Intervento, riveduto e annotato, al convegno dal titolo Fatima. 1917-2000 e oltre, organizzato da Alleanza Cattolica e da Cristianità, a Ferrara, il 13-10-2001, nel quadro della settimana mariana dell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, su cui cfr. Giuseppe Bonvegna, “Fatima. 1917-2000 e oltre”, in Cristianità, anno XXIX, n. 308, novembre-dicembre 2001, pp. 19-21.
DON PIETRO CANTONI, Cristianità, n. 313 (2002)
Fatima è una rivelazione privata approvata dalla Chiesa. Mi chiedo: che cos’è una rivelazione privata? Quali sono i rapporti che essa intrattiene con la Rivelazione pubblica? Qual è il suo valore? Qual è la natura dell’assenso che un fedele cattolico deve a una rivelazione privata quando essa è approvata dalla Chiesa? Mi limito a queste condizioni formali senza addentrarmi programmaticamente in una interpretazione teologica del messaggio. Infatti, non è mia intenzione elaborare una riflessione teologica originale sulle “rivelazioni private” in genere e su quella di Fatima in specie, quanto piuttosto richiamare i criteri teologici indispensabili per una corretta interpretazione dell’evento (1).
1. Che cos’è una rivelazione privata?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime così: “Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall’autorità della Chiesa. Esse non appartengono tuttavia al deposito della fede. Il loro ruolo non è quello di “migliorare” o di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica. Guidato dal Magistero della Chiesa, il senso dei fedeli sa discernere e accogliere ciò che in queste rivelazioni costituisce un appello autentico di Cristo o dei suoi santi alla Chiesa.
“La fede cristiana non può accettare “rivelazioni” che pretendono di superare o correggere la Rivelazione di cui Cristo è il compimento. È il caso di alcune Religioni non cristiane ed anche di alcune recenti sette che si fondano su tali “rivelazioni”” (2).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riprende il termine “rivelazione privata”, anche se esso è parso a molti sempre meno soddisfacente. Il termine “privata” indica infatti che il destinatario della rivelazione non è la Chiesa in quanto tale, ma una sola persona o un gruppo di persone. Si è fatto allora notare che vi sono rivelazioni private che non soltanto hanno avuto di fatto una ripercussione decisamente “pubblica”, ma che sono evidentemente destinate a tutta la Chiesa. Il messaggio di Fatima costituisce a questo proposito un caso emblematico. La richiesta della consacrazione del mondo — e della Russia in particolare — al Cuore Immacolato di Maria da parte del Papa in unione con tutti i vescovi non può certamente essere letta in un’ottica “privata”. Sono state proposte terminologie alternative: rivelazione “speciale” o “particolare”. Il termine “speciale” vanta un importante precedente magisteriale, perché è usato dal Concilio Ecumenico di Trento (1545-1563) nel decreto sulla Giustificazione: “Nessuno […] fino a che vivrà in questa condizione mortale, deve presumere dell’arcano mistero della divina predestinazione fino al punto da ritenersi sicuramente nel numero dei predestinati, quasi fosse vero che chi è stato giustificato non può più peccare, e se anche pecca deve essere certo di un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono conoscere quelli che Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione [nisi ex speciali revelatione]“ (3).
Anche il termine “particolare” fu usato nello stesso Concilio Ecumenico di Trento, però solo negli atti. Entrambi i termini vogliono sottolineare la differenza sostanziale che intercorre fra la Rivelazione che fonda la Chiesa e le rivelazioni che possono sopraggiungere anche nel tempo della Chiesa. Altri propongono di operare sul termine “rivelazione”, cioè d’inquadrare questi fenomeni non più a partire dalla categoria di rivelazione, ma da quella di profezia (4). La proposta ha una sua plausibilità: non bisogna dimenticare, per esempio, che nella Summa Theologiæ di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) non esiste un trattato sulla rivelazione, ma quello che oggi siamo soliti considerare con quella categoria è invece sviluppato nel contesto del carisma profetico. Nel Simbolo della fede il tema della rivelazione è toccato con l’espressione “qui locutus est per prophetas”. Questo modo di esprimersi presenta certamente il vantaggio di sottolineare con forza la differenza qualitativa fra la Rivelazione con l’iniziale maiuscola e questi aiuti soprannaturali che vengono a rafforzarla e comunque sempre a servirla. Tali aiuti sono certamente carismi, appunto di carattere profetico.
Si potrebbe anche usare, al posto di “rivelazione”, il termine “manifestazione”. Così sembra suggerire san Giovanni della Croce (1542-1591): “Dio ai nostri tempi fa ancora rivelazioni […]. Suole […] svelare allo spirito le verità riguardanti i misteri della nostra fede, quantunque ciò non si possa chiamare in senso proprio rivelazione poiché si tratta di verità già rivelate, ma piuttosto manifestazione o spiegazione [manifestación o declaración] di quanto è stato già svelato” (5).
Penso che il Catechismo della Chiesa Cattolica conservi il termine perché esso si è ormai imposto nell’uso linguistico ecclesiale e teologico e ha acquisito così almeno una legittimità d’uso. Non credo neppure che sia del tutto sprovvisto di un suo intrinseco valore. Privato contrapposto a pubblico sottolinea non tanto la destinazione — a questo proposito vi possono essere rivelazioni private sia con finalità privata sia con finalità pubblica, come è certamente il caso del messaggio di Fatima — quanto la necessità in rapporto al piano della salvezza. La Rivelazione pubblica è quella che si pone a fondamento dell’economia della salvezza nel suo complesso e della Chiesa in quanto tale, mentre le rivelazioni private, per quanto straordinariamente utili ed efficaci, hanno solo un ruolo sussidiario e circostanziale. Traggono sempre tutta la loro necessità dall’unica Rivelazione “ufficiale”.
Torno dunque alla “Rivelazione” e cerco di leggere, a partire da essa, il fatto delle rivelazioni private, speciali o particolari, delle profezie che si situano dopo la venuta di Gesù Cristo.
La rivelazione nel suo fondamento remotissimo è “da sempre” in Dio. Dio da tutta l’eternità “si dice”, si esprime con amore. Questa sua parola è a sua volta diretta con amore al suo principio, così che — nell’amore dello Spirito Santo — Padre e Figlio sono con Lui un unico Dio. Un Dio però che da sempre si dice, si comunica.
Dio, con la sua parola, crea il mondo e nel mondo qualcuno che possa essere suo interlocutore. Così si manifesta nell’ordine del cosmo e nella luce della mente dell’uomo, che è come un sigillo del suo Verbo: questa è la rivelazione naturale o cosmica.
