Sarà bene non sottovalutare la tendenza totalitaria insita nell’attacco portato dal quotidiano La Stampa al Manuale di bioetica del card. Sgreccia.
di Antonio Casciano
Accade talvolta che primarie testate giornalistiche italiane diano spazio a riflessioni estemporanee di autori che si cimentano, con impudente imprudenza, con ruoli che vanno molto al di là della loro stessa capacità interpretativa. Il risultato che ne deriva è spesso una congerie, malamente assembrata, di convinzioni personali, artatamente spacciate per opinioni nate da esegesi improbabili di testi le cui pagine, al contrario, non sono mai state né lette, né tantomeno sfogliate. Così, che il mero “sentito dire” assurge, sulle pagine e nei titoloni di tali quotidiani nazionali, a interpretazione autentica di un intero filone di pensiero, con una leggerezza che dà la cifra della statura ermeneutica di chi la realizza e insieme della dirittura deontologica di chi la pubblica.
Qualche giorno fa, Annamaria Bernardini De Pace, dalle colonne della Stampa, ha duramente criticato il fatto che i due volumi del Manuale di Bioetica (Vita e Pensiero) per complessive 1700 pagine del cardinale Elio Sgreccia siano state adottate in alcuni corsi della Università Europea di Roma. Questo testo, a detta della Bernardini De Pace, conterrebbe «pericolose ed inquietanti affermazioni», volte a veicolare di un modello di educazione «vetero-cattolica, paternalistica e, oserei dire, dittatoriale». Ebbene, le parti del testo che avrebbero indotto la scrivente ad irrompere nella sua sdegnata reazione sarebbero, a dire della stessa, quelle rinvianti a concezioni quali: 1) «solo “l’atto coniugale” è di per sé idoneo alla generazione della prole»; 2) «”oggettivamente”, la sessualità ha un orientamento esclusivamente eterosessuale»; 3) «”il diritto di nascere è il primo vero diritto”»; 4) «il medico, in quanto medico, è chiamato dalla sua professione e dalla propria deontologia a curare e sostenere la vita»; 5) «la legge», sempre secondo il manuale, «non è d’obbligo per nessuno, ma pone il diritto all’obiezione di coscienza».
Orbene, la piena evidenza della verità di tali affermazioni imporrebbe di coprire con un silenzio caritatevole questo che è l’ennesimo tentativo di portare avanti la crociata ideologica globale tesa a riscrivere ab imis la natura dell’uomo e la cultura antropologica che da millenni su di essa si è fondata. Eppure, sebbene la prudenza parrebbe consigliare il silenzio, due parole vanno necessariamente profferite, parole di cautela propter vitandum scandalum vel periculum, per evitare, cioè, tanto lo scandalo di un silenzio che rischia di farsi complice del falso ammantato di verità pseudo-scientifica, quanto il pericolo di divenirne conniventi. Nessuna parola, invece, per “don” Elio Sgreccia, il cui profilo umano, morale e pastorale, per chi ha avuto la fortuna immane di conoscerlo, e la cui statura scientifica ed accademica, per fortuna sempre verificabile per chi volesse accostarsi ai suoi scritti, non necessitano neppure di una virgola, talmente grande e indiscusso è stato il patrimonio ideale, culturale e personale che ha lasciato in eredità all’umanità.
Merita invece una parola il metodo dell’attacco, prima, il merito dello stesso poi. Ebbene, nessuno che abbia mai preso visione delle pagine del Manuale di bioetica di Elio Sgreccia potrà mai tacciare di a-scientificità un tale scritto. Pioniere nello studio della bioetica, lo fu oltre che sul piano dei contenuti, anche su quello del metodo, mettendo a punto il sistema di indagine cosiddetto “triangolare”, rappresentato indicando ai vertici di base, da un lato, l’esame della questione scientifica posta dal caso in oggetto, dall’altro, la soluzione bio-etica e di filosofia della prassi prospettabile, mentre al vertice era solito porre l’inquadramento in termini antropologici del medesimo dilemma. A dire che lo scioglimento del nodo posto da ogni questione bioetica, per definizione problematica, passa sempre attraverso la corretta impostazione epistemologica e metodologica del problema, impostazione che nella sua riflessione sempre procedeva da un’analisi rigorosa del dato reale. Quando l’intelletto giudica adeguandosi alla realtà che trova al di fuori di sé, il suo giudizio è vero. Allo stesso modo, il giudizio etico è corretto solo se il predicato è assegnato al soggetto osservando la natura dell’oggetto reale, esistente al di fuori della mente dell’agente. Ma vi è di più. Il suo resta uno dei pochi Manuali in circolazione a offrire un serio e serrato confronto sinottico tra le molteplici posture morali configurantesi rispetto a ogni singola questione etica, assicurando così agli studenti un approccio autenticamente completo in ordine ai differenti punti di vista espressi e ponendo le premesse necessarie per una effettiva maturazione nel senso critico nei medesimi discenti. Questo ovviamente, senza rinunciare a prendere posizione dinanzi ai dilemmi bio-etici, ma facendolo a partire da una visione teleologicamente orientata della natura e della realtà – natura intesa quinon come relativa alla parte materiale di quella sostanza individuale che è l’uomo, bensì a quella formale, che, seguendo Aristotele, tende verso la perfezione e il bene del soggetto.
