Marco Respinti, Cristianità n. 195-196 (1991)
Intervista con il professor Russell Kirk
Il conflitto scoppiato, e poi rapidamente conclusosi, nei primi mesi del 1991 fra le forze armate della coalizione delle Nazioni Unite e l’esercito della Repubblica Democratica Popolare Irakena — a seguito dell’invasione da parte di quest’ultima dell’Emirato del Kuwait — ha coinvolto in prima persona il governo degli Stati Uniti d’America.
Svolgendo di fatto il ruolo di guida della coalizione anti-irakena, gli Stati Uniti si sono posti al centro dell’attenzione mondiale. I mass media e i vertici politici statunitensi hanno quasi unanimemente offerto — soprattutto durante le fasi “calde” del conflitto — un’immagine monolitica e stereotipata del consenso popolare e intellettuale del loro paese di fronte all’intervento armato in Medio Oriente, spesso riducendo al silenzio ogni forma di dissenso interno, quasi aggiornata versione “occidentale” del “divieto di fare domande” che, secondo il politologo tedesco-americano Eric Voegelin, è tipico della struttura ideologica del totalitarismo socialcomunista (cfr. Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., con una Introduzione di Mario Marcolla, Rusconi, Milano 1970, pp. 87-94).
In questo clima di “conformismo del consenso”, imposto dalle esigenze della “ragion di Stato” americana, alcune autorevoli voci della cultura statunitense hanno rotto la cortina del silenzio, senza tuttavia rivolgere critiche all’operato del proprio governo secondo gli schemi ideologici peculiari al progressismo, al pacifismo e a un certo “anti-americanismo” di marca tutta americana, come quello esploso all’epoca della contestazione studentesca in Europa e nei campus universitari nordamericani.
Fra queste voci spicca quella del pensatore conservatore Russell Kirk, già protagonista, nel 1989, di una tournée, organizzata da Alleanza Cattolica in alcune città italiane (cfr. Russell Kirk, Le due anime dell’America, intervista a cura di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XVII, n. 170, giugno 1989, al quale rimando per gli elementi bio-bibliografici).
Durante un breve soggiorno in Italia con la moglie Annette — anch’essa impegnata soprattutto nel campo dell’educazione scolastica —, il professor Russell Kirk ha tenuto, la sera del 5 giugno 1991, nella Sala Nuovo Spazio Guicciardini, a Milano, una conferenza dal titolo Dove vanno gli Stati Uniti? La politica estera nordamericana e il “Nuovo Ordine Mondiale”, organizzata da Alleanza Cattolica.
L’intervento dell’oratore americano è stato preceduto da una mia breve relazione intesa a illustrare le ragioni dell’interesse di Alleanza Cattolica per la politica estera nordamericana, partendo da considerazioni di principio e di metodo circa la virtù della prudenza e il conseguente approccio realistico — quindi non astrattamente ideologico — nonché contemplativo della realtà, che deve animare l’uomo desideroso di comprendere per agire su un piano latamente politico. Tali considerazioni — dopo il crollo dell’elemento statuale in alcuni paesi a regime socialcomunista, che ha lasciato gli Stati Uniti unici eredi del precedente sistema bipolare mondiale, e sulla scorta di quanto accaduto in Medio Oriente dopo la Guerra del Golfo — sono state svolte nel solco degli studi del professor Russell Kirk in tema di “democrazia” e di egemonia mondiale del “modello” politico americano nonché con riferimento alla cultura e al pensiero conservatore statunitense.
Quindi Mario Marcolla, scrittore e studioso del pensiero conservatore statunitense, grazie alla cui collaborazione Alleanza Cattolica ha potuto invitare il professor Russell Kirk a Milano, ha presentato l’oratore, assicurando anche la traduzione simultanea del suo intervento. Egli ha illustrato la biografia intellettuale dell’ospite americano, situandolo fra le personalità di maggior spicco nella cultura statunitense del secondo dopoguerra e ricordandone gli studi filosofici e letterari nonché le differenze che lo separano dai cosiddetti “neo-conservatori” di diversa origine.