Dio parla molte volte e in molti modi attraverso i profeti finché — nella pienezza del tempo — la sua eterna Parola si fa carne (cfr. Eb. 1, 1). La rivelazione eterna di Dio si compie nel tempo nella persona e nella vita di Gesù di Nazaret, in cui abita la pienezza della divinità (cfr. Col. 2, 9). Se in Cristo la Rivelazione si compie, che senso possono avere ormai altre rivelazioni? Sono note le parole di san Giovanni della Croce: “Poiché in quest’era di grazia la fede in Cristo è diventata stabile e la legge evangelica si è manifestata, non v’è nessuna ragione che s’interroghi Dio e che Egli parli e risponda come allora. Infatti dandoci il Figlio suo, che è la sua parola, l’unica che Egli pronunzi, in essa ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più niente da manifestare” (6).
A questo proposito diventa molto chiaro perché la Rivelazione si è conclusa, se non proprio con la morte dell’ultimo Apostolo, certamente con la messa per iscritto dell’ultimo testo dei libri del Nuovo Testamento. Non per un atto arbitrario di Dio, ma per la logica intrinseca di quella scelta economica da lui fatta di salvare il mondo e di ricondurlo a sé attraverso l’incarnazione del Verbo e la sua passione, morte e risurrezione. In Cristo abbiamo il culmine e il compimento della Rivelazione. Si potrebbe dire che lui è la Rivelazione in persona! “Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini” [Lettera a Diogneto, 7, 4: Funk, Patres Apostolici, I, p. 403], “proferisce le parole di Dio” (Gv. 3, 34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv. 5, 36; 17, 4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cf. Gv. 14, 9), col fatto stesso della presenza e manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l’invio dello Spirito di verità, porta a perfetto compimento la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina, cioè manifestando che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e per risuscitarci alla vita eterna” (7).
Non a caso proprio in questo contesto il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) fa menzione — in modo implicito — dell’esistenza di rivelazioni private: “L’economia cristiana, dunque, in quanto è l’alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1 Tim. 6, 14 e Tit. 2, 13)” (8).
Prima della Parusìa non vi saranno altre rivelazioni pubbliche, il che lascia intendere che ci possono essere rivelazioni di altro tipo, cioè private.
Ma che senso possono avere altre rivelazioni quando in Cristo ci è stato detto tutto? Non si potrebbe allora adattare al caso il detto attribuito al califfo ‘Omar ibn al-Khattab (591-644) davanti alla moltitudine dei libri della biblioteca di Alessandria? O dicono quello che vi è nel Corano e allora sono inutili, oppure dicono il contrario e allora sono dannosi…
In realtà dobbiamo riflettere sul fatto che la Rivelazione non può essere ridotta a un insieme di proposizioni in cui è contenuto tutto quanto un cristiano può e deve sapere per regolarsi nella vita e per salvarsi. La vita, infatti, è sempre mutevole e la Rivelazione va applicata alle cangianti situazioni della storia. Se poi si considera che la concezione della rivelazione e quindi del sacro deposito come “insieme di proposizioni” — proprio alla luce di quanto sopra ricordato — è decisamente insufficiente, allora diventerà sempre più chiaro che la completezza della Rivelazione non esclude altri interventi salvifici di Dio di natura comunicativa. La Rivelazione infatti si compie in Cristo, Parola consustanziale di Dio fatta carne e si attua “[…] col fatto stesso della presenza e manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti”. L’economia della rivelazione, come si era già dispiegata nell’Antico Testamento mediante “eventi e parole” (9), viene qui a perfezione mediante la Parola che si fa evento e fatto. I fatti hanno bisogno delle parole per dischiudere il loro significato e le parole hanno bisogno dei fatti per svelare tutta la loro portata realistica. Gli Apostoli non sono solo depositari di un complesso d’insegnamenti di Gesù, bensì testimoni che hanno accompagnato il Signore in tutta la sua vita pubblica fino agli eventi della passione e morte e — insieme — sono stati testimoni della sua risurrezione. “[…] tutta la dogmatica della Chiesa, anche quando si esprime attraverso i suoi concetti e proposizioni le più astratte, non è altra cosa che l’esplicitazione della conoscenza concreta e personale che gli apostoli hanno avuto dell’uomo Gesù e che hanno trasmesso come hanno potuto ai loro discepoli” (10). Gesù stesso ha interpretato il senso della sua vita e gli Apostoli, come testimoni della resurrezione, hanno interpretato il senso di questo evento conclusivo e risolutivo.
Alla rivelazione risponde la fede e la fede non ha per suo termine parole, ma realtà. “L’atto di fede non ha per oggetto la proposizione ma la realtà, sia nella scienza che nella fede infatti formuliamo proposizioni solamente per conoscere la realtà” (11). Noi non crediamo a dogmi, ma crediamo a Dio, crediamo Dio, crediamo in Dio. E questo avviene in Cristo, nella sua persona e nella sua vita, che è la Rivelazione di Dio, “insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (12).
2. Qual è il valore delle rivelazioni private?
Da quanto detto si delinea il senso e il valore di comunicazioni di Dio di natura conoscitiva nel tempo della Chiesa, cioè dopo il compimento della Rivelazione pubblica in Cristo.
Negativamente dobbiamo escludere da loro qualunque valore di completamento, di aggiunta rispetto alla Rivelazione perfetta e definitiva. Positivamente dobbiamo leggerle come aiuti e sussidi perché la Rivelazione rimanga nella sua attualità.
Una mentalità di stampo razionalistico evidentemente fatica un po’ a comprendere questo.
Nella concezione propria del deismo Dio crea il mondo con il suo ordine e le sue leggi. Questo mondo, una volta posto nell’essere, cammina — per così dire — da solo. L’essere è in qualche modo “cosificato” e non ha più bisogno di Dio per sussistere. In realtà l’essere è atto ed è mantenuto in atto — secondo l’essenza che lo limita e lo determina — dall’Atto primo e puro che è Dio. Così Dio crea il mondo e il tempo, mantiene nell’essere il mondo e interviene con la sua sapiente provvidenza nel dispiegarsi delle vicende del mondo nel tempo, cioè nella sua storia. La stessa rivelazione di Dio non solo avviene nella storia, ma attraverso la storia, mediante “eventi e parole”: “Il cristianesimo è religione calata nella storia! È sul terreno della storia, infatti, che Dio ha voluto stabilire con Israele un’alleanza e preparare così la nascita del Figlio dal grembo di Maria nella “pienezza del tempo” (Gal. 4, 4). Colto nel suo mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima. È per mezzo di lui, infatti, Verbo e immagine del Padre, che “tutto è stato fatto” (Gv. 1, 3; cfr. Col. 1, 15). La sua incarnazione, culminante nel mistero pasquale e nel dono dello Spirito, costituisce il cuore pulsante del tempo, l’ora misteriosa in cui il Regno di Dio si è fatto vicino (cfr. Mc. 1, 15), anzi ha messo radici, come seme destinato a diventare un grande albero (cfr. Mc. 4, 30-32), nella nostra storia” (13).
La verità della provvidenza non è accessoria nel complesso delle verità rivelate: si situa piuttosto in posizione centrale. Il nucleo minimale oggettivo delle verità da credersi per la salvezza è costituito infatti da un Dio personale, trascendente e provvidente. “La sacra Scrittura può essere detta tutta quanta storia della provvidenza divina” (14).
