ERMANNO PAVESI, Cristianità n. 187-188 (1990)
Nella notte fra sabato 1° settembre 1990 e domenica 2, a Prato allo Stelvio, in provincia di Bolzano, tre ragazzi si sono uccisi insieme convogliando i gas di scarico nell’abitacolo dell’auto e hanno lasciato come lettera d’addio un biglietto con scritto “Questa vita non ha prospettive”(1). Il tragico episodio ha avuto vasta eco — per lo più sensazionalistica — sulla stampa, che ha cercato di esaminarne le ragioni. Nelle settimane seguenti la stessa stampa segnalava quasi quotidianamente suicidi praticati con la medesima tecnica, e si è parlato ben presto di un’epidemia. Voci critiche hanno denunciato il pericolo che proprio un’eccessiva pubblicità data al fenomeno potesse influenzarne negativamente l’andamento e hanno invitato i mezzi di comunicazione a una certa prudenza nel fornire notizie di questo tipo. D’altra parte non sono mancati giornalisti che hanno sostenuto la tesi secondo cui la decisione di togliersi la vita non potrebbe essere influenzata da notizie di stampa.
Il problema non è semplice. A volte certe circostanze possono dare un’immagine distorta di un fenomeno e creare “artefatti”. Per esempio, secondo le statistiche ufficiali in Italia si verificano circa 3.800 suicidi all’anno, quindi con una media di circa 10 suicidi al giorno (2): solo di una piccola percentuale viene data notizia dai mass media nazionali, che ne trattano unicamente quando protagonisti del tragico episodio sono persone di qualche notorietà, di alcuni altri si fa talora cenno sui mass media locali e per lo più in forma molto laconica.
Dopo l’episodio di Prato allo Stelvio i suicidi effettuati con gas di scappamento hanno incominciato a fare notizia. Le domande che ci si possono porre sono diverse: si è avuta l’impressione di avere a che fare con un’epidemia solo perché una parte dei suicidi che normalmente non vengono riportati dai giornali hanno “fatto notizia”, cioè la stampa avrebbe solo documentato un fenomeno senza peraltro influenzarlo? Anche senza disporre di dati definitivi sembra possibile poter affermare che vi è stato senz’altro un aumento dei suicidi con i gas di scarico (3). Ci si può chiedere poi se questo aumento sia avvenuto a scapito dei suicidi con altre tecniche o corrisponda piuttosto a un aumento reale, in altre parole se persone che si sarebbero comunque uccise hanno scelto di farlo proprio con i gas di scappamento, influenzate dalle notizie pubblicate sui giornali, oppure se queste ultime hanno spinto al suicidio persone che altrimenti non avrebbero commesso un tale atto. Non è possibile affrontare in questa occasione in modo esauriente il problema della psicologia e della psicopatologia del suicidio, cioè della condizione psichica — nei suoi aspetti normali e patologici — della persona che ha deciso di togliersi la vita (4), ma si deve tener conto che nella maggioranza dei casi tale decisione viene presa solo nel corso di un processo, spesso molto travagliato, in cui possono essere distinte alcune fasi. Nella prima fase la persona inizia a prendere in considerazione il suicidio come soluzione dei propri problemi; nella seconda fase, definita dell’ambivalenza, vi è già un’intenzione suicida, ma che non è ancora definitiva e la persona oscilla tra idee di suicidio e volontà di sopravvivere; soltanto in una terza fase si arriva alla decisione e all’attuazione, ma si deve tener presente che un ripensamento è possibile fino all’ultimo. Se è difficile immaginare che una persona si tolga la vita unicamente per aver letto la storia di un suicidio, chi ha già preso in considerazione il suicidio viene influenzato in questo processo in misura maggiore o minore da fattori esterni. Tenendo conto che il numero dei suicidi non è costante, ma varia annualmente e oscilla nel corso dell’anno, solo disponendo dei dati statistici riguardanti tutto l’anno e con il confronto con i dati degli anni passati potrà essere possibile constatare o meno un incremento non usuale dei suicidi a partire dai primi di settembre. Si deve tener conto però che l’incremento può essere accertato statisticamente solo se presenta una certa dimensione: una variazione di 50 suicidi, ad esempio, corrisponderebbe a meno dell’1% della cifra annuale e sarebbe quindi difficilmente identificabile, ma se si verifica nell’arco di un mese corrisponde a circa il 16% della cifra mensile.