Mario Marcolla ha pure segnalato che lo stesso tema che il professor Russell Kirk avrebbe trattato, era già stato da lui affrontato presso The Heritage Foundation di Washington, subito dopo la conclusione della Guerra del Golfo, in un ambiente frequentato anche da molte personalità politiche, fra cui esponenti del Partito Repubblicano — attualmente al governo negli Stati Uniti —, a prova della tempestività, della puntualità e del coraggio intellettuale dell’oratore.
Ha poi preso la parola il professor Russell Kirk, che ha illustrato il possibile scenario mondiale inaugurato da questo nuovo dopoguerra, una stagione forse sempre più avviata verso l’espansione planetaria del dominio americano, che si esercita non solo politicamente, economicamente e militarmente, ma anche attraverso influenze e mode culturali. Il panorama del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, data la difficoltà di inquadrare schematicamente una realtà di per sé sfuggente e mal rispondente a rigidi schemi interpretativi, è stato presentato dall’oratore con una serie di immagini e di suggestioni letterarie, dal momento che appunto la letteratura è parte integrante della sua formazione intellettuale. I contenuti specifici del suo intervento sono stati ripresi nell’intervista che mi ha concesso.
La serata — seguita da un pubblico numeroso — è stata conclusa dal dottor Marco Invernizzi, esponente nazionale di Alleanza Cattolica, che ha richiamato i tratti salienti degli interventi.
Alla manifestazione ha fatto eco l’intervista rilasciata dal pensatore statunitense al giornalista Maurizio Blondet, apparsa in Avvenire, del 9 giugno 1991, con il titolo La sindrome Saddam.
D. Quali sono stati, a suo avviso, i motivi che hanno spinto il governo degli Stati Uniti a entrare tanto sollecitamente in guerra alla testa della coalizione delle Nazioni Unite contro la Repubblica Democratica Popolare Irakena?
R. All’inizio era implicito l’interesse americano per le risorse petrolifere, in un momento in cui l’economia nazionale richiedeva bassi prezzi per questo prodotto: perciò, se necessario, occorreva colpire duramente. Poiché la guerra per un barile di petrolio non pareva popolare, il presidente George Bush si è trasformato in moralista, dichiarando di impegnarsi in una guerra per la redenzione del sangue sparso. La distruzione dell’Irak doveva essere l’inizio di un “benefico” Nuovo Ordine Mondiale.
Tutto questo mi ricorda il rimprovero che il pensatore irlandese Edmund Burke rivolse al governo inglese del primo ministro William Pitt nel 1795, quando sembrava che la Gran Bretagna stesse per entrare in guerra con la Francia a causa dei problemi sorti per la navigazione del fiume Schelda, in Olanda. “Una guerra per la Schelda? Una guerra per un catino?”, esclamava. Ora si potrebbe dire: “Una guerra per il Kuwait? Una guerra per un barile di petrolio?”.
Edmund Burke era favorevole a una dichiarazione di guerra da parte dell’Inghilterra alla Francia che minacciava l’ordine civile con la Rivoluzione; ma si oppose a una guerra eventualmente scatenata per puri scopi commerciali.
Così, oggi, dovrebbero comportarsi gli uomini politici del Partito Repubblicano. Senza dubbio il leader irakeno Saddam Hussein è un uomo ingiusto, ma certo non è l’unico despota nel mondo. Molti paesi dell’Africa sono amministrati da governi ingiusti; al Cremlino siedono ancora dei “duri”; la Cina è tuttora governata da torvi ideologi; e abbiamo forse dimenticato Fidel Castro a Cuba? Ritengo che anche nel mondo politico statunitense vi siano uomini ingiusti. Dovremmo riempire di bombe la maggior parte dell’Asia e dell’Africa per portare questi paesi alla giustizia, alla libertà e alla democrazia?
Edmund Burke, nel secolo scorso, nella prima delle sue Letters on a Regicide Peace, scriveva: “Il sangue dell’uomo non dovrebbe mai essere versato se non per redimere il sangue dell’uomo”. Esso, “è ben versato per la nostra famiglia, per i nostri amici, per il nostro Dio, per il nostro paese, per la nostra gente. Il resto è vanità, il resto è crimine”.