Esiste così anche una “provvidenza della Rivelazione” che non è lasciata a sé stessa, semplicemente affidata a un libro — la Scrittura — o a una serie di libri, quali potrebbero essere gli scritti dei Padri della Chiesa, gli atti e i documenti dei concili e anche i testi del magistero dei Papi del passato. Dovrebbe essere chiaro che il cristianesimo non è una “religione del libro”, perché — per quanto la Scrittura abbia in esso un ruolo assolutamente centrale — la forma di comunicazione propria e fondamentale della verità rivelata è il contatto personale. La Rivelazione non è — come abbiamo visto — una pura comunicazione d’informazioni, ma un processo vitale a cui appartiene anche naturalmente, come componente essenziale, una dimensione dottrinale, che interessa direttamente l’intelligenza e la riflessione.
La prima provvidenza della Rivelazione è quella di mantenerla sempre “in atto”. La Rivelazione, cioè, non è un evento che ha avuto luogo nel passato e che ha lasciato residui da conservare e da trasmettere in qualche modo. Così come il mondo non è stato creato una volta per tutte e lasciato a sé stesso come nella prospettiva del deismo. Dio si è rivelato per continuare a rivelarsi a ogni uomo che accoglie la sua parola attraverso l’annuncio e la predicazione della Chiesa. Ogni volta che un cuore si apre alla fede succede la Rivelazione. Non un’altra e neppure una nuova fase della Rivelazione, perché il processo si è storicamente concluso ed è giunto alla sua pienezza insuperabile, ma la stessa Rivelazione che permane viva e attuale. Anche a questo proposito gioca il suo ruolo l’“una volta per tutte”, l’“efápax” (Rom. 6, 10; ed Eb. 7, 27; 9, 12; e 10, 10) dell’evento di Cristo.
Se la Rivelazione cristiana si è definitivamente condensata nei testi del Nuovo Testamento e nella Tradizione costitutiva, questo però non significa che essa non conosca uno sviluppo, come conviene a una realtà che deve rimanere sempre viva. Proprio appena prima di affrontare il tema delle rivelazioni private il Catechismo della Chiesa Cattolica affronta il tema dello sviluppo: ““L’Economia cristiana, in quanto è Alleanza Nuova e definitiva, non passerà mai e non è da aspettarsi alcuna nuova Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 4]. Tuttavia, anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli” (15).
Viene alla mente una bella espressione di Michele Federico Sciacca (1908-1975): “[…] il tempo è compiuto, ma non ancora consumato” (16). Questo esprime la dimensione propria del tempo postcristiano, che è strutturalmente tempo ultimo, anche se non ci è dato di sapere “il giorno e l’ora” della fine (cfr. Mt. 25, 13). Così la Rivelazione è certamente ultima, l’unico incremento qualitativo che a essa compete è quello che si produrrà con l’avvento glorioso di Cristo, “il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione”. Questa Rivelazione ultima, però, non ha ancora manifestato tutte le sue ricchezze, deve esplicitarsi, svilupparsi. Non — come ammonisce il Magistero — quasi fosse una scoperta della sapienza umana, un philosophicum inventum, tale da essere elaborato e “completato” mediante il lavorío dell’ingegno dell’uomo (17). La crescita della Rivelazione dopo Cristo non è più oggettiva, ma soggettiva, cioè crescita nella comprensione della Chiesa. Questa crescita non è affidata al puro sforzo dell’uomo, sia pure credente — neppure potrebbe esserla — ma è anch’essa opera dello Spirito. “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv. 16, 12-13). Lo Spirito non veglia solo affinché la Rivelazione non venga dimenticata, ma anche perché di essa venga ricordato quanto serve al momento opportuno: “[…] il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv. 14, 26). Non solo, ma opera perché venga esplicitato il suo contenuto, cioè il credente sia introdotto progressivamente “alla verità tutta intera”.
San Gregorio Magno (540 ca.-604), commentando la visione del carro all’inizio del libro di Ezechiele, davanti al simbolismo dinamico espresso dalle ruote del carro, usa una formulazione molto forte: “Le parole divine crescono insieme con chi le legge” (18).
Quali sono i fattori umani che operano questo sviluppo sotto l’azione dello Spirito Santo? Il Concilio Ecumenico Vaticano II li enumera così: “Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo [cf. Conc. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, cap. 4: Denz. 1800 (3020)]; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti, che le meditano in cuor loro (cf. Lc. 2, 19 e 51), sia con l’intelligenza attinta dall’esperienza profonda delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma certo di Verità. La Chiesa, in altre parole, nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio” (19).
Si tratta della teologia, “la contemplazione e lo studio dei credenti”; della preghiera e della contemplazione, “la meditazione nel cuore e la profonda intelligenza sperimentale delle cose spirituali”; e del Magistero vivente, “la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma certo di Verità”: tre istanze da concepire in profonda connessione reciproca, distinte ma mai separate.
Abbiamo così incontrato un insieme di provvidenze divine finalizzate al mantenimento della Rivelazione nella sua attualità, nella sua efficacia e nella sua vita. Esse si raccolgono e si condensano nella Chiesa che deve essere concepita come il fulcro e il nerbo di tutte le provvidenze di Dio. Essa è “manifestazione dello Spirito Santo” (20). A questo punto non è più così difficile cogliere il senso e il proprio luogo teologico delle rivelazioni private: accanto al Magistero vivente, alla riflessione teologica, al senso e istinto della fede dei credenti è una delle provvidenze che Dio non fa mai mancare alla sua Chiesa perché la Rivelazione in essa sia sempre viva, attuale ed efficace. Non è mia intenzione entrare nel merito dei criteri di discernimento delle rivelazioni private (21), tuttavia, da quanto detto, emergono alcune chiare indicazioni: negativamente il fatto di non contraddire, né pretendere di completare la definitiva Rivelazione che è Cristo; positivamente il fatto di rimandare con chiarezza e decisione a Cristo stesso e quindi il suo carattere chiaramente ecclesiale, che naturalmente tende a compiersi in un’approvazione da parte dell’autorità della Chiesa.
Per san Tommaso d’Aquino le rivelazioni — le profezie! — continuano anche dopo la conclusione della Rivelazione pubblica, non però per completarla ma per dirigere i comportamenti degli uomini in conformità a essa: “I profeti che annunciavano la venuta di Cristo non hanno potuto esistere che “fino a Giovanni”, il quale ha indicato con il dito Cristo in persona. Tuttavia san Gerolamo scrive a questo proposito: “Non è detto che dopo Giovanni non ci siano più profeti; leggiamo infatti negli Atti degli Apostoli che Agabo ha profetizzato, e anche le quattro vergini figlie di Filippo”. Inoltre Giovanni ha scritto un libro profetico sulla fine della Chiesa. E, in ogni periodo, non sono mancati alcuni dotati di spirito profetico, non in verità per proporre una nuova dottrina, ma per dirigere l’attività umana [non quidem ad novam doctrinam fidei depromendam, sed ad humanorum actuum directionem]“ (22).