Il problema dell’influenza sul suicidio della letteratura e dei mezzi di comunicazione non è nuovo, ma si è ripresentato numerose volte nel corso della storia. Uno dei precedenti più famosi è costituito dall’epidemia di suicidi verificatasi in Germania in seguito alla pubblicazione — nel 1774 — del romanzo Die Leiden des jungen Werther, “I dolori del giovane Werther”, di Johann Wolfgang Goethe: il fenomeno raggiunse dimensioni tali da indurre i governi di alcuni paesi a proibire la diffusione del libro. Studiosi moderni del suicidio hanno chiamato “effetto Werther” l’influenza esercitata dai mass media sui comportamenti suicidi. Un effetto analogo lo si osservò in Italia dopo la pubblicazione — nel 1802 — del romanzo di Ugo Foscolo Le ultime lettere di Jacopo Ortis (5).
L’effetto Werther presuppone che l’imitazione e la suggestionabilità possano avere un ruolo importante nella dinamica del suicidio. L’importanza del fattore “imitazione” venne però messo in discussione dal sociologo francese Émile Durkheim nella sua opera sul suicidio scritta alla fine del secolo scorso. Le sue tesi hanno avuto un largo seguito e vengono riportate anche in studi recenti, benché spesso in modo acritico. Infatti Émile Durkheim non nega che l’imitazione possa influenzare un certo numero di suicidi, ma come sociologo era interessato soprattutto al suicidio in quanto fenomeno sociale, quindi in pratica solo a quei fattori capaci di modificare il tasso annuo dei suicidi in uno Stato: “Taluni autori, attribuendo all’imitazione un potere che non ha, hanno chiesto che venisse vietata ai giornali la cronaca dei suicidi e dei delitti. È possibile che questo divieto riesca ad alleggerire di qualche unità l’ammontare annuo di questi atti. Ma è alquanto dubbio che esso possa modificarne il tasso sociale” (6). Questa affermazione del sociologo francese dovrebbe essere sottoposta a un’analisi accurata; mi limito a una sola considerazione: certamente è opportuno che la prevenzione dei suicidi dia la precedenza ai fattori più importanti, che incidono maggiormente sulle statistiche, però non si deve dimenticare il valore incommensurabile di ogni singola esistenza umana, per cui non bisogna neppure disdegnare provvedimenti capaci di “alleggerire di qualche unità l’ammontare annuo di questi atti”. Gli autori che si richiamano all’opera di Émile Durkheim per negare l’importanza dell’imitazione non tengono poi conto dei cambiamenti intervenuti negli ultimi novant’anni, cioè del fatto che, per esempio, l’importanza dei mass media è cresciuta considerevolmente e che le trasformazioni sociali lasciano l’individuo maggiormente in balia di influenze esterne.
Il tema dell’effetto Werther è stato ripreso a partire dalla fine degli anni Sessanta, soprattutto negli Stati Uniti. Lo psichiatra americano Jerome A. Motto ha cercato di conciliare le tesi di Émile Durkheim con il dato certo dell’incremento del 40% dei suicidi a Los Angeles nel mese successivo al suicidio dell’attrice Marilyn Monroe. Il fatto che dopo il suicidio dello scrittore Ernst Hemingway non si fosse osservato un analogo incremento dei suicidi portava Jerome A. Motto a sottolineare l’importanza, oltre alla notizia del suicidio in sé e al modo in cui è stata presentata, dell’identificazione con il suicida. Egli riteneva pure che l’imitazione potesse essere sì un fattore importante, ma non unico, che potesse attivare dinamiche già presenti in persone che si possano identificare con chi ha commesso il suici- dio (7).
Nel 1974 David P. Phillips (8) ha confrontato il numero di suicidi negli Stati Uniti nel mese successivo al suicidio di una personalità — il criterio era la pubblicazione della notizia sulla prima pagina di The New York Times — con il numero di suicidi che ci si sarebbe dovuto attendere per quel mese, tenendo conto per quanto possibile di tutte le variabili. Fra il 1948 e il 1967 erano stati pubblicati 34 casi di suicidio rispondenti ai criteri suddetti: in 26 casi il numero dei suicidi era stato superiore a quello che ci si sarebbe dovuto attendere. Per escludere la possibilità che l’incremento dei suicidi fosse dovuto più alla scomparsa di una celebrità che alla notizia del suicidio, David P. Phillips esaminò con lo stesso metodo l’andamento dei suicidi dopo i decessi degli 8 presidenti degli Stati Uniti avvenuti fra il 1900 e il 1968: l’aumento non era statisticamente significativo, anche dopo l’uccisione di una personalità così popolare come John Fitzgerald Kennedy vi fu solo un lieve incremento dei suicidi.