D. Come vede oggi il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente?
R. Si parla molto di ciò che verrà fatto con quanto resta dell’Irak. Il segretario di Stato americano James Baker parla di ricostruire il paese, mentre altri vorrebbero smantellarlo con varie spoliazioni. Prima dello scoppio della Guerra del Golfo, il governo degli Stati Uniti si è servito di corruzione e di promesse per assicurarsi il consenso di alcuni governi criminali della regione. È il caso dell’ex governo comunista dell’Etiopia, utilizzato per rafforzare le misure anti-irakene. Fra l’altro, la collaborazione dell’Unione Sovietica, vecchio sostegno del governo etiopico, è stata ottenuta con la prospettiva di massicci aiuti economici. Il governo egiziano ha aderito alla coalizione anti-irakena dopo che il suo debito estero di diversi miliardi di dollari è stato condonato, mentre l’adesione del governo della Siria è stata guadagnata ignorando l’occupazione del Libano e il conseguente massacro dell’esercito regolare libanese guidato dal generale Michel Aoun.
Quanto è iniziato con la determinazione di restaurare il legittimo — anche se alquanto arbitrario — governo del Kuwait può sfociare nel rovesciamento di diversi governi legittimi nel Medio Oriente.
Gli Stati Uniti non hanno dovuto sostenere un lungo conflitto nei deserti dell’Irak e del Kuwait; ma certo dobbiamo attenderci un lungo periodo di diffusa ostilità nei confronti dei cittadini americani, in particolare da parte dei popoli di certi Stati che l’America ha corrotto oppure che ha costretto a unirsi alla coalizione. Le masse dei paesi musulmani considerano gli Stati Uniti come un avversario arrogante, mentre l’Unione Sovietica, in virtù dei suoi sforzi per mediare il contenzioso nelle ultime fasi, può nuovamente atteggiarsi a unica amica di tali paesi.
D. Sono state esercitate pressioni sul governo degli Stati Uniti per indurlo a un atteggiamento favorevole all’intervento armato in Irak?
R. Credo che la politica del presidente George Bush sia uno strumento di un progetto più ampio, che forse lo stesso presidente non ha ben chiaro. Per quanto riguarda la guerra, vi è da rilevare che in America, all’inizio del conflitto, gran parte della comunità costituita dai cittadini di origine ebraica era entusiasta di una soluzione che avrebbe ridimensionato o eliminato la minaccia costituita dall’Irak di Saddam Hussein. Certo vi sono state pressioni da parte della lobby ebraica sulla gestione americana della situazione…
D. Cosa pensa in questi frangenti del presidente George Bush, Lei che era ed è amico dell’ex presidente Ronald Reagan?
R. Senza dubbio George Bush è animato da buoni sentimenti: è un uomo d’ordine, diligente, rispettoso, onesto, amante della famiglia, ma manca d’”immaginazione” e di capacità di visione prospettica e spesso appare molto “possibilista”; e il potere intossica: come diceva lord John Emerich Dalberg Acton — lo storico britannico, capo del gruppo inglese dei cattolici romani liberali —, il potere tende a corrompere. L’amore per il potere finisce per intaccare tanto le parole quanto le azioni: può trasformare un’impresa seria in una vendetta personale, ammantandola di toni cavallereschi. Durante la campagna elettorale per la presidenza, nel 1988, George Bush veniva spesso definito un indeciso: ora ha mostrato cosa sa fare…
Del resto, i media tendono sempre a offrire un’immagine parziale della realtà. Per esempio, il presidente ha tenuto un ottimo discorso all’Università del Michigan, nella cittadina di Ann Arbor, contro l’ideologia della cosiddetta political correctness, una pretesa “correttezza politica”, una nuova forma di progressismo che in America pretenderebbe il positivo riconoscimento sociale dei gruppi cosiddetti “marginali” — come gli omosessuali o le femministe — e che punta all’atomizzazione della società nonché alla distruzione dell’identità nazionale, scagliandosi contro quanti vi si oppongono. Purtroppo il discorso è stato tenuto il 4 maggio 1991 e nel pomeriggio dello stesso giorno il presidente ha avuto un malore. Così i giornali di tutto il mondo hanno parlato della salute del presidente ignorando quell’importante intervento pubblico.
