alla vita stessa. Anche nel più tranquillo cantone svizzero l’uomo della polizia, il vigile del fuoco, debbono essere pronti ad anteporre l’adempimento del dovere alla propria vita. Ma nelle società ad alto tasso di criminalità l’eroismo viene richiesto a una sfera molto allargata e purtroppo via via più ampia di persone.
Nel documento, redatto fra gli altri da Giovanni Falcone e con cui si concluse l’assemblea della ANM riunita a Palermo il 27 ottobre 1990 sotto la presidenza di Paolo Borsellino, dopo l’assassinio di Rosario Livatino, si legge che, “[…] sotto le vesti della democrazia, si intravedono sempre più rapporti di potere reale basati sul decadimento del costume morale e civile, su intrecci fra istituzioni deviate e organizzazioni occulte, su legami tra mafia e politica” (12). E a queste parole ben si può affiancare il punto forse più significativo del messaggio letto dal Santo Padre ai magistrati italiani il 31 marzo 2000, laddove stigmatizza “[…] tutte quelle iniziative di singoli e di gruppi organizzati che, non paghi di trasgredire la legge attentando alla vita ed ai beni altrui, si adoperano anche per ottenere modifiche dell’ordinamento in funzione dei propri interessi, al di là dei principi etici e della considerazione del bene comune. Ne viene minata alla radice anche la sicura e pacifica convivenza” (13).
In simile quadro ben si possono collocare addirittura forme di pressione e di lusinga sugli uomini della legge; accade persino che la sollecitazione a non compiere il proprio dovere giunga dall’interno delle strutture dello Stato, offrendo vantaggi di carriera a chi viola i propri doveri, prospettando ritorsioni di carattere pubblico a chi li adempie.
Per richiamare un episodio remoto, che non rinfocoli polemiche recenti, si può ricordare che quando, nel 1900, il sostituto procuratore generale presso la Cassazione di Napoli Francesco Saverio Gargiulo depose il falso avanti al Tribunale e questa sua bugia venne documentalmente smentita dalla relazione della Commissione Governativa d’inchiesta e dalla stessa sentenza del Tribunale, il ministro della Giustizia Emanuele Gianturco (1857-1907) inflisse un ammonimento “severo” non al Gargiulo bensì al pubblico ministero di udienza Stefano De Notari, che aveva osato nella sua requisitoria deplorare il comportamento del collega spergiuro.
L’indifferenza, se non l’ostilità, di parti dello Stato accresce poi il rischio per coloro che adempiono il proprio dovere.
Sotto la minaccia omicida delle Brigate Rosse diviene eroismo accettare la difesa d’ufficio di un indagato; basterà ricordare il martirio dell’avvocato Fulvio Croce (1902-1977), ucciso per aver onorato un compito elementare dell’avvocato: la difesa d’ufficio. La criminalità organizzata dei “colletti bianchi” rende eroica la condotta dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, leale esecutore di un mandato di liquidazione di una banca; nelle aree controllate dalla mafia occorre eroismo per esercitare diritti elementari, come una libera attività d’impresa, per adempiere a doveri in sé semplici e spontanei, che incombono su qualunque cittadino: quale il rendere, in osservanza alla legge divina, testimonianza veritiera.
È quindi vero che “la terra che ha bisogno di eroi” è “sventurata”; perché è sventurato quel popolo che non ha in sé le energie morali indispensabili affinché ogni cittadino, adempiendo ai propri doveri, facendosi carico della frazione, della briciola, di coraggio che gli compete, concorra a far sì che a nessuno si richiedano virtù eroiche.
Ma certo è ancora più sventurato il popolo che ha bisogno di eroi e non li trova, o ne disperde l’insegnamento.
3. Il ricordo è quindi un dovere. La forza spirituale di chi “cerca il vero e pratica il bene”, di chi è sensibile al grido delle vittime dell’ingiustizia: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (14) è testimoniata da un episodio della vita di Paolo Borsellino che non deve essere dimenticato.
“Incontrai il dottor Borsellino — dichiara il pentito Vincenzo Calcara nel 1992 — il 3 dicembre 1991, ma soltanto il 6 gennaio di quest’anno gli dissi che ero uomo d’onore e gli dissi anche: “Dottore, io sono quella persona che avrebbe dovuto ucciderla, io avrei dovuto essere il killer”. Mi guardò incerto poi mi chiese: “Ma dove mi avrebbe dovuto uccidere, a Palermo oppure a Marsala? Perché a Palermo è più facile”. Gli dissi che il suo attentato avrebbe dovuto avvenire con un’autobomba. Rimase perplesso, poi mi disse: “Va bene Calcara, mettiamoci a lavorare”. Da quel momento in poi iniziò un rapporto splendido: in lui vedevo il vero uomo d’onore, ma inteso come onore quello vero, non quello che credevo quando entrai in Cosa Nostra. Quando lo incontrai subito dopo la morte di Falcone, lo vidi demoralizzato ma mi disse: “Vincenzo, non ci arrendiamo, andiamo avanti, io e te siamo nella stessa barca e indietro non si torna”. Gli dissi: “Ma signor giudice, lei non ha paura? Ora tocca a lei di sicuro”, e lui mi rispose: “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”” (15), mostrando la sua profonda adesione alle parole: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà” (16).
Pochi mesi dopo, il 19 luglio 1992, proprio a Palermo, la vita di Paolo Borsellino veniva stroncata nella strage di via D’Amelio.