Questo principio è stato ripreso dalla letteratura teologica seguente, soprattutto da Papa Benedetto XIV (1740-1758), nella sua importantissima opera canonistico-teologica De servorum Dei beatificatione et sanctorum canonizatione, un vero classico in materia, e anche dal Magistero; infatti il trattato di Papa Benedetto XIV è opera di teologo privato.
“Essi [i Pontefici Romani] — afferma il Papa beato Giovanni XXIII (1958-1953) in un messaggio del 1959 — si fanno anche un dovere di raccomandare all’attenzione dei fedeli — quando dopo maturo esame lo giudicano opportuno per il bene generale — i lumi soprannaturali che piace a Dio dispensare liberamente a certe anime privilegiate, non per proporre nuove dottrine, ma per guidare la nostra condotta” (23).
Si potrebbe dire che le rivelazioni private hanno le caratteristiche di una grande “direzione spirituale” divina (24). Esse non sono — propriamente parlando — fattori di sviluppo dogmatico, che è opera piuttosto della riflessione teologica, della maturazione spirituale del popolo fedele, dell’insegnamento del Magistero. Possono però essere provvidenziali occasioni di esso: illuminando verità già note ma dimenticate, proponendo devozioni adatte ai tempi, in generale aiutando la Chiesa a leggere “i segni dei tempi” (Mt. 16, 3). Leggere i segni dei tempi vuol dire, secondo un’efficace espressione del card. Joseph Ratzinger, “[…] riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo” (25). La categoria dei segni dei tempi è di grande importanza per comprendere il valore delle rivelazioni private e quindi accoglierle in modo corretto. Lo statuto storico della Rivelazione pubblica non può non riflettersi nel modo della sua continua riattualizzazione e quindi anche nella natura e nella finalità di quelle provvidenze straordinarie che sono le rivelazioni private: “[…] si può collegare il carisma della profezia con la categoria dei “segni del tempo”, che è stata rimessa in luce dal Vaticano II: “… Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Lc 12, 56). Per “segni del tempo” in questa parola di Gesù si deve intendere il suo proprio cammino, egli stesso. Interpretare i segni del tempo alla luce della fede significa riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo. Nelle rivelazioni private riconosciute dalla Chiesa — quindi anche in Fatima — si tratta di questo: aiutarci a comprendere i segni del tempo ed a trovare per essi la giusta risposta nella fede” (26).
Una “grande direzione spirituale” con cui Dio, lo Spirito Santo di Dio, guida la sua Chiesa per vivere la fede, per crescere nella fede, per affrontare gli ostacoli che si ergono nella storia sul suo cammino. Il singolo cristiano, per percorrere il cammino della sua esistenza e giungere al porto della salvezza, non può regolarsi solo sulla ragione e neppure sulla sola ragione illuminata dalla fede. Ancora san Tommaso d’Aquino mette in luce questo punto con l’abituale chiarezza: “Rispetto alle cose soggette alla ragione umana, cioè in ordine al suo fine connaturale, l’uomo può agire mediante il giudizio della ragione. Se poi anche in questo un uomo viene aiutato da Dio con un’ispirazione speciale, ciò si deve a una sovrabbondanza della bontà divina […]. Ma in ordine al fine soprannaturale, verso cui muove la ragione in quanto imperfettamente formata dalle virtù teologali, non basta la mozione della ragione stessa, senza l’ispirazione e la mozione dello Spirito Santo” (27); “La ragione umana non è in grado, né di conoscere, né di compiere tutte le cose, sia che si consideri perfetta per una perfezione naturale, sia che si consideri perfetta per le virtù teologali” (28).
Se applichiamo analogicamente questo discorso a tutta la Chiesa ne evinciamo che nel suo accidentato e sovente drammatico cammino non le è sufficiente il puro esercizio della ragione, anche se è formata dalla fede e dalle altre virtù teologali. Non è sufficiente la ragione teologica, neppure la ragione del Magistero e neanche la ragione dei fedeli per quanto santa sia la loro vita: ci vuole una mozione dello Spirito. La teologia, infatti, parla di assistenza dello Spirito Santo (29), che investe tutta la Chiesa e il Magistero nell’esercizio della sua funzione di guida. Non si può certamente dedurre da questo una qualche necessità di un intervento straordinario di Dio, per così dire esterno a queste sue provvidenze ordinarie e strutturali. Credo però che si possa parlare di altissima convenienza: la necessità del dono di Dio, che sopraggiunge come dal di fuori, si esprime in modo manifesto e visibile proprio in quei carismi straordinari che sono le rivelazioni private e le apparizioni.
Naturalmente così come il singolo cristiano deve rimanere aperto all’influsso e docile alla mozione dello Spirito, ma deve anche essere prudente nel saper distinguere quanto viene veramente dallo Spirito e non solo dalla sua natura o dal maligno, così in tutto ciò s’impone il discernimento. Il corretto atteggiamento da tenere nei confronti delle profezie è d’altra parte già chiaramente tratteggiato nella Scrittura. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, forse il più antico scritto del Nuovo Testamento, troviamo questa norma di comportamento: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate [mè exoutheneîte] le profezie; esaminate [dokimázete] ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1 Ts. 5, 19-21).
Lo stesso concetto è ribadito nella prima lettera di san Giovanni: “Carissimi, non credete a ogni spirito, ma esaminate [dokimázete] gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio” (1 Gv. 4, 1).
L’alternativa al “tener per nulla”, exoutheneîn, non è il credere senz’altro, ma il dokimázein, che vuol dire “saggiare”, “mettere alla prova” (30). San Giovanni della Croce, nel dare i suoi consigli operativi piuttosto negativi riguardo a visioni e a locuzioni, è certamente condizionato dall’ottica particolare in cui si pone, che è quella dell’anima che percorre la via dell’unione mistica con Dio, in cui la nuda fede e la contemplazione infusa giocano un ruolo centrale; tuttavia esprime bene il senso di questo dokimázein, che è un severo saggiare e mettere alla prova. “L’anima pura, prudente, semplice e umile — scrive il santo Dottore — deve resistere con grande forza e cura alle rivelazioni e alle visioni come se fossero tentazioni pericolose” (31).
Se è Dio che opera, saprà per certo trovare il modo d’imporsi con l’evidenza interiore e con altri chiari segni di autenticità. Anche l’atteggiamento così severamente prudente dell’autorità ecclesiastica risponde a questa logica, che è quella della Scrittura. Non si tratta di essere critici per diffidenza o per un sottile razionalismo, che non ritiene possibile o plausibile che Dio intervenga nelle nostre faccende con la sua sovrana libertà — questo sarebbe appunto spegnere o disprezzare — ma piuttosto d’indagare con attenzione per riconoscere fra le molte manifestazioni pseudoprofetiche — “Molti falsi profeti sono comparsi nel mondo” (1 Gv. 4, 1) — quel raro ma possibile intervento di Dio che, se autentico, è solo da accogliere con gioia e riconoscenza.