Sul tema della guerra nel Golfo Persico, l’ex presidente Ronald Reagan — un uomo indubbiamente attaccato a certi valori “tradizionali” — è stato uno dei pochissimi a mantenere un eloquente silenzio in mezzo a tanta euforia…
D. Come è stato vissuto il successo militare delle armi americane dalla gente comune?
R. All’inizio vi è stato grande entusiasmo per la guerra; ora qualcosa sta cambiando. Certo le vittime americane sono state poche: ma ora la gente ha potuto finalmente vedere lo scempio compiuto in Irak e le pesantissime perdite inflitte al nemico. Ci si sta rendendo conto che, per schiacciare una persona certamente ingiusta come Saddam Hussein, si è usata una forza eccessiva. L’opinione pubblica americana ha saputo tutto questo dopo la conclusione del conflitto, perché una sorta di censura — attuata inizialmente con lo scopo di evitare il ripetersi delle campagne denigratorie orchestrate sulla stampa durante la guerra del Vietnam, dunque con intenti positivi — ha finito per soffocare ogni pur legittimo dibattito interno.
Comunque, negli Stati Uniti ci si è visti costretti ad anticipare i festeggiamenti per la vittoria nel Golfo Persico ai giorni fra l’8 e il 10 giugno; non si è potuto aspettare — come si voleva in un primo tempo — la data del 4 luglio, in coincidenza con la festa dell’indipendenza nazionale, perché l’entusiasmo sta scemando vistosamente…
D. Si parla molto di Nuovo Ordine Mondiale e l’azione del governo americano sembra orientata verso la costruzione di un ordine politico sovranazionale a guida unica. Lei ha affrontato questo tema nella sua patria e anche in Italia, in occasione della conferenza organizzata da Alleanza Cattolica a Milano, il 5 giugno 1991. Cosa pensa del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale?
R. L’espressione “Nuovo Ordine Mondiale” risale alla prima guerra mondiale. Il contenuto dell’espressione, per quel che riguarda l’attualità, sembra essere la spinta verso un’”americanizzazione” forzata dell’intero pianeta, voluta — si dice — per portare la democrazia a popoli e in luoghi che non l’hanno mai conosciuta, almeno nell’accezione odierna. Una sorta di “dispotismo democratico”, insomma. In quest’ottica gli Stati Uniti sembrano diventare i propagatori di un’ideologia radicale che vuole cambiare il mondo piuttosto che i difensori di un pensiero di natura conservatrice. Questa nuova ideologia avanza di pari passo con la massiccia industrializzazione e con la distruzione di tutto quanto essa trova sul proprio cammino. Ricordiamoci che il Partito Democratico americano è sempre stato il propugnatore della “democrazia astratta” e dell’interventismo americano nel mondo. Un esempio classico è quello costituito dal presidente Lyndon Johnson e dall’intervento militare americano in Vietnam. Il Partito Repubblicano, invece, ha sempre cercato di stare il più possibile al di fuori degli affari interni di altri paesi. Ora sembra che il presidente George Bush, pur provenendo dal Partito Repubblicano, si stia comportando come Lyndon Johnson, Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, tutti democratici di spicco. Ma già nel 1940 i Repubblicani presentarono alle elezioni presidenziali un candidato “mondialista”, Wendell L. Willkie, e furono sonoramente battuti. Generalmente, in questo secolo, essi sono stati i rappresentanti della moderazione, della prudenza e anche della parsimonia nella conduzione della politica estera. A meno di improvvisi capovolgimenti, l’amministrazione guidata da George Bush sta perdendo la sua precedente reputazione di morigeratezza, appunto tipicamente “repubblicana”, per abbandonarsi a spese sconsiderate secondo lo slogan “Burro e cannoni”. L’amministrazione Bush aveva belle prospettive per ridurre le spese governative, contenendo il deficit federale e forse anche eventualmente riducendo le forze armate in rapporto alla diminuzione della minaccia sovietica, e anche per ridurre il debito nazionale. Invece ci si è gettati in una guerra che è costata un miliardo di dollari al giorno…
Intanto pare che la resistenza della popolazione ad atti di politica estera avventati sia molto diminuita. Una volta erano le città della costa orientale le più interventiste, mentre nel Middle West vi era maggior prudenza. Ora questa situazione sembra radicalmente mutata: tale suddivisione è molto meno definita.
