Il 5 giugno ricorre il primo anniversario della morte del Cardinale Elio Sgreccia, spentosi esattamente un anno fa, nella sua dimora romana, un giorno prima del suo 91° compleanno. Il vuoto che ha lasciato, dal punto di vista umano, spirituale e intellettuale è incolmabile, come incommensurabile è stata la portata profetica della sua pioneristica attività, accademica e scientifica, nell’ambito di una disciplina, la bioetica, che più di qualsiasi altro ha contribuito, negli anni, a rendere centrale nel dibattito pubblico. Qui la testimonianza minima di un discepolo minimo, abbozzata con il solo intento di onorare il dovere di verità e il debito di riconoscenza che “insistono” sullo scrivente. Esigenze di concisione impongono una trattazione puntuale, che sarà incentrata intorno a tre nuclei, delineanti in nuce il lascito che l’intera comunità della teoresi bioetica ha ricevuto in eredità da don Elio.
In primis il suo metodo “triangolare” di indagine e di risoluzione dei dilemmi bioetici. Era solito descriverlo, durante i suoi corsi, servendosi appunto di tale figura geometrica che rappresentava indicando ai vertici di base, da un lato, l’esame della questione scientifica posta dal caso in oggetto, dall’altro, la soluzione bio-etica e di filosofia della prassi prospettabile, mentre al vertice era solito porre l’inquadramento in termini antropologici del medesimo dilemma. A dire che lo scioglimento del nodo gordiano posto da ciascun caso bioetico, per definizione problematico, passava attraverso la corretta impostazione epistemologica e metodologica del problema, impostazione che nella sua riflessione sempre procedeva da un’analisi rigorosa del dato reale. In questo senso, si compiaceva di riconoscersi debitore del realismo analitico classico e di professare la sua fedeltà alla dottrina tomista della verità come adaequatio. Quando l’intelletto giudica così, adeguandosi cioè alla realtà che trova al di fuori di sé, il suo giudizio è vero. Io credo che Don Elio intendesse il primato dell’osservazione del reale come un passaggio obbligato per il ritorno alle verità ultime ed eterne sull’uomo, sulla sua natura ontologicamente normativa e sulla sua dignità trascendentale, per il ritorno cioè a un personalismo forte, metafisicamente fondato, e come tale capace di arginare le pretese sempre più assurde e antiumane che si originano dal soggettivismo etico, dall’individualismo solipsista, dal narcisismo transumanista, dal delirio di onnipotenza tecnocratico che pervade il nostro evo rivoluzionato.
In secundis, ci ha lasciato come missione della bioetica quella di un impiego operativo – non solo medico-clinico, ma anche civico-educativo – del suo sapere transdisciplinare. Era solito esprimere un tale auspicio reclamando, in pubblico come in privato, “la necessità per la bioetica di uscire dalle università, dall’accademia”, così da andare incontro alle necessità cangianti e sempre più complesse di una società in attesa di una rinnovata opera di propagazione apostolica dell’Evangelo della vita. Non ha mai smesso di pensare all’impegno del bioeticista come a una missione, ecclesiale e sociale, avente per oggetto il kerygma del miracolo della vita, senza possibilità che di essa se ne potesse accettare una qualche graduazione in ragione di facoltà ascrivibili a una concezione funzionalista e utilitarista della persona. Il rigore dell’impegno scientifico, nella sua ottica, giammai avrebbe dovuto disgiungersi da un serio impegno a favore della pastorale della vita, anzi le due dimensioni, a suo dire, avrebbero dovuto essere coniugate per mezzo di un adeguato percorso curriculare già all’interno dell’accademia, prospettando così l’urgenza di un ripensamento ab imis dei percorsi formativi, sanitari in primis, che riproponesse la preoccupazione per una formazione umana integrale, di newmaniana memoria, dei discenti.
Infine, un monito. Negli ultimi tempi, quando all’intensità vibrante di sempre dei nostri colloqui andavano sostituendosi incontri per lo più brevi, monologici, intervallati da lunghe pause di silenzio meditativo, speculativo, spesso orante, era solito congedarsi da me ricorrendo a una frase che ha riproposto, come una sorta di fil rouge, anche nella sua ultima autobiografia – Controvento. Una vita per la bioetica, Effatà Edizioni (2018) – e con la quale autografò lo stesso testo all’atto di inviarmelo all’inizio del 2019: “Il meglio ci è sempre difronte ed è sempre possibile”. Anche in questa frase, mi pare di cogliere non tanto l’ottimismo finalistico proprio di chi aderisce ad una visione teleologicamente orientata della natura e della realtà – natura intesa quinon come relativa alla parte materiale di quella sostanza individuale che è l’uomo, bensì a quella formale, che, seguendo Aristotele, tende verso la perfezione e il bene del soggetto – né semplicemente il carattere aforismatico dell’apoftegma con cui il saggio suole congedarsi dal mondo. Certo, vi era tutto questo, ma anche di più. Vi era in queste parole il riverbero di un’esistenza vissuta nella luce di una fede adamantina ed incrollabile, che faceva dell’umiltà disarmante nelle relazioni e dell’obbedienza a oltranza alla Chiesa, i due baluardi su cui poggiare una visione del mondo e dell’uomo “positiva”, perché ultimamente còlta nella trasparenza di una concezione della storia che credeva innervata dalla Grazia, dal sereno dispiegarsi, tra le vicende alterne del tempo, di un Disegno sapiente, la cui trama sapeva di non conoscere in pienezza, ma del cui ordito si sentiva parte integrante, filo d’oro chiamato a intessere relazioni di senso con culture, visioni e narrazioni che, ancorché differenti o addirittura antitetiche rispetto alle proprie, non si stancava di richiamare all’imperitura validità delle verità cristiane, per la difesa e la propagazione delle quali ha speso la sua vita.
Venerdì, 5 giugno 2020