MARCO INVERNIZZI, Cristianità n. 263 (1997)
Il 15 dicembre 1996 muore don Giuseppe Dossetti. Con lui scompare uno dei padri fondatori della Costituzione italiana, che ha difeso fino al termine della sua esistenza terrena; scompare un uomo che ha influenzato la storia religiosa e civile italiana come vice segretario della Democrazia Cristiana, come deputato membro dell’Assemblea Costituente, come sacerdote consigliere del card. Giacomo Lercaro e di questi perito al Concilio Ecumenico Vaticano II, e — infine — come fondatore della comunità monastica della Piccola Famiglia dell’Annunziata, presente in diocesi di Bologna nell’obbedienza all’arcivescovo della città.
La personalità e l’azione di don Dossetti attraversano la storia della Chiesa italiana per un lungo periodo, da quello della Resistenza alla discesa nel campo politico del cavalier Silvio Berlusconi. Le parole di questo sacerdote “pesano” nella vita di molti cattolici italiani ancora oggi, come dimostra l’eco suscitata dai suoi interventi in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, minacciata dalla possibilità di passare anche istituzionalmente dalla prima alla seconda repubblica, e, nel 1994, l’organizzazione, in seguito a sue dichiarazioni pubbliche, dei Comitati per la Difesa della Costituzione, cioè di organismi promossi per svolgere pressione culturale e politica al fine, in sostanza, di sconfiggere il centro-destra nelle successive elezioni politiche e così, ancora, salvaguardare la Costituzione nata dalla Resistenza.
L’esperienza “forte” della Resistenza
Proprio dalla Resistenza comincia l’avventura pubblica di questo giovane, allora professore di Diritto, amico di Giuseppe Lazzati e di Amintore Fanfani, che entra come rappresentante della DC nelle file partigiane sugli Appennini attorno a Reggio Emilia, la sua città natale, nelle quali egli militerà senza però partecipare alle azioni militari come combattente. L’esperienza nella Resistenza lo segnerà per tutta la vita, soprattutto per la benevolenza, anche se critica, con cui guarderà alle forze socialiste e comuniste con le quali collaborerà durante e dopo gli anni della clandestinità.
Inaspettatamente nominato vice segretario nazionale della DC nell’agosto del 1946, parteciperà attivamente ai lavori dell’Assemblea Costituente portando un notevole contributo alla stesura del testo della Carta Costituzionale. Ultimati i lavori di tale assemblea e ripresa la vita politica democratica secondo le scansioni dettate dalla nuova Costituzione, Dossetti continuerà a rimanere impegnato nella vita politica pubblica e interna alla DC, dove peraltro andrà progressivamente acuendosi il suo contrasto con Alcide De Gasperi. Dossetti raccoglierà così un discreto gruppo di oppositori di sinistra alla politica della classe dirigente democristiana, accusando quest’ultima di cedere la guida della vita economica del paese a esponenti liberali, i quali, attuando una politica liberista, avrebbero impedito alla DC di realizzare un proprio progetto culturale e politico; la critica peraltro non si limitava al campo economico, ma riguardava le alleanze politiche e la nozione stessa di partito. Quest’ultimo, per Dossetti, avrebbe dovuto essere l’occasione e il veicolo per la formazione di quadri che avessero e diffondessero una cultura politica non subalterna a quella liberale, e non soltanto un comitato elettorale al servizio del mondo cattolico e del governo, come gli parve stesse diventando la DC sotto la direzione dell’uomo politico trentino.
La cultura politica di Giuseppe Dossetti
Ma qual era la sua cultura politica? Leggendo gli interventi di quegli anni sembra di poter affermare che Dossetti guardava con indubbia simpatia al laburismo inglese, cioè a una forma di socialismo senza materialismo dialettico e storico e quindi, nella sua ottica, compatibile con la dottrina sociale della Chiesa. Certamente, il modello di Stato proposto anche durante i lavori della Costituente è di tipo dirigista, con somiglianze esplicite con quello sovietico, ma anche con quello fascista: uno Stato che plasma la società, anche se non la sostituisce completamente come nei sistemi totalitari.