In questo secolo sono scomparsi tutti gli imperi, sia quelli sovranazionali che quelli coloniali. Anche l’”impero” sovietico — grazie a Dio — si sta disgregando. Rimane però l’”impero” americano, una realtà ancora in crescita che si espande con l’acquisizione di Stati-clienti. Sebbene non se ne parli mai, esso si è realizzato grazie a una specie di eccesso di distrazione da parte delle altre nazioni; con l’indebolimento dell’Unione Sovietica, nessun potente contrappeso sembra essere rimasto a bilanciare l’egemonia americana nel mondo.
D. Ha menzionato l’intervento militare americano in Vietnam alla fine degli anni Sessanta e durante gli anni Settanta, come esempio di politica “mondialista” incipiente: si trattava comunque di una buona causa, mirante a fermare e a sconfiggere la Rivoluzione socialcomunista in Indocina…
R. Certo, ma rispetto a un diretto coinvolgimento americano, che porta con sé il progetto di “americanizzazione”, credo sia molto meglio la cosiddetta “dottrina Nixon”, cioè il sostegno economico e militare alle Resistenze anticomuniste senza intervento diretto. Uno dei più gravi errori della nostra politica estera fu quello di far intervenire le forze armate degli Stati Uniti in Vietnam, anche se il presidente del Vietnam del Sud, Ngô Dinh Diem, non lo voleva.
D. Ritiene che nel Nuovo Ordine Mondiale à la George Bush vi sia posto per l’ideologia e il sistema socialcomunista “ristrutturati”?
R. Da quel che appare finora, credo che il presidente americano — la cui politica ho detto essere forse solo uno “strumento” — miri alla supremazia statunitense attraverso la diffusione la più estesa possibile dell’american way of life, e che in questo quadro il Cremlino figuri solamente come un nemico sconfitto e subito dimenticato.
D. Ha definito la cosiddetta “americanizzazione” un’ideologia imperialistica americana. Ma la filosofia politica tradizionale dell’America, quella espressa anche dal Conservative Movement, ha una matrice diversa: qual’è la radice culturale di tale “ideologia americana”?
R. Essa ha origine nel pensiero del filosofo e pedagogista statunitense John Dewey, all’inizio del Novecento. Negli anni Trenta i pedagogisti della sua scuola avevano già trionfato nei settori dell’educazione pubblica americana. I seguaci di John Dewey erano sistematicamente ostili alla dottrina cristiana e tentavano di separare l’ordine politico da quello religioso. “Democrazia” fu un termine esaltato dalla scuola di John Dewey e inteso come uguaglianza di condizione: una piattaforma sociale e intellettuale assai vicina al “dispotismo democratico” denunciato negli scritti dello storico e uomo politico francese del secolo scorso Alexis de Tocqueville. I pragmatisti deweyani disprezzavano il passato e guardavano a una democrazia universalistica e utilitaristica. Avevano costruito un sistema di umanesimo secolarizzato.
D. Dunque, il sistema deweyano origina una sorta di “pragmatismo ideologico”, ben diverso dal realismo tipico della politica americana, che pure spesso viene definito con il termine “pragmatismo”… In molti studi recenti, Lei ha affrontato il delicato tema della democrazia, un tema tornato di grande attualità dopo la Guerra del Golfo, anche secondo quanto ha detto in merito all’”americanizzazione” del pianeta. Può riassumere schematicamente il suo pensiero in proposito?
R. Le dottrine di John Dewey hanno introdotto in America un linguaggio nuovo. Si è iniziato a intendere la democrazia come qualcosa di automaticamente buono, virtualmente senza errore, e dunque a giudicare le altre forme di governo, passate o presenti, come cattive. Apparve così una concezione monolitica della democrazia, che negava ogni distinzione fra i diversi modi possibili di intendere tale concetto. In questo senso sono sintomatiche parole del presidente americano Woodrow Wilson nel 1917, durante il primo conflitto mondiale, incitanti a “salvare il mondo per la democrazia”, così fornendo del termine una chiave di lettura prettamente ideologica.