Don Dominique Peyramale (1811-1877), il parroco di Lourdes, è un caso tipico. Personalmente è portato a credere alla verità delle apparizioni, ma per la sua funzione, per la sua responsabilità davanti al vescovo, assume un atteggiamento molto duro nei confronti di santa Bernadette Soubirous (1844-1879). Non diverso è il comportamento di don Manuel Marques Ferreira (1880-1945), il parroco di Fatima, che riesce quasi a convincere Lucia che è tutto un inganno del demonio…
La profezia va messa alla prova. L’esame attento, critico, con cui l’autorità pastorale e la teologia la esaminano non è — non deve essere — un cedimento al razionalismo e all’incredulità, ma è l’esercizio di un ministero, cioè di un servizio indispensabile e assolutamente voluto da Dio. La vera prudenza non è fuga o timidezza, ma coraggioso esercizio di applicazione dell’intelligenza illuminata dalla fede e guidata dallo Spirito alla concretezza della vita.
L’organo proprio del discernimento, in questo campo, non può essere altro che la legittima autorità della Chiesa. Questo fatto non è mai stato esente da tensioni. Chi ha a che fare con un evento carismatico, che sembra mettere in diretto contatto con Dio, è spesso sottoposto alla tentazione di disprezzare l’ordinario ministero dei pastori della Chiesa. Questo fu il dramma del montanismo che travolse perfino una personalità forte come Quinto Settimio Florenzio Tertulliano (160 ca.-220 ca.). Uno dei criteri di discernimento più sicuri è certamente questo: l’umiltà e la disponibilità con cui i veggenti si sottopongono all’esame dell’autorità, al suo dokimázein. Atteggiamento che deve essere ispirato dalla rivelazione stessa perché si presenti come autentica opera di Dio. Una rivelazione che si contrapponesse alla Chiesa testimonierebbe assurdamente di un Dio che contraddice sé stesso. Per valutarlo occorre considerare che — a guardare le cose con più profondità — il confronto fra profezia e autorità ecclesiastica non è fra carisma e autorità, ma fra carisma della profezia e carisma dell’autorità. L’autorità della Chiesa infatti — e questo le è assolutamente essenziale —, pur essendo qualcosa di stabile e d’istituzionale, è di natura carismatica perché, attraverso la trasmissione apostolica e l’assistenza che l’accompagna, ha le sue radici in Cristo e si compie per mezzo dello Spirito che lui ci ha donato dalla croce. L’uomo moderno coglie a fatica questo pluralismo istituzionale proprio della Chiesa a causa della sua tendenza a misurare tutto in termini di potere e a risolvere tutte le tensioni in termini di conflitto di potere. Si pensi al problema scottante dei rapporti fra teologia e Magistero. Anche la teologia può essere intesa come un carisma, cioè come un dono non direttamente per il bene del soggetto ma per il bene della Chiesa. L’autorità del teologo però non comporta un potere canonico, è la sola autorità dei suoi argomenti, destinata sempre strutturalmente a subordinarsi a quella dei pastori. Anche l’autorità del carismatico è tutta nei segni che esibisce alla prudenza del credente, a cui si può aggiungere l’approvazione ed eventualmente anche la raccomandazione dei pastori.
3. Qual è la natura dell’assenso che un fedele cattolico deve a una rivelazione privata quando essa è approvata dalla Chiesa?
Sull’assenso da prestare alle rivelazioni che, messe alla prova, si sono rivelate autentiche, e come tali sono state approvate dall’autorità ecclesiastica, ha raccolto un generale consenso sia nella teologia che nel Magistero la posizione di Papa Benedetto XIV, nel suo famoso trattato sulla beatificazione e la canonizzazione dei servi di Dio: “Bisogna sapere che questa approvazione non è nient’altro che il permesso, dopo maturo esame, di pubblicare [tali rivelazioni] per l’edificazione e l’utilità dei fedeli: cosicché alle rivelazioni così approvate, sebbene non si debba né si possa prestare un assenso di fede cattolica, è dovuto tuttavia un assenso di fede umana secondo le regole della prudenza, per cui queste rivelazioni sono probabili e si possono religiosamente credere” (32).
In particolare questa posizione è stata ripresa da Papa san Pio X (1903-1914): “Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent’anni addietro [Decr. 12 maii 1877]: “Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da credersi piamente con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonee testimonianze e documenti. Chi si attiene a questa regola, non può avere nessun timore. Infatti il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto; in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei Santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie” (33).
Secondo Papa san Pio X il fatto dell’apparizione — anche dopo l’approvazione della Chiesa — rimane oggetto di sola fede umana. Non è questo però che importa perché esso è solo relativamente oggetto di culto. Il culto s’indirizza in modo assoluto alla persona che è soggetto dell’apparizione. Esattamente come succede per il culto delle immagini: a esse si presta culto solo relativamente, cioè in quanto rimandano alla persona rappresentata.
La posizione è stata ripresa e riaffermata — e questo è importantissimo per il nostro argomento — dal card. Ratzinger, nel commento teologico di accompagnamento al testo del “terzo segreto” in occasione della sua comunicazione al mondo il 26 giugno 2000. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cita anche un teologo gesuita fiammingo, che si è occupato a lungo delle apparizioni di Fatima, Eduard Dhanis S.J. Padre Dhanis riassume così il senso e il valore dell’approvazione della Chiesa in tale materia: “[…] l’approvazione ecclesiastica di una comunicazione celeste significa tre cose nei suoi riguardi; primieramente che in essa non vi è nulla contro la fede e i buoni costumi; secondariamente che è permesso di pubblicarla; in terzo luogo che i fedeli sono espressamente autorizzati ad accordarle prudentemente il loro assenso. L’approvazione ecclesiastica in queste materie significa ciò e non altro, perché le dichiarazioni del magistero in queste cose sono proporzionate all’ufficio che gli è divinamente confidato: deve conservare, interpretare e difendere il deposito della fede, ricevuto da Cristo e dagli apostoli, deve farlo con l’assistenza dello Spirito Santo, ma senza fondare il suo insegnamento su nuove rivelazioni. Una tale approvazione dev’essere ricevuta con rispetto e con ubbidienza. A dire il vero, essa non insegna precisamente la realtà della comunicazione celeste. Però normalmente non vien concessa, se non dopo un’inchiesta storica e teologica seria: in tal modo essa rappresenta una garanzia che indurrà normalmente un uomo prudente ad ammettere parimente questa realtà. Più le approvazioni ecclesiastiche di certe comunicazioni soprannaturali si ripetono e divengono solenni — ciò che suppone per principio un nuovo esame o un’aggiunta di garanzia, — maggiormente esse pesano sul giudizio di un uomo saggio ed umile. Ma, per ciò che riguarda l’ammissione dell’origine celeste dell’apparizione o della rivelazione, esse continuano a fare appello alla prudenza piuttosto che all’ubbidienza“ (34).