Secondo David P. Phillips interverrebbero due fattori: in parte sarebbe stata la notizia letta sui giornali a far anticipare l’attuazione di un proposito, che sarebbe comunque stato messo in atto, in parte però si sarebbe trattato di un incremento reale. Questa interpretazione avrebbe anche conseguenze per la prevenzione: se vi sono situazioni a rischio — come solitudine, alcolismo e tossicodipendenza —, queste non portano necessariamente al suicidio. Gruppi e associazioni particolari sarebbero in grado di aiutare a ritrovare il senso dell’esistenza e a uscire dall’isolamento, svolgendo quindi un’efficace azione preventiva. Mentre la diffusione di associazioni che si interessano di gruppi a rischio avrebbe ridotto il numero dei suicidi, questi verrebbero invece incrementati dalla pubblicità data al suicidio, soprattutto a quello di persone famose. David P. Phillips ritiene quindi che “il tipo di pubblicità dato al suicidio o alle possibilità alternative può influenzare il tasso dei suicidi” (9) e nota che “studi sulla suggestione indicano che un modello è più facile da essere imitato, se le sue caratteristiche sono simili a quelle di chi imita” (10).
Successivamente David P. Phillips ha riscontrato anche un incremento di incidenti mortali d’auto (11) e d’aereo (12) dopo la pubblicazione di notizie di suicidi.
In anni più recenti questi studi sono stati estesi alle trasmissioni televisive. Esaminando gli effetti di trasmissioni televisive sul suicidio e su altre forme violente di comportamento, nel 1982 David P. Phillips ha riscontrato un aumento dei suicidi di bianchi dopo trasmissioni di film televisivi con scene di un suicidio (13); in questi film si trattava sempre del suicidio di un personaggio bianco. Contemporaneamente si era registrato un incremento di incidenti d’auto mortali maggiore per quelli in cui il conducente viaggiava da solo, rispetto a quelli in cui il conducente era accompagnato da uno o più passeggeri. Queste tesi non restarono indiscusse; Ronald C. Kessler e Horst Stipp hanno messo in dubbio le interpretazioni di David P. Phillips e soprattutto l’importanza dell’imitazione basandosi principalmente su due argomenti: 1. non vi sarebbe stato un rapporto tra numero di suicidi e indice d’ascolto; 2. l’incremento di suicidi sarebbe stato registrato prevalentemente dopo telefilm con scene di suicidi di personaggi non giovani (14). Queste critiche semplificano indebitamente il problema, riprendendo peraltro anche alcune semplificazioni operate da altri autori per dimostrare l’effetto Werther. Il ruolo dell’imitazione non può essere ridotto a un fatto statistico-demografico, come se dopo una trasmissione con la scena di un suicidio potesse essere possibile calcolare l’incremento di suicidi nella varie fasce d’età solo in base all’età del protagonista e all’indice d’ascolto, senza tener conto di fattori, peraltro difficilmente quantificabili, come il modo in cui il suicidio è stato presentato, l’intensità del coinvolgimento degli spettatori nell’azione e dell’identificazione con il personaggio suicida; vi possono essere casi in cui l’identificazione dipende più dal ruolo di un determinato personaggio che non dalla sua età. Dopo aver analizzato i dati relativi a tre periodi di quattro anni dal 1973 al 1984, anche questi autori hanno riconosciuto un aumento dei suicidi almeno per il periodo dal 1973 al 1980, ma ritenevano di riscontrare un’inversione di tendenza per il periodo dal 1981 al 1984. Gli autori hanno spiegato questo mutamento con un preteso cambiamento nelle nuove generazioni, che sarebbero “più realistiche e con un atteggiamento più disincantato nei confronti del suicidio” (15).