“Calcara conserva un profondo ricordo di Borsellino. Dopo via D’Amelio non perde occasione per parlarne, invia alla famiglia del giudice lettere cariche di significato: “Mi ha trasmesso fin dall’inizio una grande forza interiore, ragione e sentimento avevano la stessa intensità. Sono a Favignana, recluso, voglio lasciare Cosa Nostra ma ho ancora mentalità e abitudini da mafioso: voglio collaborare con Borsellino ma penso che chi tradisce il giuramento di fedeltà alla mafia è un infame. “No, non sentirti traditore”, fa lui. “Sono loro, che hanno rinnegato l’onore, loro gli infami”. Aveva ragione: le parole della mafia nascondono solo una macchina di morte. Borsellino, lui sì, ha avuto onore: non ha rinunciato alle sue idee nemmeno quando gli avrebbero reso il cammino più difficile. Una volta gli dico che, secondo me, come giudice è troppo leale. Mi risponde che sa di molte persone legate alla mafia, ma non cerca mai di forzarne l’arresto. “Servono prove, riscontri, lo dice la legge”, è la sua replica. Accompagnata subito da uno squarcio di ottimismo: “Impara a usare la virtù più difficile: la pazienza”” (17).
Già: l’“onore di Borsellino”. In Calcara la parola “onore” è intrisa di sicilianità. Ma l’onore o — se preferiamo usare un’altra parola — la dignità guidano gli esseri umani tutti; a Palermo come a Bolzano.
Anche la criminalità, e in particolare la grande criminalità organizzata come la mafia, ha — o tenta di costruire — un suo “onore”. Ma che cosa ha fatto sentire a Vincenzo Calcara che l’“onore di Borsellino” è onore “vero”; e quello di Cosa Nostra è onore “falso”?
L’“onore di Borsellino” attinge all’universale, risponde a regole che, secondo le parole di Sofocle (525-406 a. C.), “[…] non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono; e nessuno sa da quando apparvero” (18).
L’”onore di Borsellino” risponde a tavole etiche che rendono la vita di tutti migliore; è espressione di quella carità cristiana che è amore di Dio e del prossimo e che, quindi, è operativa e fattiva nel sociale. Invece le regole della criminalità distruggono la vita e il benessere di una società; conducono alla ricchezza di pochi e all’impoverimento di molti.
L’onore autentico attinge all’assoluto e perciò alla religiosità d’amore. A quella religiosità che è fondamento della democrazia stessa.
Si legge nella nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, del 1991: “Proprio perché l’autentica legalità trova la sua motivazione radicale nella moralità dell’uomo, la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell’etica come dimensione fondamentale ed irrinunciabile della persona” (19).
“Quinto, non ammazzare”, “Settimo, non rubare”. Quanti cavilli hanno costruito i giuristi di professione — e ancor più i politologi — per occultare questi due comandamenti! Ma il Santo Padre Giovanni Paolo II, a conclusione della Santa Messa celebrata ad Agrigento il 9 maggio 1993, ha parlato in termini di estrema chiarezza: “Dio ha detto una volta: “non uccidere”. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio” (20).
Mario Cicala
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* Publio Virgilio Marone (70-19 a. C.), Eneide, libro I, v. 203, trad. it., in Idem, Tutte le opere, versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo, con un saggio di Antonio La Penna, Sansoni, Firenze 1993, pp. 239-881 [pp. 250-251]: “[…] forse anche [di tali sventure] un giorno amerete il ricordo”.
(1) Cfr. Luigi Accattoli, Nuovi martiri. 393 storie cristiane nell’Italia di oggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, nn. 384 e 385, pp. 243-246; e Andrea Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori, Milano 2000, pp. 403, 413 e 429.
(2) Cfr. F. V., Quel debito di riconoscenza verso i “martiri della giustizia”, in L’Osservatore Romano, 1-4-2000.
(3) Cfr. Ger. 9, 24; ed Ez. 44, 7.
(4) Cfr. Col. 2, 11.
(5) Rm. 2, 14-15.
(6) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993, n. 92.
(7) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 124, a. 5, ad 1.
(8) Mt. 14, 4; e Mc. 6, 18.
(9) III Convegno Nazionale delle Chiese che sono in Italia. Palermo 20/24-11-1995, Relazione dei cinque ambiti di lavoro, II. Impegno sociale e politico, in Il Regno-Documenti, anno XL, n. 21 (760), Bologna 1-12-1995, pp. 673-675 (p. 673).
(10) Giov anni Paolo II, enciclica cit., n. 51.
(11) Bertolt Brecht (1898-1956), Lebens des Galilei. Vita di Galileo, trad. it. di Emilio Castellani, a cura di Giuseppina Oneto, Einaudi, Torino 1994, p. 217.
(12) Documento approvato dall’Assemblea Straordinaria di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati, 27-10-1990,
(13) Giovanni Paolo II, Discorso ai membri dell’Associazione Nazionale Magistrati, del 31-3-2000, n. 2, in L’Osservatore Romano, 1-4-2000.
(14) Ap. 6, 10.
(15) Vincenzo Calcara, “Quel giudice dovevo ucciderlo io”, intervista a cura di Guglielmo Sasinini, in Famiglia Cristiana, n. 32, Milano 5-8-1992, pp. 26-28 (p. 27).
(16) Lc. 17, 33; cfr. pure ibid. 9, 24; Mt. 10, 39; ibid. 16, 25; e Mc. 8, 35.
(17) Umberto Lucentini con Agnese, Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Paolo Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994, p. 253.
(18) Sofocle, Antigone, vv. 456-457, in Idem, Edipo Re. Edipo a Colono. Antigone, trad. it. di Raffaele Cantarella, note e commento di Marina Cavalli, a cura di Dario Del Corno, Mondadori, Milano 1991, pp. 256-345 (pp. 288-289).
(19) Conferenza Episcopale Italiana. Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Nota pastorale Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, Roma 4 ottobre 1991, n. 3.
(20) L’Osservatore Romano, 10/11-5-1993.