Visto l’impegno che il Magistero ha speso nei confronti di alcuni eventi, in particolare quelli di Paray-le-Monial (1673-1675), di Lourdes (1858) e di Fatima, qualcuno ha avanzato la proposta di rivedere questa dottrina ormai diventata comune, ma non più ritenuta conforme alla prassi della Chiesa. Contro questa tesi sono dunque state sollevate importanti obiezioni.
Anzitutto si è fatto notare come la tesi della fede umana nei confronti di una rivelazione privata conoscesse importanti eccezioni fra i grandi teologi del passato. Francisco Suárez S.J. (1548-1617) e il card. Juan de Lugo S.J. (1583-1660), infatti, sostengono che il destinatario di una rivelazione divina deve aderire a essa con fede teologale. Karl Rahner S.J., richiamando la posizione di Suárez, la estende ulteriormente anche a tutti coloro che — destinatari mediati della rivelazione — colgono segni certi della sua origine divina. Se Dio parla allora l’obbedienza che gli è dovuta può essere solo quella della fede divina. Divina e non cattolica, perché manca la propositio Ecclesiæ.
Secondariamente, al di là di quello che dice la dottrina, le approvazioni che hanno avuto luogo di fatto sono poi veramente solo permissive? Non dobbiamo piuttosto vedervi, considerate attentamente le espressioni usate, interventi ben più impegnativi?
Già Yves Marie-Joseph Congar O.P., nel 1937, vede nei documenti di approvazione del magistero pontificio un elemento ulteriore rispetto alla posizione fissata da Papa Benedetto XIV e da Papa san Pio X, ma non intende superare il livello della fede umana. Si tratterebbe per lui di un atto di fede umana comandato dalla virtù della pietà ecclesiale (35). Karl Rahner S.J., da parte sua, riprende le posizioni di Suárez sulla possibilità di un assenso di fede divina da parte del diretto destinatario di una rivelazione, ma la estende anche a tutti quanti hanno sufficienti motivi per accettare il messaggio come proveniente da Dio (36). È evidente che in questi motivi può pure rientrare un’approvazione particolarmente impegnativa da parte del Magistero.
In questo contesto di ripensamento Carlo Balic O.F.M. (1899-1977) non ha esitato ad avanzare, in occasione del centenario delle apparizioni di Lourdes, l’ipotesi dell’infallibilità, anche se con tutta la prudenza del caso: “[…] omnia non asserendo sed probabiliter opinando dicimus” (37).
Come abbiamo visto, in questa materia gioca un ruolo decisivo la distinzione fra fatto e dottrina. Sulla dottrina non vi è praticamente controversia, perché quanto comunicato da una rivelazione autentica è — per definizione — già contenuto nel deposito della Rivelazione. Il problema è relativo al fatto. Se la Chiesa approva un’apparizione, il fedele, oltre ad accettare la dottrina che l’apparizione comunica, è tenuto anche a credere che il fatto si è veramente prodotto?
Al di là delle espressioni verbali appare molto problematico che il Magistero intervenga con la pienezza della sua autorità in una materia che non fa certamente parte del deposito a lui affidato. Per questo ci si è ricollegati all’oggetto indiretto dell’infallibilità della Chiesa e in particolare ai fatti dogmatici. “Fatto dogmatico” è un termine tecnico della teologia fondamentale per designare gli eventi che hanno un rapporto con la Rivelazione. Vi possono essere fatti — come si è ben visto precedentemente — che rientrano a pieno titolo nel corpo della Rivelazione: si pensi all’evento della Risurrezione. Ma ve ne sono altri che, pur non essendo assolutamente rivelati in modo diretto, sono però tali che la loro negazione comprometterebbe la possibilità stessa della Chiesa di comunicare la Rivelazione. Per esempio, l’ecumenicità di un concilio o la legittimità di un Papa. Nell’adesione a un dogma di fede proposto dalla Chiesa è implicita la certezza che sono legittime le istanze che lo propongono: non si può lasciare tali eventi alla pura congetturalità storiografica. Normalmente si ritiene che tali fatti debbano essere accolti per “fede ecclesiastica”, cioè per quella fiducia che si deve accordare alla Chiesa come evento storico di mediazione della verità salvifica (38).
Queste diverse riflessioni convergono in questa tesi: quando un’apparizione è approvata dalla Chiesa in termini solenni e impegnativi la non accettazione del fatto dell’apparizione — pur senza configurare un’eresia — non può sfuggire alla nota di temerarietà. L’intervento del Magistero non sarebbe più una pura permissione, ma sarebbe impegno positivo a cui dovrebbe corrispondere da parte dei fedeli un “religioso ossequio della volontà e dell’intelletto” (39).
Essendo chiaro che la Chiesa non usa espressioni definitorie a proposito dell’approvazione di rivelazioni private, nel caso di fede divina si deve escludere che si possa parlare di fede divina definita. Si potrebbe però invocare l’infallibilità del Magistero ordinario. Di fatto, si è parlato solo di fede ecclesiastica, mentre dom François Roy O.S.B. ha forgiato un termine ad hoc: “fede ecclesiale” (40).
Anche don René Laurentin — pur non essendo favorevole a maggiorazioni dell’impegno richiesto al fedele in questa materia nel senso di un vero e proprio “obbligo” — vede — nell’ottica della teologia dei fatti dogmatici — un’innegabile equivalenza fra l’approvazione di un’apparizione e la canonizzazione di un santo (41). In quest’ultimo caso il fatto determinato dalla Chiesa è che una persona, per le sue virtù eroiche debitamente accertate, è senza dubbio in cielo; da ciò segue che le si può prestare un culto e che la sua vita può assurgere a modello. La teologia classica ritiene che in questa materia — la canonizzazione dei santi, non la proclamazione dei beati — la Chiesa è infallibile. I canonisti hanno infatti distinto canonizzazione e beatificazione in quest’ottica: nella canonizzazione si precetta un culto, nella beatificazione lo si permette. Di recente questa tesi è stata rimessa in discussione. A ogni modo, infallibile o meno, l’impegno del Magistero in una canonizzazione è molto forte e certamente non riconducibile a una pura permissione.
Personalmente, nonostante il valore degli argomenti e l’autorità dei teologi che sono scesi in campo, non vedo ragioni cogenti per mutare la dottrina comune fissata da Papa Benedetto XIV come teologo privato e autorevolmente ripresa da Papa san Pio X. È troppo importante mantenere con chiarezza l’assoluta centralità della Rivelazione pubblica, la sua natura di fondamento costitutivo e, quindi, la differenza qualitativa che essa intrattiene con le profezie a lei susseguenti nel “tempo della Chiesa” (42).
Rimanendo all’interno dell’analogia con la direzione spirituale personale, credo che appartenga proprio costitutivamente a questo genere di provvidenze divine l’essere rivolte alla libertà dei credenti, a cui l’approvazione della Chiesa aggiunge solo motivi di fiducia e ragioni prudenziali, non obblighi canonici in senso stretto. Il direttore spirituale — in quanto distinto dal confessore — non gode di autorità canonica, ma solo di quella autorità che gli è riconosciuta dal soggetto desideroso di progredire nella santità.