Lo slogan del filosofo utilitarista inglese Jeremy Bentham, “un uomo, un voto”, trionfò alla Corte Suprema degli Stati Uniti durante il mandato come presidente del giudice Earl Warren, dal 1953 al 1969. Già l’insegnamento pubblico, imbevuto delle tesi della pedagogia deweyana, aveva preparato il terreno per la propaganda della “democrazia assoluta” propugnata dai giudici supremi statunitensi. L’interferenza della Corte Suprema nel campo dei diritti legislativi federali e statali aveva già danneggiato, in pratica, l’esercizio di una corretta democrazia rappresentativa. Si preferì, quindi, un’astrazione ideologica a una prassi politica desunta dal concreto vissuto.
Tutte le ideologie, compresa quella democratica, portano i loro seguaci all’intolleranza. Questo accade perché ideologia comporta fanatismo e irrealismo; l’ideologia democratica, lungi dal preservare le nostre libertà, indebolisce la struttura costituzionale americana e, per il futuro, arrecherà danno alla causa della libertà ordinata. Infatti, il democratismo indebolisce la democrazia statunitense, subordinandola praticamente al sentimento; in altre occasioni, poi, lo stesso democratismo spinge l’America a decisioni avventate in politica estera e addirittura la porta a guerre condotte su larga scala. La democrazia, intesa come astrazione ideologica, non può sostituirsi con esito soddisfacente all’autorità di Dio. La mentalità moderna è caduta nell’eresia della democrazia, ossia nel rovinoso errore secondo il quale vox populi, vox Dei, sulla cui base il popolo diventa “divino” per assioma e le verità relative al mondo e alla politica vengono estratte dalle urne elettorali.
Il grande poeta anglo-americano Thomas Stearns Eliot ne L’idea di una società cristiana, del 1939, scrive: “[…] il termine “democrazia” non ha un contenuto positivo sufficiente per opporsi, solo, alle forze che avversiamo e che possono snaturarlo troppo facilmente. Chi non desidera Dio (ed è un Dio geloso) non ha che da inchinarsi davanti ad Hitler o a Stalin” [trad. it., Comunità, Milano 1983, p. 71].
Il prevalere dei costumi cristiani in terra d’America è stata la ragione del successo della politica della “democrazia territoriale” — secondo l’espressione del pensatore conservatore americano del secolo scorso Orestes Brownson, un pensatore che finì per convertirsi al cattolicesimo dopo aver aderito a numerose denominazioni protestanti — come riconobbe Alexis de Tocqueville circa un secolo e mezzo fa. Oggi, solo il rafforzamento di questi fondamenti religiosi può rinnovare la Repubblica federale americana.
In generale, la forma di governo più indicata per un popolo dipende necessariamente dalla storia, dal costume, dalla fede, dalla condizione della cultura, dalla legislazione precedente e dalle circostanze materiali di quel singolo popolo; e queste variano da territorio a territorio, da epoca a epoca. Per esempio, la monarchia può difendere l’ordine nel più alto grado, nonché la giustizia e la libertà della gente; l’aristocrazia, in altre circostanze, può risultare più vantaggiosa per il benessere generale… Il modello politico statunitense, certo, non potrebbe tradursi come tale in Uganda o in Indonesia. Come afferma lo storico contemporaneo Daniel J. Boorstin, la Costituzione degli Stati Uniti non è fatta per l’esportazione, né la semplicistica formula “un uomo, un voto” guarisce i mali che l’uomo eredita nascendo. Noi soffriamo di fronte all’ipotesi che la democrazia debba essere concepita o ricostruita a immagine e somiglianza dei più recenti modelli forniti dalla democrazia americana. Ma la democrazia non è una filosofia politica, né un piano di organizzazione politica. È piuttosto una condizione sociale che può avere conseguenze politiche.
D. Dunque, ci troviamo di fronte a una situazione irrimediabilmente compromessa o sussiste ancora qualche alternativa che permetta di abbandonare questo pericoloso e irrazionale dogmatismo ideologico?