Proprio nel tentativo di diffondere questa cultura politica Dossetti si rende conto di come una battaglia culturale non possa essere combattuta all’interno di un partito politico. Oltretutto, la lotta elettorale in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948 e l’inasprirsi della contrapposizione fra il blocco sovietico e quello occidentale rendevano impossibile la pratica di una politica aperta e dialogica verso le sinistre, come Dossetti aveva sempre predicato e praticato. In questo frangente matura la decisione di ritirarsi dalla vita politica diretta per dedicarsi alla formazione culturale e scientifica con la costituzione a Bologna, nel settembre del 1952, del Centro di Documentazione, dal quale sarebbe poi derivato l’attuale Istituto per le Scienze Religiose, diretto dal suo allievo Giuseppe Alberigo.
La scelta culturale
Dossetti si rendeva perfettamente conto che la sua scelta lo portava a occupare un ambito che, molto più della vita politica, lo metteva a contatto con problemi ecclesiali. Già se ne era reso conto nel corso della polemica interna al partito democristiano, quando aveva potuto notare che l’ostilità alle sue scelte proveniva, più ancora che da De Gasperi, dai Comitati Civici di Luigi Gedda, e quindi dallo stesso Papa Pio XII. Perciò comprende che la sua prospettiva poteva avere successo solo a condizione di cambiare la cultura dominante nel mondo cattolico del tempo, e quindi attenuando l’anticomunismo e superando la mentalità attivistica dell’Azione Cattolica di allora, liberando il partito dal controllo dei Comitati Civici — che infatti verranno “silenziati”, secondo un’espressione dello stesso Gedda — e così favorendo la ripresa della collaborazione fra quelle che Dossetti chiamava le forze popolari, cioè i cattolici, i socialisti e i comunisti. In questa prospettiva, comincia a dedicarsi alla formazione dei primi giovani che lo avevano seguito.
Nelle stanze di un appartamento affittato a Bologna, sotto la paternità spirituale dell’arcivescovo, il card. Lercaro, Dossetti inizia con pochi amici un’intensa attività di studio, di ricerca e di raccolta di libri e di periodici italiani e stranieri, che costituiranno la prima biblioteca del sodalizio, successivamente aperta anche al pubblico. In questa nuova situazione, matura la decisione di diventare sacerdote — verrà ordinato il 6 gennaio 1959 — e di costituire una comunità monastica, sempre nell’obbedienza religiosa all’arcivescovo della città. Il suo interesse intellettuale si sposta sempre più verso campi di carattere strettamente religioso, come la Sacra Scrittura, la vita monastica e poi i grandi temi legati al Concilio Ecumenico Vaticano II, ai cui lavori partecipa come perito chiamato dal suo arcivescovo. Tuttavia, la vita spirituale e intellettuale della comunità non si staccherà mai completamente né dal campo giuridico né da quello politico, probabilmente per la consapevolezza della profonda connessione esistente fra i diversi ambiti e per l’attitudine, che in Dossetti diventerà sempre più evidente con il passare del tempo, a guidare la vita civile attraverso l’influenza esercitata su alcuni uomini pubblici.
Infatti, la sua influenza sul mondo cattolico italiano, e non soltanto su alcuni uomini politici, è stata e rimane profonda. Quando ci si chiede perché, anche dopo la caduta della mitologia comunista, ampi settori del mondo cattolico più impegnato rimangano politicamente orientati a sinistra, bisogna risalire alla cultura politica trasmessa da Dossetti come a una delle cause principali. Un insegnamento, il suo, accompagnato da gesti carichi di disinteresse, come le dimissioni dalla Camera dei Deputati nel 1952 e dall’insegnamento universitario nel 1957, e quindi profondamente educativi e capaci di suscitare quella mitologia che ancora oggi permane inalterata. Un insegnamento accompagnato anche da un’indubbia religiosità vissuta, che induce a riflettere una volta di più sul fatto che, nella storia del movimento cattolico, fin dalla divisione fra conservatori e democratici cristiani dopo gli avvenimenti del 1898, gli esponenti delle correnti di sinistra abbiano almeno saputo manifestare un’unità fra fede e vita che spesso gli uomini delle correnti moderate non avevano o, comunque, non esprimevano pubblicamente in nome della separazione fra fede e vita. Da qui l’equivoco molto diffuso di un Dossetti “integralista” contrapposto a un De Gasperi “liberale”: in realtà, esso nasceva dal fatto che le correnti di sinistra nel mondo cattolico hanno sempre ritenuto il liberalismo come un pericolo superiore al socialismo e al comunismo per il bene comune della nazione.