Questo mi pare essere ancora l’orientamento del Magistero: “È un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso” (43).
Così solo il desiderio di camminare seriamente nella vita cristiana e di servire la Chiesa in questo tempo, leggendo con cristiana prudenza i suoi segni, può e deve motivare il cristiano a far suo di cuore il messaggio che viene da Dio per via profetica.
Questa ragione induce anche me a confidare in Maria nel contesto drammatico di una Chiesa che cammina in mezzo a rovine e a persecuzioni — lo scenario della terza parte del segreto — con la serena e gioiosa certezza che, infine, il suo “Cuore Immacolato trionferà”!
Don Pietro Cantoni
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(1) Cfr. gli studi di cui mi sono servito, non più di un abbozzo di bibliografia sul tema: Joseph de Tonquédec S.J. (1868-1962), Apparitions, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. I, Beauchesne, Parigi 1937, coll. 801-809; Éduard Dhanis S.J. (1902-1978), Sguardo su Fatima e bilancio di una discussione, in La Civiltà Cattolica, anno 104, quaderno 2470, Roma 16-5-1953, pp. 392-406; Karl Rahner S.J. (1904-1984), Visioni e profezie. Mistica ed esperienza della trascendenza, con un’importante introduzione di don Gianni Colzani, trad. it. della 2a ed. accresciuta con la collaborazione di Theodor Baumann S.J., Vita e Pensiero, Milano 1995; Laurent Volken M.S., Le Rivelazioni nella Chiesa, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1963; Yves Marie-Joseph Congar O.P. (1904-1995), La credibilità delle rivelazioni private, in Idem, Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, trad. it., Morcelliana, Brescia 1967, pp. 345-361; Bernard Billet O.S.B., Joaquín-María Alonso C.M.F. (1913-1981), don Boris Bobrinskoy, don Marc Oraison (1914-1979) e don René Laurentin, Vraies et fausses apparitions dans l’Église, Lethielleux-Ed. Bellarmin, Parigi-Montréal 1973; Pierre Adnès S.J. (1916-1999), Révélations privées, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XIII, Beauchesne, Parigi 1987, coll. 482-492; Giuseppe Maria Besutti O.S.M. (1919-1994), Facciamo il punto sulle apparizioni mariane. Che cosa sono, e che cosa ne pensa la Chiesa. Un po’di storia delle apparizioni. Che cosa pensarne noi?, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1988; don R. Laurentin, Multiplication des apparitions de la Vierge aujourd’hui. Est-ce elle? Que veut-elle dire?, Librairie Arthème Fayard, Paris 1988; P. Adnès S.J., Rivelazioni private, in René Latourelle S.J. e mons. Salvatore Fisichella (a cura di), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi (Perugia) 1990, pp. 1066-1070; don Pietro Cantoni, Rivelazione, rivelazioni private, nuove rivelazioni: criteri e problemi teologici cattolici per un discernimento, in Massimo Introvigne (a cura di), Le nuove rivelazioni, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1991, pp. 251-273; P. Adnès S.J., Visions, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XVI, Beauchesne, Parigi 1994, coll. 949-1002; mons. S. Fisichella, Le apparizioni e la fede, in Idem, Quando la fede pensa, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1997, pp. 261-276; Actas do Congresso Internacional de Fátima. Fenomenologia e teologia das aparições (9-12 de outubro de 1997), Santuário de Fátima, Fatima 1998; Georg Essen, Privatoffenbarung [Rivelazione privata], in Lexikon für Theologie und Kirche [Lessico teologico-ecclesiastico], vol. 8, Herder, Friburgo in Brisgovia 1999, coll. 603-604; Giandomenico Mucci S.J., Rivelazioni private e apparizioni, Elle Di Ci-La Civiltà Cattolica, Roma-Leumann (Torino) 2000; e Augustinus (Kyung-Ryong) Suh, Le rivelazioni private nella vita della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2000.
(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 67.
(3) Concilio Ecumenico di Trento, Sessione 6ª, del 13-1-1547, Decreto sulla giustificazione, cap. 12, in Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Heinrich Denzinger S.J. (1819-1883) e di don Peter Hünermann, ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1995, n. 1540.
(4) Cfr. card. Charles Journet (1891-1975), L’Église du Verbe Incarné, vol. II, Éditions Saint Augustin, St-Maurice (Svizzera) 1999, pp. 430-433, che parla di “prophéties non hiérarchiques” (p. 430); don G. Colzani, Introduzione a K. Rahner S.J., Visioni e profezie. Mistica ed esperienza della trascendenza, cit., pp. 9-27; e G. Essen, Privatoffenbarung, cit., col. 604.
(5) San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, libro 2, capitolo 27, n. 2, in Idem, Opere, trad. it., Edizioni OCD, Roma 2001, pp. 3-340 (p. 204); la sottolineatura è mia; cfr. l’inserto in spagnolo, in san Juan de la Cruz, Subida del Monte Carmelo, in Idem, Obras completas, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1991, pp. 255-482 (p. 388).
(6) Ibid., libro 2, capitolo 22, n. 3, p. 173.
(7) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione “Dei Verbum”, del 18-11-1965, n. 4.
(8) Ibidem.
(9) Ibid., n. 2: “Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, sia su Dio e sia sulla salvezza dell’uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione [cf. Mt. 11, 27; Gv. 1, 14 e 17; 14, 6; 17, 1-3; 2 Cor. 3, 16 e 4, 6; Ef. 1, 3-14]“.
(10) Pierre Rousselot S.J. (1878-1915), Petite théorie du développement du dogme, in Recherches de Science Religieuse, vol. LIII, n. 3, Parigi luglio-settembre 1965, pp. 356-390 (pp. 364-365).
(11) San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 1, a. 2 ad 2: “Actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem: non enim formamus enuntiabilia nisi ut per ea de rebus cognitionem habeamus, sicut in scientia, ita et in fide”.
(12) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione “Dei Verbum”, cit., n. 2.
(13) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “Novo millennio ineunte” al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, del 6-1-2001, n. 5.
(14) Josep María Dalmau S.J. (1884-1980), De Deo uno et trino, in Patres Societatis Iesu Facultatum Theologicarum in Hispania Professores, Sacræ Theologiæ Summa, vol. II, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1964, pp. 11-438 (p. 170).
(15) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 66.
(16) Michele Federico Sciacca, La libertà e il tempo, Marzorati, Milano 1965, p. 337.
(17) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870), Sessione 3a, del 24-4-1870, Costituzione dogmatica “Dei Filius” sulla fede cattolica, cap. 4, in Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, cit., n. 3020.
(18) San Gregorio Magno, Homilia in Ezechielem, 1, 7, 8: PL 76, 843D, cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 94.
(19) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione “Dei Verbum”, cit., n. 8.