R. Come la filosofia politica riceve il suo crisma dall’etica e l’etica dalla verità della religione, così solo tornando alla fonte eterna della verità possiamo sperare in un’effettiva organizzazione sociale che non ignori nella sua definitiva costituzione alcun aspetto essenziale della realtà. La parola democrazia è ovunque usata e venerata, ma per esempio all’Est non si è realizzato in più di settant’anni l’obiettivo della fratellanza fra gli uomini e della federazione delle nazioni del mondo… In America dovremmo ritornare all’intuizione di Thomas Stearns Eliot, che ho citato. Dobbiamo ricordarci che la politica non è altro che l’arte del possibile e che essa non è la fonte della salvezza eterna. La politica del democratismo, come tutte le ideologie, è una pseudo-religione che immanentizza i simboli della trascendenza, per dirla con il politologo Eric Voegelin. La terapia contro l’ideologia è il recupero della comprensione religiosa della condizione umana: non dobbiamo dunque adorare un’astrazione chiamata democrazia. Essa può essere utile pragmaticamente, ma non rappresenta un ideale morale. Le forme politiche democratiche sono un mezzo per conseguire un tollerabile ordine civile e sociale: ma queste forme non sono le uniche che abilitano l’essere umano a convivere pacificamente con gli altri. Gli obiettivi di una comunità umana accettabile sono l’ordine, la giustizia e la libertà; la democrazia di per sé non è lo scopo dell’umana esistenza, ma piuttosto un mezzo possibile per il raggiungimento di questi tre obiettivi reali. Può derivare grande danno dalla confusione dei mezzi con il fine.
Per questo guardo con scetticismo coloro che mi presentano il culto del grande “dio” Demos, dimenticando che l’uomo è una creatura. Si dia a Cesare ciò che è di Cesare; unicuique suum, dicevano gli antichi romani. Attraverso la legge romana la dottrina della giustizia che garantisce le differenze e che implica la responsabilità verso gli altri e la libertà personale, sintetizzata da tale motto, passò alle genti europee e da esse agli Stati Uniti.
D. I recenti avvenimenti bellici in Medio Oriente hanno avuto come riflesso un notevole rimescolamento dei ruoli e degli schieramenti politici e culturali americani. Può fornirmi un quadro sintetico della situazione attuale?
R. Viviamo in un’epoca piuttosto confusa; i sistemi educativi necessitano di ampie revisioni, dopo essere stati lasciati in balìa di quanti, negli anni Sessanta e Settanta, si definivano “democratici” e che hanno introdotto princìpi educativi folli. Questo clima di grande permissivismo interessa pure l’ambito teologico, dove sia fra i cattolici che fra i protestanti si stanno verificando fenomeni di decadenza speculativa. La citata ideologia della political correctness, poi, favorisce la disgregazione culturale. Alcuni gruppi attenti alla cultura multirazziale e cosiddetta “minoritaria” vorrebbero sovvertire l’identità culturale nazionale. Nelle fondazioni e nelle università sono ancora fortemente arroccati i liberal. Fra i conservatori la vicenda della guerra contro l’Irak ha portato scompiglio. A parte i sostenitori coscienti dell’”americanizzazione”, molti autentici conservatori patrioti forse non hanno ben colto la portata degli avvenimenti in corso, determinando forti lacerazioni nell’ambito del movimento di pensiero conservatore. Vi sono pensatori conservatori amici miei sia fra gli oppositori della guerra che fra i suoi sostenitori.
D. Un’ultima domanda sulla cultura statunitense. In Italia le forze “di sinistra”, o comunque quelle laiche, stanno trasformando le celebrazioni per il quinto centenario della scoperta dell’America, previste per il 1992, in un’occasione straordinaria per demolire la lunga e difficile opera di evangelizzazione del Nuovo Continente: succede qualcosa di simile anche nel suo paese?
R. Sì. L’attacco principale viene portato proprio sul piano culturale, per minare le radici della nazione. Attraverso il tentativo di abbandonare il retaggio classico e cristiano su cui si fonda la nostra autentica cultura, a favore magari di nuove esperienze culturali, che pongono l’accento sull’identità latinoamericana o africana, si cerca di frammentare l’identità americana. Già diversi gruppi lavorano attivamente in questo senso. Molto spesso in questa lotta, cui il 1992 offre semplicemente un’occasione concreta, i fautori della political correctness e i gruppi favorevoli a discutibili soluzioni multiculturali si fiancheggiano.
a cura di Marco Respinti