Tutti, nell’adolescenza, abbiamo dei dubbi, ma essi non sono fatti per essere assecondati, magari chimicamente
di Chiara Mantovani
La scrittrice Susanna Tamaro, sul Corriere della Sera di domenica 11 febbraio, riflette e narra del suo disagio infantile. Fin qui assomiglia al racconto che spesso ritorna in tante esperienze. La sorpresa, per certe ferree convinzioni che oggi vanno tanto di moda, arriva quando si scopre che proprio quel tumultuoso periodo della vita chiamato adolescenza le ha portato la sicurezza che cercava: «tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina»!
Questo bagno di realismo, nonostante una «sofferenza diventata incontenibile», ci riporta con i piedi per terra: sperando che l’ubriacatura ideologica di una sessualità ridotta a genitalità passi presto, sembra che la ricetta di generazioni precedenti possa ancora essere utile. Da riassumersi in poche parole: comprendere, rispettare, pazientare.
Comprendere il disagio: capirlo fino in fondo, senza fermarsi allo stereotipo del camaleonte: l’uomo non cambia a secondo dello sfondo culturale che lo circonda.
Rispettare il processo di crescita: tutta la vita si sviluppa anche tramite le esperienze – che non la definiscono poiché la vita è, non diventa – ma che non ci lascia mai fissati per sempre. Nel linguaggio dell’esperienza religiosa, questa è la conversione.
Pazientare nell’attesa: per capire e per capirsi ci vuole tempo, quel tempo che è dimensione essenziale sotto il sole. Senza contare che ogni vita è, di fatto, un’attesa.
Certo, dopo il ’68 l’imperativo è duplice: tutto e subito. Paradossalmente, ma poi non tanto, la pretesa della libertà assoluta diventa un casellario rigido, seppure dettagliato. Non c’è spazio per l’incertezza, per ripensare e formarsi, mentre si confronta la realtà con le proprie fantasie.
Ciò che in questi giorni agita molti confronti e dibattiti, ovvero l’uso di un farmaco che blocca lo sviluppo puberale, inizia ad essere un interessante segnale di critica onesta. Non c’è modo di sapere a che cosa porterà, e in quanto tempo, perché di fatto c’è di mezzo molto più di un semplice interrogarsi sull’uso di una molecola. C’è un’antropologia, a dire il meno fantasiosa, che inizia a fare i conti con la realtà: non è ragionevole, per inseguire i turbamenti di un bambino che sta cercando il suo posto nel mondo, saper offrire solo una medicina che contraddice ogni sua singola cellula. La triptorelina non può essere l’alternativa all’educazione, ovvero quell’atto profondamente umano, perché divino, che sa far scoprire ad ogni persona la propria natura e ciò che garantisce la sua dignità.
La scrittrice triestina, pur con qualche indulgente concessione all’idea di autodeterminazione nell’età adulta, che a mio avviso indebolisce un po’ la razionalità delle argomentazioni ontologiche, fa un’essenziale e ben condivisibile affermazione che potrebbe essere, in un certo modo, il punto di ripartenza per una fruttuosa analisi critica: «la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri».
Perché pagare indebitamente il prezzo di «un errore della mente»?
Lunedì, 12 febbraio 2024