L’ultima battaglia per la Costituzione
Queste riflessioni forse possono servire a spiegare perché, dopo la vittoria elettorale del centro-destra nelle elezioni del 27 marzo 1994, Dossetti abbia sentito il dovere di uscire dal suo ritiro monastico per denunciare a Milano, il 18 maggio dello stesso anno, il pericolo di una modifica in senso presidenzialista della Costituzione italiana, per indicare con parole di malcelata aggressività il rischio di un’evoluzione a destra nella vita politica nazionale, per difendere una Carta Costituzionale, quasi fosse paragonabile alle Tavole della Legge, con un ardore degno della difesa di princìpi di diritto naturale, ma non utilizzato — sarei felice di sbagliarmi — nelle grandi battaglie passate contro le leggi che introducevano nell’ordinamento giuridico italiano i pretesi diritti di divorziare e di abortire. Tali premesse possono inoltre servire a spiegare la paternità di Dossetti nella promozione dei Comitati per la Costituzione e il suo intervento al primo incontro nazionale di questi comitati, a Monteveglio, in provincia di Bologna, il 16 settembre 1994; alla tavola rotonda con l’on. Nilde Iotti tenutasi nella serata dello stesso giorno sui valori della Costituzione e, ancora, l’intervento a Milano, il 20 gennaio 1995, al convegno promosso dall’associazione Città per l’uomo con un testo dal titolo Costituzione oggi, principi da custodire, istituti da riformare?
Ho avuto motivi di preoccupazione di fronte ai possibili rischi del presidenzialismo, anche se per ragioni diverse da quelle di Dossetti. Infatti, avendo potuto osservare fin dagli anni 1970 il “tipo” particolare di clima politico successivo all’accordo di governo fra comunisti e democristiani, passato alla storia con il nome di compromesso storico, ho sempre temuto qualsiasi riforma che, aumentando il potere dell’esecutivo, rendesse ancora più insopportabile la vita degli oppositori. Peraltro, è anche abbastanza facile cogliere le ragioni del presidenzialismo, soprattutto davanti all’esigenza reale, per il bene comune del paese, di un governo che possa governare, dopo aver ricevuto il mandato popolare, con un certo margine di libertà nei confronti delle segreterie dei partiti, e quindi con un potere decisionale superiore a quello previsto in una repubblica parlamentare. Tuttavia, quello che risulta difficile comprendere è il motivo per cui un monaco senta l’esigenza di uscire dal suo monastero per parlare agli uomini del suo tempo, non per incitare alla nuova evangelizzazione o per denunciare il secolarismo della modernità o la babele religiosa della postmodernità, ma per gridare contro Silvio Berlusconi e le sue televisioni, e soltanto le sue, o contro il governo allora guidato dal leader di Forza Italia. Mi è veramente difficile immaginare un uomo di Dio spaventato dalla possibilità di una modifica costituzionale più che dal processo di secolarizzazione che investe il mondo italiano da ormai molti decenni grazie, anche e soprattutto, alle forze da lui sostenute.
Possibili risposte a non facili domande
Non ho conosciuto personalmente Dossetti, ma devo dire che anche un primo accostamento ai suoi scritti e alla sua vita pubblica mi ha fatto percepire di trovarmi di fronte a un uomo destinato a lasciare un segno nella storia. Non è quindi facile cercare di rispondere esaurientemente alle domande poste dalla sua vita pubblica, ma cercherò di indicare alcune costanti del suo pensiero e della sua vita che mi sembrano all’origine dei suoi interventi pubblici e, soprattutto, dell’influenza che continuano a esercitare sulla cultura politica di una parte significativa del mondo cattolico.
Viene anzitutto la sottovalutazione dell’ideologia comunista e della prassi del Partito Comunista Italiano e oggi del Partito Democratico della Sinistra, anche se quello di Dossetti era un atteggiamento di competizione verso i comunisti, che forse sarebbe diventata competizione per l’egemonia, quando comunisti e cattolici fossero rimasti gli unici soggetti attivi nel corpo sociale; in secondo luogo, in Dossetti si può cogliere l’errore dell’identificazione della destra con il fascismo e la non avvenuta storicizzazione di quest’ultimo; infine, la “dogmatizzazione” del rapporto di collaborazione politica con le sinistre, senza prendere in considerazione ipotesi alternative e soprattutto non vincolando ogni scelta di collaborazione politica a una convergenza sui princìpi, almeno su quelli irrinunciabili per un cattolico.