Tale giudizio sembra però un po’ troppo ottimistico se si tiene conto che nelle due settimane dopo cinque trasmissioni televisive che dovevano sensibilizzare giovani adolescenti al problema del suicidio nella regione di New York vi fu un aumento considerevole di suicidi e di tentativi di suicidio rispetto alle due settimane precedenti (16). Questi dati sono stati confermati da altri autori, mentre David P. Phillips e Daniel J. Paight non hanno potuto riscontrare lo stesso fenomeno in California e in Pennsylvania dopo la trasmissione di tre dei film in questione (17).
Armin Schmidtke e Heinz Häfner (18) hanno studiato questo fenomeno in Germania. Nel 1981 e nel 1982 è stata trasmessa dalla seconda rete della televisione tedesca uno sceneggiato in sei puntate intitolato Tod eines Schülers, “Morte di uno studente”. La storia — non realmente accaduta — del suicidio, apparentemente inspiegabile, di uno studente diciannovenne gettatosi sotto un treno viene esaminata in ogni puntata in rapporto a una problematica diversa: dietro un’apparente normalità compaiono gravi problemi nei rapporti con i genitori, con gli insegnanti, con gli amici, con la ragazza, e così via. Armin Schmidtke e Heinz Häfner hanno dimostrato che il numero di suicidi di persone che si erano gettate sotto il treno era aumentato nel periodo di settanta giorni durante e immediatamente successivo alla trasmissione del 1981. L’aumento era più elevato per i ragazzi in età fra i quindici e i diciannove anni, cioè +175%, mentre per le ragazze dello stesso gruppo d’età l’aumento era lievemente inferiore, cioè +167%. Donne al di sopra dei 30 anni e uomini al di sopra dei 40 anni non presentarono un aumento significativo di questo tipo di suicidio. In occasione della trasmissione del 1982 l’incremento dei suicidi fu minore, ma proporzionale alla diminuzione dell’indice di ascolto fra gli spettatori in età fra i 15 e i 29 anni. Dopo aver preso in considerazione diverse ipotesi gli autori sono giunti alla conclusione che si era trattato di un aumento reale dei suicidi, dichiarandosi convinti che “si è riusciti per la prima volta a dimostrare l’esattezza di un’ipotesi avanzata da lungo tempo, che l’impulso a commettere azioni suicide può essere appreso da modelli fittizi” (19).
Gli studi citati e le considerazioni svolte possono aiutare a comprendere meglio la possibile influenza dei mezzi di comunicazione sul suicidio. Senza voler relativizzare la libertà dell’uomo non si deve neppure assolutizzarne l’autonomia, ma si deve tener conto che quando l’uomo prende una decisione lo fa anche in base a valori e a informazioni che gli sono mediate dall’ambiente per molte vie, dall’educazione alle mode culturali e, non ultimi, dai mass media.
Per questi motivi un esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo aver ricordato il ruolo importante dei mass media nel “provocare o incoraggiare un comportamento suicida”, raccomanda “nell’interesse della prevenzione dei suicidi che i mezzi di comunicazione esercitino estrema prudenza e riservatezza nelle notizie riguardanti suicidi, nella pubblicazione di articoli o nella messa in onda di programmi riguardanti casi di comportamento suicida. Dovrebbe essere stabilito che tale materiale e il modo di presentarlo dovrebbe essere discusso con esperti di comportamento suicida e di prevenzione prima di essere reso pubblico” (20).
Questo appello è molto importante in quanto richiama chi lavora nel settore dei mezzi di comunicazione alla responsabilità derivante dall’influenza esercitata da tali strumenti sul comportamento umano, una responsabilità ricordata anche dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II secondo cui “la situazione nella quale vive l’uomo contemporaneo […] è caratterizzata da una vasta e complessa condizione di schiavitù in campo morale. Il peccato dispone oggi di mezzi di asservimento delle coscienze ben più potenti ed insidiosi che nel passato. La forza contagiosa delle proposte e degli esempi cattivi può avvalersi dei canali di persuasione offerti dalla multiforme gamma dei mezzi di comunicazione di massa. Avviene così che modelli di comportamento aberranti vengono progressivamente imposti alla pubblica opinione non solo come legittimi, ma anche come indicativi di una coscienza aperta e matura. Si instaura così una rete sottile di condizionamenti psicologici, che ben possono assimilarsi a vincoli inibitori di una vera libertà di scelta. Il Vangelo di Cristo deve essere oggi annunciato dalla Chiesa come fonte di liberazione e di salvezza anche nei confronti di queste moderne catene che inceppano la nativa libertà dell’uomo” (21).
