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Sulla pace

28 Dicembre 1983 - Autore: Giovanni Cantoni

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 101-104 (1983)

 

Spunti di meditazione sui rapporti tra la pace, la guerra guerreggiata e quella psicologica, la giustizia e il dialogo per la verità.

 

In margine alla ondata pacifistica

Sulla pace

 

In questi ultimi mesi, signo dato, è esplosa in tutta Europa – ma non soltanto in essa – una autentica offensiva pacifistica, alla quale si sono contrapposte manifestazioni dirette, almeno nella intenzione dei loro promotori, a mostrare «l’altra faccia della pace».

Alle concentrazioni di folla inneggianti a questa o a quella pace – sempre presentata come la pace tout court – si è affiancata una battaglia propagandistica non meno intensa, condotta a colpi di dichiarazioni di questa oppure di quella autorità sociale – con particolare riferimento e attenzione alle prese di posizione di. singoli e di organi esprimenti autorità spirituale – e veicolata dai mass-media nelle loro più diverse modalità.

Il risultato, immediato almeno, di questa autentica bagarre, è uno stato confusionale in cui versa l’uomo della strada, non protetto da adeguata fortificazione dottrinale, ma esposto pluralisticamente alla molteplice aggressione emotiva e propagandistica.

Stando così le cose, mi sembra di qualche utilità tentare un approccio al tema «pace» facendo appello a categorie del senso comune, o buon senso, che si devono immaginare latenti in ogni uomo, per quanto eventualmente sopite, e ciò tino a prova contraria.

Pace, si dice, è un valore; anzi, un valore grandissimo. Come ogni valore umano, è un valore relativo alla vita degli uomini, cioè propriamente caratterizzante una situazione esistenziale non conflittuale, non di contrasto che trasformi ogni diversità in occasione di violenza; e non solo relativo alla vita tra gli uomini, ma anche alla vita negli uomini e allo stato delle potenze della loro anima, come indicano, per esempio, le dizioni «pace dei sensi» e «pace interiore».

Più organizzatamente suggeriscono corretti approcci al tema formule come «essere in pace con Dio», «essere in pace con sé stessi», «essere in pace con gli uomini». Infatti, «essere in pace» si traduce facilmente nel non avere una situazione conflittuale, nel non essere in contrasto rispettivamente con Dio, con sé stessi e con gli altri. Ancora, e meglio: «essere in pace» significa avere instaurato e rispettare un rapporto di giustizia con qualcuno, cioè, secondo le ipotesi richiamate, con Dio, con sé stessi e con gli altri uomini; e avere instaurato un rapporto di giustizia significa avere dato e dare con costante volontà a ciascuno il suo, rispettando i patti.

Vivere in un rapporto di giustizia con Dio, con sé stessi e con gli altri equivale a rispettare l’ordine morale nella sua integralità, e il rispetto di questo ordine produce quella tranquillità nella quale sostanzialmente e ultimamente consiste la pace.

Questo breve excursus dottrinale, che mi ha permesso di riconquistare la definizione agostiniana secondo cui la pace è la tranquillità dell’ordine (1), offre parametri per giudicare le espressioni di pacifismo di cui siamo in molteplici occasioni e con diverse cadenze testimoni, per di più insistentemente invitati al protagonismo.

Dunque, pace è puramente e semplicemente assenza di guerra, come suona la definizione più grossolana? No, con ogni evidenza, se questa assenza di guerra non è frutto di giustizia. Ora, per esempio, si può dire di essere giusti verso Dio non difendendo con ogni forza la condizione senza la quale non gli si può piacere, cioè la fede, e, quindi, le condizioni del suo integro apprendimento e della sua pratica integrale? Ancora, si può sostenere di essere giusti verso gli altri non proteggendo adeguatamente la possibilità reale di ciascuno di fruire di tali condizioni, e anzitutto di coloro dei quali siamo immediatamente custodi, e che costituiscono il nostro prossimo più prossimo?

Stando così le cose, di nuovo, se è pacifico e operatore di pace chi la persegue attraverso la instaurazione dell’ordine da cui deriva la tranquillità, si può allo stesso titolo chiamare pacifico e operatore di pace chi tale tranquillità e tale ordine non persegue, ma pace chiama sostanzialmente la fittizia eliminazione di ogni contrasto, cioè l’accettazione del disordine organizzato – e talora ferreamente organizzato! – e dell’agitazione che da tale disordine consegue?

Ma se pace non è puramente e semplicemente assenza di guerra, la guerra guerreggiata non è l’unico modo per turbare la pace. Chi non sa, ormai, che la moderna classificazione dei conflitti comprende anche la guerra rivoluzionaria, e la sua espressione psicologica, così importante per la conquista del consenso e della pubblica opinione nei regimi cosiddetti democratici? Chi, dei nostri contemporanei, ignora la «guerra di classe», meglio nota come «lotta di classe»? Ora, che rapporto hanno la guerra psicologica e la lotta di classe con la pace? Non basta la loro presenza oppure la loro promozione a turbare la pace e a fare realisticamente parlare di guerra?

Nella stessa prospettiva, come non distinguere la guerra come lotta per la instaurazione dell’ordine, dalla guerra come turbativa dell’ordine fondato sulla giustizia, e, quindi, portatore di tranquillità? Più precisamente, come non distinguere tra la guerra giusta e la guerra ingiusta, cioè definita da un fine ingiusto, e la guerra empia, caratterizzata da una condotta senza freni né naturali né positivi, come di fatto è la guerra rivoluzionaria?

Questa concatenazione di quesiti, non certo esauriente, credo comunque basti a mostrare come ogni serio discorso sulla pace e sulla guerra rimandi teoreticamente a un discorso sulla verità e sull’errore e, praticamente, a un discorso sui comportamenti pubblici e privati che ne conseguono logicamente. Cioè, in altre parole, alla verità come «forza della pace»_ in quanto unico serio «fondamento della pace». Tralasciando ogni riferimento alla paura – certo non trascurabile a fronte del pericolo costituito dalla guerra moderna -, come non individuare correttamente, dietro tanta pace enfaticamente evocata, una semplice richiesta di tregua, intervallo tra fasi di guerra guerreggiata? E nel dialogo, che non sia chiacchiericcio di perdente, la espressione di una lotta non meno radicale tra verità ed errore, destinata a trasformarsi in guerra guerreggiata tutte le volte che, di fronte alla evidenza, chi impugna la verità in modo pertinace trascende in menzogna e, quindi, quando la menzogna viene: denunciata e smascherata, passa a pratiche di violenza, che vanificano il dialogo stesso? Di conseguenza, non mostra di amare seriamente il dialogo per la verità chi non si impegna a proteggerne le condizioni, fra le quali primeggia la libertà.

Un’attenzione superficiale alla interazione tra dialogo per la verità e guerra, ai rapporti tra lotta dottrinale e scontro materiale, nella prospettiva di sottrarsi a entrambi, quindi di salvare la vita rinunciando alla verità, equivale, anche solo naturalmente parlando, a «per la vita perdere le ragioni di vita» (2).

Quale il giudizio, infine, su chi trascura gli aspetti soprannaturali del problema?

Giovanni Cantoni

 

Note:

(1) Cfr. SANT’AGOSTINO, De Civitate Dei, 19, 13.

(2) GIOVENALE, Satira VIII, v. 84.

 

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