Una parola poi nel merito delle notazioni della Bernardini De Pace. Temi quali quelli dell’aborto, della natura ontologicamente orientata della sessualità umana, della morale coniugale connessa al tema della procreazione artificiale, della deontologia medica e dell’obiezione di coscienza, rimangono nel dibattito culturale odierno luoghi concettuali sommamente critici anche grazie all’intrepida battaglia radicalmente contro-culturale che la Chiesa cattolica, con il suo Magistero, continua a portare avanti nel mondo intero. E l’opera intellettuale pionieristica, visionaria per certi aspetti, di don Elio e della scuola che egli ha inaugurato ha rappresentato il fermento per una continua attività catalizzatrice e sistematizzatrice, su questi temi, della morale cristiana classica – basata sul realismo metafisico aristotelico-tomista e, dunque, sulla morale naturale – attraverso i decenni. Dunque, ad egli e a quanti seguono il suo luminoso magistero, andrebbero tributati onori per aver mantenuto una parvenza di pluralità in un contesto globale in cui la spinta per la uniformazione del pensiero è ormai acclarata e incontenibile.
Quelle descritte nel Manuale – a proposito de: il diritto del nascituro alla vita che deve sempre prevalere sul diritto di scelta della madre; il rischio di trasformare la mancata identificazione psichica, nella complessa dinamica edipica, con il genitore dello stesso sesso, in uno stabile orientamento omoerotico, implicante ripiego narcisistico su di sé e mancata conquista del differente da sé; il pericolo di una reificazione della relazione sessuale coniugale allorquando la finalità procreativa è cercata e conseguita a tutti i costi, per mezzo della mediazione pervasiva e spersonalizzante delle tecnica, con ripercussioni inevitabili sulla qualità stessa delle relazioni matrimoniali; la difesa ad oltranza della vita del paziente impressa nel DNA di ogni medico che intenda rapportarsi alla propria professione come a una missione, cui rispondere con l’integrità deontologica richiesta da Ippocrate; la necessità di conservare sempre uno spazio giuridico negli ordinamenti odierni di diritto positivo in cui poter iscrivere il diritto alla libertà di obiettare per insindacabili ragioni di coscienza a leggi giudicate ingiuste – sono appunto verità che abbiamo imparato a derivare dalla natura stessa dell’essere umano, ovvero da ciò che Aristotele definiva come tutto ciò che, uguale a se stesso, «si riscontra che esiste nella maggior parte dei casi» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 71, art 3).
L’autentica legalità e l’autentica moralità, dunque, non nascono mai da una mera convenzione, ma hanno un fondamento nella struttura stessa dell’universo. È questa quella legge iscritta nella natura, costituita da princìpi primi etici auto-evidenti e universali, che intuiamo in modo pre-culturale e meta-storico e che la ratio practica è chiamata a tradurre nelle deliberazioni particolari della nostra condotta. Orbene, per il contenuto di alcune leggi umane, la derivazione dai princìpi primi della legge naturale è razionale, rigorosa, universale, univoca. Si tratta di quelle leggi umane fondamentali, condivise da ogni popolo e cultura, che il diritto romano chiamava ius gentium: il diritto alla libertà di religione, di coscienza, di pensiero, di opinione, di educazione, rientrano, in una maniera universalmente indiscussa, tra queste leggi. È nel nome di questi diritti fondamentali che può essere provata tanto la radicale infondatezza, giuridica, oltre che scientifica, delle argomentazioni della Bernardini De Pace, quanto la liceità di insegnamenti che possono vantare non solo una loro legittimità sul piano epistemologico, scientifico, morale e, più in generale culturale, ma addirittura una doverosità di una loro pubblica veicolazione all’interno di un’istituzione accademica che rivendica una chiara identità cristiana e che in quanto tale conserva un’insindacabile libertà di scelta dei contenuti didattici.
Argomentare a contrario, come ha fatto la Bernardini De Pace, significa indulgere alle pretese, queste sì dittatoriali, di un pensiero unico che, ossessionato da sistemi filosofici difformi da sé, ne nega la cittadinanza culturale e con pervicacia e sistematicità mette a punto tecniche e tattiche diffuse di silenziamento, oscuramento, travisamento degli stessi, nel nome di una pseudo-tolleranza che fa il paio con un relativismo che avversa ogni pretesa di verità, di senso, di autenticità sull’uomo e la sua natura. La libertà di coscienza, residua, allora, almeno come libertà dal dover compiere atti di professione a favore di “credi” che invece avversiamo intimamente e quand’anche questo contenuto minimo della libertà di coscienza, come ebbe a definirlo Carnelutti, commentando l’art. 21 della Costituzione (cfr. F. Carnelutti, A proposito della libertà di pensiero. Risposta ad un sorriso, Il Foro Italiano, Vol. 80, 1957) dovesse essere fagocitato dal sistema di pensiero unico dominante, resterebbe pur sempre l’opzione per la disobbedienza civile o per l’infrazione legale virtuosamente ragionata. La legislazione positiva umana, infatti, deve essere un dictamen rationis, rispettare cioè la legge naturale, imporre i suoi obblighi sempre col fine di accrescere il bene del singolo e insieme quello della collettività. Se questo non accade e i dispositivi giuridici vengono piegati a interessi di parte (o agli interessi personali di chi detiene il potere), allora la legge degenera in una lex tyrannica, configurandosi come una perversitas legis che della legalità vera e propria mantiene solo il formalismo e la coercitività. (Tre condizioni, secondo S. Tommaso, rendono giuste e vincolanti in coscienza le leggi positive umane: (i) ex fine, l’essere orientate al bene comune; (ii) ex auctoritate, il non eccedere le competenze del legislatore; (iii) ex forma, l’imporre oneri in modo commisurato proporzionalmente alle possibilità dei diversi sudditi e sempre finalizzato al bene comune. Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 96, art 4).
Venerdì, 1 gennaio 2021