Ermanno Pavesi
***
(1) Cfr. il Giornale, 3-9-1990.
(2) Nel 1988 i suicidi in Italia sono stati 3810, cioè 6.6 ogni 100.000 residenti; i tentativi di suicidio nel medesimo anno sono stati 2462, 4.3 ogni 100.000 residenti. Nel 1988 i suicidi di età compresa fra i 18 e i 34 anni sono stati 717 (4.7 su 100.000), e coloro che hanno tentato il suicidio della medesima età sono stati 1025 (6.8 su 100.000); cfr. ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, Statistiche dei suicidi e dei tentativi di suicidio. Anni 1984-88, Collana d’informazione, edizione 1990, n. 13.
(3) Tra il 1° e il 12 settembre 1990 si sono verificati 14 casi di suicidio con i gas di scappamento: cfr. Corriere della Sera, 13-9-1990.
(4) Per una trattazione più approfondita della condizione psichica precedente il suicidio, cfr. il mio Tentativi di suicidio e la loro prevenzione. La sindrome presuicida e la sua evoluzione, in Renovatio, anno XXV, n. 1, gennaio-marzo 1990, pp. 110-125.
(5) Per una trattazione più approfondita dell’effetto Werther, cfr. Ermanno Pavesi e Claudio Pretari, Effetto Werther. L’influenza dei mass-media sul suicidio, in Tribuna Medica Ticinese, anno 55, aprile 1990, pp. 198-201.
(6) Émile Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, trad. it., Rizzoli, Milano 1987, p. 195.
(7) Cfr. Jerome A. Motto, Suicide and Suggestibility. The Role of the Press, in The American Journal of Psychiatry, vol. 124, 1967, pp. 252-256.
(8) Cfr. David P. Phillips, The Influence of Suggestion on Suicide: Substantive and Theoretical Implications of the Werther Effect, in American Sociological Review. Official Journal of the American Sociological Association, vol. 39, 1974, pp. 340-354.
(9) Ibid., p. 352.
(10) Ibidem.
(11) Cfr. Idem, Motor Vehicle Fatalities Increase Just After Publicized Suicide Stories, in Science, vol. 196, 1977, pp. 1464-1465.
(12) Cfr. Idem, Airplane Accident Fatalities Increase Just After Newspaper Stories About Murder and Suicide, ibid., vol. 201, 1978, pp. 748-749.
(13) Cfr. Idem, The Impact of Fictional Television Stories on U.S. Adult Fatalities: New Evidence on the Effect of the Mass Media on Violence, in American Journal of Sociology, vol. 87, 1982, pp. 1340-1359.
(14) Cfr. Ronald C. Kessler e Horst Stipp, The Impact of Fictional Television Suicide Stories on U.S. Fatalities: A Replication, in American Journal of Sociology, vol. 90, 1984, pp. 151-167; e Idem, Clustering of Teenage Suicides After Television News Stories About Suicides: A Reconsideration, in American Journal of Psychiatry, vol. 145, 1988, pp. 1379-1383.
(15) Idem, Clustering of Teenage Suicides After Televison News Stories About Suicides, cit., p. 1383.
(16) Cfr. Madelyn S. Gould e David Shaffer, The Impact of Suicide in Television Movies. Evidence of Imitation, in The New England Journal of Medicine, vol. 315, 1986, pp. 690-694.
(17) Cfr. D. P. Phillips e Daniel J. Paight, The Impact of Televised Movies About Suicide. A Replicative Study, ibid., vol. 317, 1987, pp. 809-811.
(18) Cfr. Armin Schmidkte e Heinz Häfner, Die Vermittlung von Selbstmordmotivation und Selbstmordhandlung durch fiktive Modelle. Die Folgen der Fernsehserie “Tod eines Schülers” [La mediazione di motivazioni suicide e di azioni suicide attraverso modelli fittizi. Le conseguenze della serie televisiva “Morte di uno studente”], in Nervenarzt, anno 57, 1986, pp. 502-510.
(19) Ibid., p. 502.
(20) René F. W. Diekstra, Towards a Comprehensive Strategy for the Prevention of Suicidal Behavior, in Acta Psychiatrica Scandinava, Supplementum n. 354, vol. 80, 1989, p. 22.
(21) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa a conclusione del ritiro mondiale per sacerdoti, del 18-9-1990, n. 2, in L’Osservatore Romano, 20-9-1990.