(20) Cfr. l’espressione di san Giovanni Crisostomo (345 ca.-407), in Jean Corbon S.J. (1924-2001), L’ Église des Arabes, Cerf, Parigi 1977, pp. 97 e 231.
(21) Cfr. il mio Rivelazione, rivelazioni private, nuove rivelazioni: Criteri e problemi teologici cattolici per un discernimento, cit.
(22) San Tommaso d’Aquino, op. cit., IIa-IIae, q. 174, a. 6, ad 3; la sottolineatura è mia.
(23) Beato Giovanni XXIII, Radiomessaggio a tutti i fedeli riuniti in Lourdes per la solenne chiusura del primo centenario delle Apparizioni di Maria Immacolata, del 18-2-1959, in Discorsi Messsaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. I, pp. 154-160 (p. 158): “A la suite des Pontifes qui, depuis un siècle, recommandèrent aux catholiques de se rendre attentifs au message de Lourdes, Nous vous pressons d’écouter avec simplicité de coeur et droiture d’esprit les avertissements salutaires — et toujours actuels — de la Mère de Dieu. Que nul ne s’ètonne d’ailleurs d’entendre les Pontifes Romains insister sur cette grande leçon spirituelle transmise par l’enfant de Massabielle. S’ils sont constitués gardiens et interprètes de la Révélation divine, contenue dans la Sainte Écriture et la Tradition, ils se font aussi un devoir de recommander à l’attention des fidèles, — quand après mûr examen ils le jugent opportun pour le bien général, — les lumières surnaturelles qu’il plaît à Dieu de dispenser librement à certaines âmes privilégiées, non pour proposer des doctrines nouvelles, mais pour guider notre conduite: “non ad novam doctrinam fidei depromendam, sed ad humanorum actuum directiones [sic]“”.
(24) Cfr. la metafora della direzione spirituale, in Giovanni Cantoni, Fatima e la Contro-Rivoluzione del secolo XXI, in Cristianità, anno XXVIII, n. 301-302, settembre-dicembre 2000, pp. 3-14 (p. 4).
(25) Card. Joseph Ratzinger, Commento teologico, in Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Messaggio di Fatima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, pp. 32-44 (p. 36).
(26) Ibidem.
(27) San Tommaso d’Aquino, op. cit., Ia-IIae, q. 68, a. 2, i. c.
(28) Ibid., ad 3.
(29) Che l’assistenza al Magistero sia solo negativa, cioè pura preservazione — a determinate condizioni — dall’errore non è affatto evidente ed è cosa discussa fra i teologi. Sembra molto più conveniente che questa assistenza prenda spesso forme positive, distinguendosi sempre essenzialmente dall’ispirazione scritturistica e dall’ispirazione profetica propria alla “profezia di fondazione”, cioè alla Rivelazione pubblica: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap. 2, 7, 11, 17 e 29; 3, 6, 13 e 22).
(30) Cfr. Walter Grundmann, dókimos ktl., in Grande Lessico del Nuovo Testamento, trad. it., vol. II, Paideia, Brescia 1966, coll. 1403-1418.
(31) San Giovanni della Croce, op. cit., libro 2, capitolo 27, n. 6, p. 206.
(32) Benedetto XIV, De servorum Dei beatificatione, et beatorum canonizatione, libro II, cap. 32, n. 11, in Idem, Opera omnia, vol. II, Prato 1839, p. 300: “[…] sciendum, approbationem istam nihil aliud esse, quam permissionem, ut edantur ad Fidelium institutionem et utilitatem post maturum examen: siquidem hisce revelationibus taliter approbatis licet non debeatur nec possit adhiberi assensus Fidei Catholicae, debetur tamen assensus fidei humanae iusta prudentiae regulas, iuxta quas nempe tales revelationes sunt probabiles et pie credibiles”.
(33) San Pio X, Lettera enciclica “Pascendi dominici gregis” sulle dottrine moderniste, 8-9-1907, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV. (1903-1922), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehniane Bologna, Bologna 1998, pp. 206-309 (p. 307), con qualche ritocco alla traduzione.
(34) E. Dhanis S.J., art. cit., pp. 397-398; le sottolineature sono mie.
(35) Cfr. Y. M.-J. Congar O.P., La Crédibilité des révélations privées, in Supplément à la “Vie Spirituelle”, anno 19, n. 217, vol. LIII, Parigi 1°-10-1937, pp. 29-48.
(36) Cfr. K. Rahner S.J., Les révélations privées. Quelques remarques théologiques, in Revue d’Ascetique et de Mystique, anno 30, vol. 25, Bruxelles 1949, pp. 506-514.
(37) “[…] diciamo tutto questo non affermando ma enunciando un’opinione”: cfr. Carolus Balic O.F.M., De auctoritate Ecclesiæ circa apparitiones seu revelationes. Adnotationes ad litt. encycl. “Pascendi” occasione primi centenarii apparitionum Lourdensium, in Divinitas. Pontificiae Academiae Theologicae Romanae Commentarii, anno 2, n. 2, fasc. I, Città del Vaticano marzo 1958, pp. 85-103 (p. 103).
(38) Cfr. l’ipotesi che questi fatti, in quanto virtualmente connessi con la Rivelazione, debbano essere accolti anch’essi con fede divina, in Francisco Marín-Sola O.P. (1873-1932), La Evolución homogénea del Dogma católico, 1923, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1963.
(39) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, del 21-11-1964, n. 25.
(40) François Roy O.S.B., Le fait de Lourdes devant le Magistère, in Pontificia Academia Mariana Internationalis, Maria et Ecclesia. Acta congressus mariologici-mariani in civitate Lourdes anno 1958 celebrati, vol. XII, Apparitiones marianæ earumque momentum in Ecclesia, Pontificia Academia Mariana Internationalis, Roma 1962, pp. 11-
56 (p. 48).
(41) Cfr. don R. Laurentin, Fonction et statut des apparitions, in B. Billet O.S.B., J.-M. Alonso C.M.F., don B. Bobrinskoy, don M. Oraison e Idem, Vraies et fausses apparitions dans l’Église, cit., pp. 153-205 (pp. 184-188).
(42) Riguardo al parallelo con la proclamazione dei santi — al di là dell’innegabile similitudine fra i due procedimenti — permane però una differenza essenziale. Mentre infatti nella canonizzazione, qualora il fatto, cioè la gloria della persona in oggetto, fosse falso, anche solo la permissione della Chiesa aprirebbe le porte alla possibilità che i fedeli rivolgessero le loro preghiere a un dannato; nel caso di un’apparizione la falsità del fatto non comprometterebbe la bontà del messaggio o del culto assolutamente inteso. Il culto infatti porta sempre su persone che sono già oggetto di culto nella Chiesa, a meno che non si tratti della beatificazione o canonizzazione dei veggenti, che è però evidentemente altra cosa e non è affatto implicato nell’approvazione.
(43) Card. J. Ratzinger, doc. cit., p. 35.