Le stesse vicende della vita di don Dossetti indicano come la sua influenza sulla vita della nazione non si sia limitata all’aspetto politico, ma fosse soprattutto un’azione educatrice di persone, alcune delle quali, come l’on. Romano Prodi, oggi rivestono cariche pubbliche della massima importanza. La sua indubbia collocazione nel fronte progressista non deve però far confondere il suo progressismo con altri, diversi, che convivono nella stessa area culturale. Certamente non si deve confondere né con la teologia della liberazione, che ha dato origine a prospettive politiche sul modello dei cristiani per il socialismo, né con il separatismo fra fede e politica tipico del neomodernismo ed espresso nella “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica Italiana sotto la presidenza di Vittorio Bachelet. L’interpretazione forse più puntuale del suo pensiero è quella avanzata da Augusto Del Noce, che vedeva nel dossettismo politico un problema teologico, costituito dal rifiuto da parte di Dossetti dell’opposizione della Chiesa cattolica alla modernità a partire dalla Controriforma, convinto com’era — e come ribadì ancora recentemente parlando ai sacerdoti della diocesi di Pordenone, il 17 marzo 1994 — che “la cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità. Il sogno dello storico Eusebio da Cesarea è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami fino ad ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici, tant’è vero che su alcuni valori che consideravamo supremi — come il divorzio e l’aborto — non abbiamo saputo condurre una linea di resistenza veramente a livello storico e culturale e siamo stati sconfitti. Come dovevamo esserlo. Non perché i principi e i valori che difendevamo non fossero veri nella loro sostanza ultima, ma perché non potevano essere difesi in quel contesto e in quel frammento di pensiero non organico, non motivato in maniera nuova e creativa.
“E così oggi sentiamo parlare di altri valori o di altre battaglie (l’omosessualità e così via), ma chi dà un pensiero adeguato, che possa veramente, in maniera nuova e creativa, smontare le obiezioni contrarie? Qual è il tipo di nuova cultura che può opporsi a questo? E se ci si oppone, come ci si oppone? Con una resistenza che sa di retroguardia, che sa di imparaticcio, che sa di ripetizione di luoghi comuni; e che invece bisogna completamente reinserire nel quadro organico di una cultura adeguata. Se no, che cosa si fa? Si fa, si tenta di fare un regime di salvataggio dei residui della cristianità senza più l’integrazione organica del pensiero che la sorreggeva. E perciò si è destinati sicuramente alla sconfitta.
“Allora la quarta convinzione profonda è questa: che i nostri valori debbano essere difesi in nome di due cose: di una visione organica, vitale, creativa del cristianesimo di sempre; e, in secondo luogo, in nome anche di una nuova cultura veramente adeguata con le scienze umane contemporanee. Non perché debba assumerle nel loro contenuto materiale, ma perché deve essa rinnovarsi nel pensiero inquadrante. Come per esempio per Tommaso d’Aquino, al risveglio del pensiero aristotelico nell’Occidente lo ha inquadrato in un sistema organico, a quell’epoca pienamente adeguato.
“Ci vuole una cultura creativa: il cristianesimo forte, non debole, di sempre” (1).
Don Giuseppe Dossetti e l’Ulivo
Parlando ai delegati del secondo congresso del PDS, l’on. Massimo D’Alema, per distinguere la sua azione politica da quella dell’on. Bettino Craxi, ha ricordato come il PDS abbia unito la sinistra nel governo dell’Ulivo portandola a collaborare con la sinistra cattolica, mentre l’ex segretario del Partito Socialista Italiano aveva diviso la sinistra e portato i socialisti al governo con la destra democristiana. Queste parole ricordano come l’alleanza politica dell’attuale governo italiano esprima a posteriori il desiderio politico di don Dossetti circa una stabile collaborazione fra cattolici, socialisti e comunisti, anche se, per certo, la prospettiva del PDS va ben oltre l’accordo politico attorno ai valori della Costituzione, vaticinato dalla sinistra cattolica riunita nell’attuale Partito Popolare Italiano. La lunga opera di educazione culturale e politica di don Dossetti — tralasciando quella più specificamente ecclesiale — sembra trovare un certo compimento storico proprio quando il suo ispiratore abbandona la scena di questo mondo.
Marco Invernizzi
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(1) Giuseppe Dossetti, Conversazioni, Cooperativa Culturale in Dialogo, Milano 1994, pp. 19-20.